L’inconsistenza logica del populismo
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Antonio Romano)
Il populismo, sintomo indicante l’esistenza del popolo, è formazione illogica e fantasmatica dell’élite: corpo sociale capace di suscitare atteggiamenti ideologici da usare a proprio uso e consumo per destabilizzare e scuotere i regimi esistenti
Uno spettro si aggira per l’Europa, anzi, per tutto il mondo: il populismo. Se si cerca di darne una definizione è difficile uscire dalla formula “ribellione delle masse” o da una serie di distinguo fra populismo di destra e di sinistra, personalistico e carismatico, latinoamericano e nordamericano, luddista e tecnocratico e così via. Ma alla fine, dal punto di vista dell’operatività, ci si rende conto che la parola che dovrebbe supportare il concetto è l’unica cosa scambiabile, essendo il concetto non ben afferrabile. Acquisisce significato pressappoco solo per le élite, che vedendo il fenomeno da fuori riescono benissimo a indicare chi e cosa è populista, non riuscendo però ad arrivare a una formalizzazione che renda il concetto davvero utile come criterio classificatorio. Insomma, “populista” non serve a orientarsi fra i fenomeni, se appena li si guarda da vicino con più rigore.
Ma possiamo chiamarlo spettro con ottime ragioni, prima delle quali è che, pur non sostanziandosi come magari fanno le categorie storiche (socialista, gollista, liberale, radicale ecc.) in un’identità definita, riescono a smuovere la paura e l’obbedienza, né più né meno che il fantasma del padre di Amleto, pur con tutte le resistenze che si notano in lui nell’adempiere alla vendetta (come dice anche Freud, Amleto sembra pensare troppo prima di agirla).
Se empiricamente riesce facile dire cosa è o no populista (e ciò rende popolare la parola), da un punto di vista logico sembra perfettamente fantasmatica (cosa che rende inapplicabile il concetto, che o rimane nel vago o deve essere puntellato da restrizioni e specifiche): populista sembra poter essere tutto e tutti, dagli ambientalisti ai fossilisti.
Siamo appena usciti da un populismo “carino” e postmoderno, in cui le verità sono relative, in cui non esistono scontri di religione, in cui la storia (ammesso non sia finita) va verso magnifiche sorti progressive, e siamo entrati in un populismo “maleducato” e premoderno in cui bisogna chiudersi a riccio e ripensare i confini. Questo camaleontismo prospettico non è sintomatico di quella conformazione empirica che dà alla parola la sua aura di utilità, in modo che – come l’anamorfosi – appaia e scompaia a seconda di dove ci si mette a guardarla?
In questo insieme eterogeneo starebbero Renzi, Salvini, Grillo, Trump, Obama, Clinton (H.) e molti altri, basta andare a rivedere qualche cronaca per accorgersene: alla fine quasi tutti i leader politici si sono beccati, quasi sempre a ragione, del populista perché qualsiasi misura intrapresa che si appelli al popolo o alla sovranità popolare, a guardarla da un certo punto, potrebbe connotarsi come tale. Il problema è forse quello di appiattire la parola e il concetto su quelli ancor meno definiti di “popolo”, che – salvo definizioni sommarie – non riesce a trovare una formalizzazione. Anzi, sembra proprio che sia il populismo il sintomo che indica, da qualche parte, l’esistenza del popolo in quanto soggetto. Non è forse banale rimarcare che non tutto il popolo è populista e che, se il popolo non è soggettivabile, invece populismo sembra esserlo. Se non fosse una riduzione del soggetto a effetto del suo sintomo, potremmo perfino dire che è il populismo che suscita il popolo nell’odierno clima astensionistico.
Quando diciamo che il M5s è populista, lo diciamo “in un certo senso”, perché mentre in televisione imperversano i “portavoce” del Movimento e dal sacro blog giungono proposte che si sarebbe tentati di definire peroniste, in Parlamento i deputati del Movimento spingono per l’eutanasia, abbracciando qualcosa di molto poco populista, almeno in Italia. Ma allo stesso tempo potrebbe valere per altre formazioni cosiddette populiste che, se dovessimo includere in un insieme P di tutte le formazioni populiste, finirebbero per cascarvi fuori almeno per un lembo. È questo probabilmente il vulnus più evidente della categoria populismo, ciò che lo rende intuitivo e poco formalizzabile.
L’insieme P sembra allora manifestare la curiosa caratteristica di essere contemporaneamente uguale a sé stesso, dotato di un’identità palese, e inadeguato nell’applicazione formale. All’opposto della tradizione socialista – in cui l’insieme S si spariglia e fraziona autonomamente secondo distinzioni sottilissime – P è già sempre frazionato e sparigliato, inappropriabile.
Dà l’impressione di essere come la classe delle classi che non si appartengono del celebre paradosso diRussell, che comparve inizialmente in una lettera al logico matematico Frege (il quale, dopo averla letta, non riuscì mai a completare la pubblicazione del proprio sistema):
Sia ω il predicato: essere un predicato che non può essere predicato di se stesso. Si può predicare ω di se stesso? Da ogni risposta segue l’opposto. Bisogna dunque concludere che ω non è un predicato. Allo stesso modo, non esiste una classe (come totalità) di quelle classi che come totalità non appartengono a se stesse. Ne concludo che in determinate circostanze un insieme definibile non forma una totalità
Se diciamo che ω è nella propria classe lo dobbiamo escludere, se lo escludiamo deve automaticamente rientrarvi.
Se sostituiamo P a ω la cosa diventa forse più chiara: come la Lega non è il leghismo (il leghismo sembra aver dimenticato la secessione) e il M5s non è il pentastellismo (vedi l’eutanasia), così il popolo non è inseribile nella classe P. Anzi, proprio per la natura non soggettivabile del popolo, il populismo sembra essere una formazione illogica e fantasmatica di un altro decisamente soggettivabile: l’élite stessa, che se ne serve come ombrello omnicomprensivo.
In effetti, di cosa si accusano i populisti e le élite? Di non agire (i primi ai secondi) e di non pensare (i secondi ai primi), come Amleto, che accusa chi pensa troppo di non agire, per poi ritrovarsi a pensare troppo anziché agire la vendetta. Dipende appunto da dove si guarda o, ulteriore complicazione (tanto che in logica si preferisce tenere il tempo costante), quando si guarda. Forse, da questo punto di vista, Trump come Berlusconi sono esemplari di élite che suscitano populismo.
La politologa Nancy Bermeo, nel libro Ordinary people in extraordinary times (2003), è di questo avviso: sono le élite che, tra le due guerre, hanno destabilizzato, più o meno scientemente, i regimi esistenti. E ciò, ancora, dovrebbe farci osservare meglio quale soggetto è afflitto dal fantasma di P. Del resto, su cosa riflette (o si riflette) il cosiddetto “ceto medio riflessivo”?
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/filosofia/logica-populismo-elite/
Commenti recenti