Aiutiamoci a casa nostra
di ALBERTO BAGNAI
Ho poco tempo (scadrà quando Marta arriverà in ufficio), e vorrei condividere con voi qualche riflessione non tecnica. Il tempo della “tecnica”, d’altra parte, è finito. Quelli di voi che potevano capire “tecnicamente”, hanno già sufficienti strumenti. Chi non poteva (l’adorabile Nat, per la quale una sottrazione – perché un saldo questo è – si configura quale paradosso logico insormontabile) è vergine (intellettualmente, dato che mi risulta abbia un paio di figli e non vada in giro con un manti azzurro), e ci ha pensato il carisma. Certo, potremmo andare oltre, e ci divertiremmo molto.
Ma dovrei fornirvi (e lo farò) alcuni rudimenti minimi di statistica: diciamo, portarvi al test della t di Student, in modo da farvi apprezzare la mediocrità del male, lo squallore di certe analisi mainstream, che si traduce anche (spesso e volentieri) nell’evanescenza dei risultati sotto il profilo statistico. Certo, imponendovi un po’ di econometria for dummies vi renderei il grande favore di farvi sentire inteligenti, vi darei altri argomenti per battibeccare coi piddini (attività che suscita in me profondo disprezzo per chi vi si dedica, da entrambi i lati del vuoto dialettico). Ma mi sembra che ci siano esigenze più pressanti da soddisfare: la nostra democrazia è in pericolo: un pericolo per sua natura insidioso e diffuso.
Non sono un politologo, quindi non so cosa sia la democrazia tecnicamente. Emotivamente, tenderei a definirla come un regime politico che dà libertà di espressione, che dà voice, come dicono (per una volta in modo espressivo) i nostri fratelli britannici. Per avvelenare la democrazia, quindi, basta fare una semplice operazione: inquinare il linguaggio. Questa è l’attività alla quale i media, che sono il nemico prossimo della democrazia, il suo assassino (il mandante essendo il capitale), si dedicano con tenacia e sagacia, come il post precedente dimostra.
Non c’è (ancora) bisogno di censura, di limitazione “esogena” della libertà, di costrizione. Non ci trattano come trattarono Gramsci perché hanno trovato un modo più efficiente (in quanto massivo e politicamente sostenibile) di “impedire ai cervelli di pensare”: impadronirsi del linguaggio e sovvertirne l’uso, impedire che le cose vengano chiamate col loro nome, e in limitatissimi casi addirittura criminalizzare l’uso del termine lessicalmente corretto, in nome del politicamente corretto. L’impedimento, col tempo, diventa endogeno: disapprendiamo la nostra lingua, e così perdiamo la capacità di rappresentare (e quindi di far comprendere, ma anche di comprendere) i processi in atto.
Quando si arriva a questo punto abbiamo perso, perché scompare, in effetti, lo stesso terreno di scontro: avere voice non serve più, perché così come non si può combattere senza conoscere il linguaggio del nemico (indispensabile per comprenderne e prevenirne le tattiche), è evidentemente utopistico pensare di vincere una battaglia politica usando il linguaggio del nemico: se le sue parole diventano le tue, il tuo discorso, fatti salvi casi di eccezionale talento, fatalmente diventa il suo.
Non è che questa sia una novità, per chi segue questo blog, o, per altri versi, il blog del Pedante (epigono di grande talento: avercene!), e non è certo una novità per chi si sia ormai deterso la ricottina del rigurgito dalla nascente peluria. Quelli della mia età si ricorderanno di come il capitale, negli anni ’80, ci fece digerire la nostra sconfitta propugnando l’idea che tutti fossimo capitalisti: la nostra sconfitta, cioè la liberalizzazione dei mercati finanziari, ci veniva presentata ossessivamente, insistentemente, come una nostra vittoria, come la possibilità di essere tutti azionisti.
Peccato che il mercato finanziario, per sua natura, in tanto è efficiente in quanto veicoli correttamente le informazioni, e che nella vita vera l’informazione non sia diffusa, atomistica, simmetrica, gratuita, come dovrebbe essere per assicurare mercati efficienti, ma sia circoscritta, concentrata, asimmetrica, monopolistica, in mano a quelli che dai mercati traggono benefici esorbitanti, ovviamente a scapito di perdite altrui esorbitanti nel totale, ma individualmente sostenibili, di norma, perché ripartite su un gran numero di “buoi”.
Ci voleva molto a capirlo?
No: sull’argomento, di per sé non impenetrabile, giravano anche film di discreto successo!
Ma è bastato sedare, in forme e modi che gli storici appureranno, chi doveva difendere gli interessi contrapposti a quelli del capitale, per rendere questa storiella della fine delle classi sociali totalmente egemone. Per l’uomo “de sinistra” odierno, un operaio è un Marchionne che non ce l’ha fatta: e come è merito di Marchionne se ce l’ha fatta, è demerito dell’operaio se guadagna una frazione infima di quanto guadagna il simpatico manager che non si sa annodare una cravatta (ed è pertanto caro ai nostri progressisti, i quali sono restii ad annodarsi qualcosa intorno al collo, forse perché sanno di meritarselo).
Questa mortificazione del linguaggio, questo avvelenamento della democrazia, procede, facendo strame (tra l’altro) di tutte le istituzioni nelle quali ritenevamo di poter aver fiducia, e che invece si sono dimostrate del tutto allineate a un semplice modello concettuale: chi viene finanziato con soldi pubblici in un contesto in cui lo Stato è catturato da interessi economici si allinea al pensiero unico del capitale e se ne fa docile servitore. Pensate, tanto per fare un esempio, allo squallore di Bran Academy, di cui nel 2010 si discusse la chiusura, che poi non avvenne.
Grati del salvataggio, gli illustri cattedratici si sono dati a esercizi meramente accademici, come sindacare su chi usasse il termine bail in, ma, attenzione!, non l’hanno fatto per difendere l’uso di una lingua che forse non conoscono (al cruscologo dauno o camuno, con tutto l’amore che ho per questi territori, credo poco, scusatemi: anche l’italiano va aiutato a casa sua…), ma per intorbidare ulteriormente le acque. Il bail in, infatti, non è un “salvataggio dall’interno”, come qualche sprovveduto funzionale alle logiche del sistema andava sostenendo, forse aspettando una carezza del Capitale (sotto forma di elemosina per tirare avanti ancora un po’…), e non lo è non solo perché non salva un bel nulla (tant’è vero che, come sapete, le banche italiane sono state lasciate in stato di marcescenza nell’attesa che i regolatori europei trovassero un modo onorevole per disapplicare le norme che essi stessi avevano disegnato e di cui ci avevano eletti a cavie, distruggendo, invece di salvarle, alcune banche e alcune vite), ma anche perché esiste una legge universale, che travalica i confini delle singole discipline:
è quella che rende esagonali le celle delle api, è quella che ci fa percepire una frattura del remo nel punto in cui si immerge in acqua. La Natura segue percorsi di minimo, è ottimizzante, aborre gli sforzi inutili, e così – vi assicuro – nonostante le apparenze, fa l’arte, e così fa il linguaggio (ed è questo, fra l’altro, che assicura l’osmosi perenne fra una lingua e l’altra: la scoperta di modi più sintetici ed espressivi per esprimere un concetto).
Avete contato i caratteri di “salvataggio dall’interno”? Bene: ora contate i caratteri di “esproprio”. A occhio sono di meno, no? Chi vi dice di difendere il linguaggio usando una circonlocuzione prolissa e concettualmente falsa invece di un termine conciso, espressivo, e corretto, non sta difendendo il linguaggio: sta difendendo il capitale.
La Crusca, di cui mi venne detto avesse fatto simile lavoro (coi soldi nostri), o i Lincei, dove ancora troviamo queste slides (particolarmente poco pregevoli, soprattutto per come insultano il paese valutando il merito dei suoi governi sulla base delle copertine della grande stampa internazionale, prona ad interessi esplicitamente avversi alla nostra costituzione democratica), dovranno essere affidate a quel mercato che con tanta passione hanno difeso, e che farà di loro strame come meritano. C’è chi paga per fottere: io certamente non pago per essere fottuto.
L’economia, si sa, è cosa difficile. Laggente (ma anche Nat) non capiscono che se escono più soldi di quanti ne entrano alla fine c’è un probblema. Mettere un segno più davanti a quanto entra, e un segno meno davanti a quanto esce, è tecnicismo astruso, per molti, è sforzo di astrazione che a molti appare sterile. Il caparbio rifiuto ideologico (perché questo è) di utilizzare un linguaggio meno ambiguo (quello dei più e dei meno) espone così i volenterosi critici del sistema, quelli che hanno intuito che qualcosa non va, ad allinearsi, insensibilmente, involontariamente, inconsciamente, ai suoi volenterosi carnefici.
Ma il Signore è misericordioso, a modo suo, e, come la Bibbia in mille occasioni ci rammenta, ci invia segnali. Ecco: la cosiddetta “crisi” dei cosiddettissimi “migranti” possiamo anche vederla come un segnale: un segnale importantissimo e utilissimo per capire in che modo il capitale arma i suoi sicari (i media) per uccidere la democrazia.
Già parlare di “migranti”, come sapete, è una lieve forzatura del linguaggio. Queste persone per l’Italia non sono “migranti”, e infatti nelle statistiche ufficiali di “migranti” non si parla, ma di “immigrati”. L’uso di un termine tecnicamente scorretto, quando non lessicalmente improprio, dovrebbe suscitare sospetto: sospetto che diventa certezza quando si veda, come non vogliono farci vedere (e quindi non vediamo), che negare l’uso del termine “immigrati” significa negare la legittimità del nostro punto di vista, il punto di vista di un paese in cui la disoccupazione è raddoppiata e la povertà triplicata in pochi anni come risultato di precise scelte politiche, dettate da regole adottate per precisi motivi di distribuzione del reddito.
Il nigeriano col quale ho parlato venendo dalla Bios all’ufficio non è un migrante: è un emigrato (dalla Nigeria, per motivi da approfondire) ed è un immigrato (in Italia, con conseguenze da approfondire). Così figura (se figura) nelle statistiche del suo e del mio paese: questo è il dato. Ma il dato è amico della verità, quindi nemico del capitale e della sua simpatica favoletta.
Basterebbe questo (e, del resto, ora devo smettere: è appunto arrivata Marta) per far capire come stanno le cose.
Ma forse qualche elemento di riflessione in più occorre darlo, tanto per portare elementi di verità nel discorso: cose che sapete, ma che mi sento di ripetervi per giustificare la mia ambizione di essere nominato miglior sito politico e d’opinione ai prossimi MIA17.
Intanto, torniamo all’inciso: se (il simpatico nigeriano) figura (nelle statistiche). Ecco, forse dovremmo ricordarci che se ci sono delle leggi, sia nazionali che internazionali, a disciplinare l’ingresso di esseri umani (come di qualsiasi altra cosa, peraltro) in una data polity, in una data comunità, chi le viola è per definizione un criminale, un delinquente (e chi lo aiuta, come le ONG, concorre al delitto, e chi non se ne distanzia con vigore, come nessuna delle ONG asseritamente “nobili” ha fatto, purtroppo, si merita il sospetto nel quale incorre – e che potrà quantificare fra due anni alla liquidazione del 5×1000).
Poi, si può discutere delle motivazioni per le quali si è spinti a delinquere, e naturalmente c’è chi è chiamato a valutarle. In un ordinamento democratico, però, questo “qualcuno” è l’ordine giudiziario, che lo fa secondo le norme che la polity in questione si è data. Non dovrebbero farlo i giornali. Ma lo fanno. Quando un giornale si rifiuta di chiamare clandestino chi è clandestino, o quando emette in prima pagina su cinque colonne una sentenza di condanna verso chi magari non ha nemmeno ancora ricevuto un avviso di garanzia, sta facendo esattamente la stessa operazione (anche se in un caso né noi né lui ce ne rendiamo conto): si sta sostituendo alla magistratura.
Perché, vedete, è un dato di fatto: un conto sono i rifugiati, e un conto gli immigrati. Se ci sono due parole diverse, un motivo ci sarà. E un conto sono i naufraghi, e un altro conto sono i passeggeri (per quanto pericoloso sia il mezzo che sono stati criminalmente indotti a scegliere). Anche qui, se ci sono due parole, un motivo ci sarà.
Riflettiamo sui rifugiati: persone i cui diritti politici o civili (o, in generale, umani) sono gravemente lesi nel paese in cui risiedono. Anche qui, la mia definizione è sbrigativa. Quella corretta esiste, ed è data dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifiugiati. Ora, si potrebbe andare sul tecnico, sul difficile… ma andrò sul semplice, dove non vogliono che andiate perché potreste capire cosa sta succedendo. Il semplice fatto che esistano dei rifugiati, cioè persone delle quali è ufficialmente riconosciuto che devono abbandonare una polity e muoversi in un’altra per potersi realizzare come esseri umani, per potersi esprimere, ci fa capire quanto sia essenziale, in termini di promozione umana e di protezione dei diritti universali dell’uomo, che esistano polity diverse.
E in cosa si traduce, concretamente, l’esistenza di diverse polity? Nei confini che le separano. A me fa tenerezza, ma anche un po’ paura e molto schifo, che ci sia chi, sdilinquendosi ostentatamente per il debole e l’oppresso (rigorosamente altrui), propugna l’abolizione delle frontiere. Un mondo senza confini è come un corpo senza membrane cellulari: un simpatico lago di citoplasma, che il sole di questi giorni farebbe evaporare nel giro di un quarto d’ora. I rifugiati sono persone che hanno necessità di superare un confine per pensare diversamente, e questo semplice dato strutturale ci fa comprendere che chi è sinceramente amico della diversità e della possibilità di esprimerla deve difendere le frontiere (non mi addentro sul fatto che questo sarebbe anche un obbligo imposto dal Trattato di Schengen – basta leggere il Capo II dell’Accordo di Schengen).
Ma per qualche strano motivo, gli amici della “diversità” sessuale, culturale, e via dicendo, sono anche quelli che lottano strenuamente insieme al capitale perché venga abolito il presupposto della diversità politica, che poi è il presupposto fondamentale perché le altre diversità vengano riconosciute e disciplinate (nell’interesse di chi, legittimamente, volesse essere uguale, magari perché ha letto Sandro Penna:
Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.
Forse Penna presagiva l’infinito squallore di un mondo paradossale in cui chi è felicemente comune viene condannato all’infelicità imponendogli di essere diverso per conformarsi al politicamente corretto, cioè alle forme uniche del pensiero unico dell’unico capitalismo che ci viene proposto).
Ma riflettiamo anche sugli immigrati, volete? Immigrare è un diritto? La risposta è un sonoro (ma taciuto dalla nostra stampa serva e vile, e quindi inascoltato dai suoi lettori boccaloni):
NO.
Fonte:http://goofynomics.blogspot.it
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