Intellettuali e sinistra – Un intervento
di SERGIO CESARATTO
Pubblichiamo il mio intervento all’incontro di cui ai due post precedenti. La registrazione è qui* (gli interventi sono distinti per nome, h/t a Radio radicale). Tutte le relazioni sono state interessanti, di grande livello, e convergenti; discussant e soprattutto dibattito piuttosto deludenti (tranne Domenico Moro e sebbene con una prospettiva ben diversa Onofrio Romano); i due politici (a parte Fassina) molto deludenti (a parte la loro presenza fuggitiva). Ciò che mi colpisce è che fra il popolo della sinistra del 2% e i politici che esprime da un lato, e l’intellighenzia di sinistra dall’altro vi sia ora uno iato, come testimonia per esempio questa intervista a Streeck. Anna Falcone ha fatto affermazioni del tipo: «Il capitalismo globale non si può contrastare se non con un’operazione di grande democratizzazione globale» e poi «Tutto il mondo deve essere aiutato a vivere laddove le popolazioni decidono liberamente di vivere». Pippo Civati che dopo la costituente italiana (della sinistra) faremo la costituente europea. Dove si va con questo cosmopolitismo? Alcuni interventi (Francescato, Romano) hanno sollevato il problema ambientale, che è certamente un’emergenza più che seria. Tuttavia, affermazioni del tipo “torniamo a una economia di sussistenza” o “blocchiamo gli investimenti” mi sembra non aiutino una chiarificazione. Così come dare contro lo Stato nazionale in nome di un globalismo astratto. Certamente il problema ambientale è globale, ma è al riguardo necessaria un’analisi geopolitica sugli interessi che si muovono in campo ambientale e su come muoversi. Lo Stato nazionale democratico è strumento di azione per costruire la cooperazione azione e internazionale sulla base del consenso del proprio popolo. La denuncia non basta, serve più analisi, anche da parte degli economisti naturalmente.
*https://www.radioradicale.it/scheda/519174/unione-europea-lavoro-democrazia-contributi-per-il-programma-dellalternativa
Sergio Cesaratto, La sinistra fra vincoli economici autoimposti e vincoli veri
Il mio carissimo amico Lanfranco Turci dopo aver letto una bozza di questa nota (di cui esclusivamente porto la responsabilità, naturalmente), fra i tanti consigli mi ha esortato a premettere che essa è improntata al pessimismo, sul paese e sulla sinistra: i margini di manovra economica (dunque politica) sono rebus sic stantibus limitati se non inesistenti, le idee poche, le classi dirigenti inadeguate. Tuttavia è solo dalla presa d’atto realistica dello stato di cose presenti che può provenire una reazione. E, comunque, dire le cose come stanno aiuta a smascherare l’affabulazione politica, il girarsi attorno senza contenuti, la politica fatta solo di accordi elettorali che, purtroppo, appare dominare, figlia e madre del vuoto che ci circonda.
- Un paese esausto. Sempre più in occasioni come questa mi viene infatti in mente Montale, “Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Il paese è in un passaggio storico drammatico, fra un passato (il secondo dopoguerra) di speranze e riscatto e un futuro che assomiglia a una lenta eutanasia. Storicamente siamo un paese gracile, dalle istituzioni fragili direbbero oggi gli economisti.[1] Istituzioni sia pubbliche che private. A una debole società civile dominata da atavici opportunismi e furbizie, più che dal senso di appartenenza a una comunità nazionale, si accompagna senza soluzione di continuità una classe dirigente senza spessore che riflette pienamente il sostrato che la produce. La cultura è scarsa, spesso pre-moderna, burocratica e anti-scientifica. In alcune parti del paese va un po’ meglio, in altre assai peggio con ampie aree dominate dalla malavita organizzata ormai estesa anche al resto (ma abbiamo visto intellettuali di prim’ordine difendere, piccati nel loro orgoglio, la giornata della memoria per la caduta della Rocca di Gaeta in nome di verità storiche del tutto fantasiose). L’Euro/pa ci ha esautorato delle leve della politica macro-economica, ci rimane un po’ di politica micro-economica ma, com’è noto, non si fanno le nozze coi fichi secchi, per cui questa politica si riduce alla bassa cucina del togliere un po’ qui per mettere un po’ là, a seconda delle pressioni di volta in volta prevalenti. Se da un lato la politica non sa fare progetti, dall’altro non li può neppure più fare, di qui il suo decadimento (altro che casta!). Ma sono state queste scelte deliberate e su esse torneremo. La concorrenza dei paesi emergenti, specie quelli asiatici, non lascia peraltro più molto spazio a chi non abbia progetti politici per il proprio paese, e le risorse per sostenerli. Il paese è così avviato su se stesso, esausto, privo di senso identitario e partecipativo, sembra tornato a secoli bui.
- Quale riformismo. Se dovessi indicare in sintesi quale sinistra ritengo necessaria per il paese la definirei così: una sinistra che abbia al centro gliinteressi del paese, di questo paese “che senza amor nazionale non si dà virtù grande” per citare Leopardi (Zibaldone); riformista nel senso che abbia come asse la piena occupazione e la crescita dei salari, avendo anche a cuore la difesa della competitività del Paese, dell’industria pubblica e di quella privata, di un’istruzione e di una ricerca pubbliche e democratiche ma rigorose – con la centralità dell’intervento pubblico; che coltivi un senso dell’appartenenza a una comunità nazionale da cui ci si senta tutelati e cittadini partecipi superando una tara storica della nostra costituzione materiale; che sostenga una forte autonomia nazionale nella politica estera volta a un più giusto ordine economico internazionale contro le mire bellicose nel Mediterraneo di Francia e Regno Unito in primis (per quello che a un piccolo paese è consentito fare, naturalmente). Il mio timore è che però che, dopo le lacerazioni sul tema dell’Europa, quelle sull’immigrazione rappresentino il de profundis per una sinistra di questo tipo. Sul tema dell’Europa gli scorsi anni hanno visto una spaccatura verticale fra tre sinistre: a quella che denunciava la natura imprescindibilmente autoritaria e liberista dell’Euro/pa se ne sono contrapposte due: quella neo-liberista accondiscendente alle politiche europee e quella “leggera”, anelante al più Europa. Ci torneremo su. L’immigrazione è un tema lacerante per le coscienze di tutti, non solo per alcune anime belle. V’è un dovere irrinunciabile all’aiuto a chi ha intrapreso percorsi di migrazione e alla lotta contro lo sfruttamento dei paesi di provenienza. Ma per molti di noi l’idea dell’accoglienza illimitata e a prescindere è irresponsabile, così come colpisce la mancata consapevolezza che l’immigrazione ha costituito un tassello della devastazione del mercato del lavoro, dei diritti e della estraneità sociale in questi anni (non l’unico e certamente non il principale, ma un elemento importante sì). Personalmente non sono disponibile a condividere percorsi irresponsabili che finiscono per alimentare fenomeni reazionari e comunque ci allontanano dal comune sentire e dal malessere popolare. Di fronte a quest’ultimo non possiamo che contrattare uno scambio fra politiche di integrazione per chi è già qui e un rigorosa politica di immigrazione regolare.
- L’ordo-ulivismo. La grande occasione per l’Italia fu probabilmente quella di mettere a frutto il miracolo economico per modernizzare e democraticizzare il paese. La borghesia non ne fu capace e più volte ha cercato di sedare le rivendicazioni popolari per l’equità distributiva con la violenza, dalla stretta di Carli del 1963 alla strategia della tensione e da ultimo con lo SME e l’euro. La sinistra riformista è sempre stata minoritaria. Il mancato riformismo della sinistra italiana ha radici lontane e ben spiegate da Leonardo Paggi (con D’Angelillo, 1986) in quello che rimane, a mio avviso, il più bel volume mai scritto sulla sinistra italiana, non a caso sotto l’influenza dell’interpretazione di Keynes di Pierangelo Garegnani (ma la lezione del riformismo pragmatico di Federico Caffè non è qui estranea). La sinistra italiana non ha mai condiviso il Keynesismo riformista, l’idea dunque che elevati salari diretti e indiretti (stato sociale) potessero essere di sostegno alla piena occupazione. E’ infatti sempre stata “monetarista”, ha cioè condiviso l’idea che la crescita dei salari portasse solo inflazione e fosse dunque sovversiva e destabilizzante delle istituzioni democratiche. La svolta dell’EUR del 1978 (maturata gli anni precedenti) nasce da questo, tutto il resto segue. E non parliamo solo di Amendola o di Lama, ma anche di altri eroi della sinistra, da Berlinguer a Trentin (v. Barba e Pivetti 2016). Il testimone del “risanamento” fu presto preso dalla sinistra democristiana con Beniamino Andreatta e da circoli borghesi rappresentati da Carlo Azeglio Ciampi (che sostituì Baffi, sfavorevole alla prospettiva europea, dopo la sua violenta defenestrazione) o Guido Carli (una volta che si rese conto che la tolleranza che dovette mostrare come banchiere centrale nella prima metà degli anni ’70 non aveva più ragione d’essere). Contenimento del potere sindacale e abbattimento del debito pubblico furono gli assi del duo Andreatta-Ciampi; adesione allo SME e divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia ne furono gli strumenti iniziali. Cuore di questa impostazione era l’importazione della disciplina dall’estero, legandosi al carro monetario tedesco, la politica del “legarsi le mani”. Queste politiche causarono l’indebolimento della competitività esterna, sicché a parità di spesa pubblica – che governi spendaccioni ma ancora sensibili alla tutela di domanda e occupazione badavano bene a non ridurre – si inaridirono le fonti di finanziamento nazionali determinando l’esplosione del debito pubblico e di quello estero (con la crescita della quota del primo detenuta da stranieri). La sinistra ulivista fece proprie queste politiche (con la convergenza finale del rigore comunista e di quello andreattiano), assumendo l’Europa di Maastricht come asse. Il disastro dell’euro ne è stato il risultato. In un rinnovato clima di emergenza nazionale, nel 2011 Napolitano d’accordo con potenze straniere e in linea con la tradizione anti-riformista del PCI della “responsabilità nazionale”, piegò definitivamente alla disciplina dell’euro le istanze occupazionali e sociali del Paese. L’emergenza era l’euro, non l’Italia, ma di questo gli anti-riformisti non si avvedevano. Per loro il demonio era il debito pubblico italiano, non l’autoimposto vincolo estero che dai tempi dello SME l’aveva fatto esplodere, così come è esploso di nuovo in seguito alle sciagurate politiche di austerità e al mancato tempestivo intervento della BCE di cui la Germania (e chi non le si è opposto) portano una drammatica responsabilità storica. Mi preoccupa l’assenza di un’autocritica profonda negli ambienti della sinistra che hanno pur gestito in prima persona quelle politiche, e questo fa temere che non si abbia ancora grande consapevolezza di queste responsabilità storiche, e mi viene da concludere che in certi circoli l’importante sia scalzare Renzi (che a suo modo qualche rimostranza da moccioso indisciplinato in Europa l’ha manifestata) per sostituirlo con l’Enrico Letta di turno, il figlio politico di Andreatta, colui che scrisse:
«Andreatta capì che l’unico modo per fare le privatizzazioni…e ridurre l’abnorme peso della politica… che ha caratterizzato l’Italia pre-euro era quello di negoziare con Bruxelles… Per farsi imporre dall’Europa il vincolo esterno» e con «saggezza e abilità… Andreatta riuscì allora ad evitare gli ostacoli che la politica frapponeva a quella rivoluzionaria decisione». Letta (2011)
Se non è così, se c’è un ripensamento di quegli anni, venga fuori oggi, e ci si dica come si vuole rimediare. Quanto la Germania ha guadagnato alle spalle del nostro paese è sconcio; quello che si prepara con gli accordi Berlino-Parigi è una definitiva cessione di sovranità democratica:[2] mi si dia una risposta ferma e precisa per favore. La lotta ferma sul fronte europeo sarà un asse della sinistra o no? Ci si è resi conto degli errori del passato e in particolare che l’asse europeo ha significato soggiogarsi a un disegno anti-popolare e anti-riformista? La risposta a questo secondo quesito, la consapevolezza delle proprie responsabilità storiche, è più importante della prima a cui è facile replicare: “ma figuriamoci, lotteremo contro i trattati e blà e blà”. Vogliamo sapere se finalmente si sono fatti i conti col passato e se si è disponibili a dire basta all’europeismo neoliberista – i due termini largamente coincidono. E’ infatti accettabile parlare di europeismo solo in termini culturali e di generale profonda cooperazione, ma solo in termini molto più vaghi con riguardo all’integrazione fiscale e monetaria. Ma vale qui la clausola Paggi: “La consapevolezza della inscindibilità di economia e politica è fortissima nella cultura e nelle politiche neoliberali, mentre è totalmente assente nel linguaggio della sinistra.”[3] Le ragioni economiche che dovrebbero essere cardine del pensiero a sinistra sono per lo più incomprese e la politica fatta di mielosi sentimentalismi, o di opportunismi. Insomma, più del no a Renzi vorrei ascoltare da una componente della sinistra un no a Enrico Letta.
- C’è futuro in Euro/pa? C’era una strada alternativa all’ordo-ulivismo del papa straniero? Difficile dirlo. Voglio anche dare una dignità politica all’ordo-ulivismo: questo paese è incapace di governarsi, l’unica strada è affidarsi allo straniero (è una vecchia storia, peraltro). Ma lo straniero è furbo e potente. Imporrà a te il liberismo, mentre il suo potente apparato pubblico, mercantilisticamente al servizio dell’industria occuperà anche i tuoi spazi. Naturalmente si potrà essere liberisti alla Ciampi, Andreatta, Letta, Onofri e via cantando e ritenere che l’Europa consista nello scioglimento dei lacci e lacciuoli che frenano gli spiriti vitali dell’economia italiana. E’ legittimo crederlo – e suppongo che in alcune componenti della “sinistra” lo si creda ancora. Ma non lo si camuffi con storie circa la solidarietà europea. Qui siamo alle belle narrazioni – purtroppo diffuse in altre componenti della “sinistra” qui oggi rappresentate. Andatelo a chiedere allaLinke se proporranno all’elettorato tedesco trasferimenti fiscali perequativi in Europa, o il superamento dell’euro. Ccà nisciuno è fesso, tranne la sinistra italiana verrebbe da dire.
- L’Euro/pa. L’errore dell’UME è stato di anteporre l’unione monetaria a quella politica? No, l’unione politica (che implica politiche di perequazione dei redditi fra paesi) è impossibile, o meglio, l’unica Europa federale possibile è quella ordoliberista, come aveva ben spiegato Hayek nel 1939 (quella in cui un super-stato si fa garante del libero mercato in tutto il continente). Gli accordi franco-tedeschi per un ulteriore accentramento fiscale vannno in questa direzione. La Germania potrà cambiare? No, non cambierà il suo modello mercantilista. Il mercantilismo tedesco è irrazionale? No, alla luce dell’impostazione Classico-Kaleckiana esso è un modo di tradurre il sovrappiù in profitti attraverso le esportazioni (Cesaratto 2016 cap. 1). L’Italia potrà adeguarsi e migliorare? No, alla base del crollo della produttività vi sono anni di depressione della domanda aggregata a causa dell’autoimposto vincolo estero (Bagnai 2012), riforme del mercato del lavoro e allargamento indiscriminato dell’esercito industriale di riserva, mentre non vi sono risorse per istruzione, ricerca e università (e per il benessere sociale e per il sostegno della natalità dei nostri giovani).
L’euro è veramente fallito? Se il suo obiettivo era la disciplina sociale, esso è stato un successo. La teoria economica ha fallito nei confronti dell’euro? No, Meade, Mundell, Flaming, Godley, Kaldor, Feldstein, tutti hanno previsto una tendenza deflazionistica; dopo dieci anni di bonaccia in cui covava una crisi del debito estero della periferia, mercato di sbocco del mercantilismo tedesco (Cesaratto 2016, capp. 5 e 6; 2017), l’euro ha rivelato il suo vero volto deflazionista.
Il ritorno agli Stati nazionali è un arretramento? No, lo Stato nazionale è il terreno democrazia: Stati senza politica monetaria (dunque fiscale) sono privi di democrazia. Con la globalizzazione e la mobilità di capitale e lavoro si decentra il capitale e l’esercito industriale di riserva si fa mondiale; con l’Europa si delocalizza lo Stato (Cesaratto 2017, Barba e Pivetti 2016).
L’euro ha un futuro? Non lo sappiamo, se crolla sarà per insostenibilità politica, se e quando il ceto medio e gli studenti lo decideranno; ma il caso greco dimostra che resilienza dei popoli è infinita, i migliori se ne vanno, chi rimane si adegua, la natalità crolla, l’immigrazione colma i vuoti. Cosa accadrà se Draghi dovrà dismettere il QE? Reagiremo agli accordi fiscali franco-tedeschi?
Non mi metto a fare proposte programmatiche, quelle seguono la politica. E quella manca.
La sinistra mi sembra divisa fra un’ala risentita che insegue vendette antirenziane e quella che va appresso all’emergenza del momento, ora all’immigrazione (ieri ai movimenti no-global). Del dramma del paese che sta semplicemente morendo materialmente e culturalmente non sembra importare gran che, anzi. Mi sembra che se non si rimette al centro della nostra analisi, delle nostre passioni, il paese, questo paese, non si andrà da nessuna parte. Mi sembra di concordare con D’Alema quando dichiara “Il nostro compito è … di costruire una sinistra democratica e di governo che possa essere un elemento essenziale per la ricostruzione anche culturale dell’Italia…. Oggi dobbiamo fare anche una riflessione autocritica riguardo a una subalternità che molti di noi hanno avuto riguardo all’ottimismo degli anni Novanta”. Ma si deve entrare nel merito. Le questioni non sono solo euro ed Europa, ma anche ricostruire il senso di questo paese, il che vuol dire capacità di chiamare a raccolta le sue forze migliori, a ogni livello, intellettuale e popolare. Non lo si farà se ci si occupa d’altro e di altri, lo dico chiaramente, se la salvezza dell’Italia non diventa la nostra unica ossessione. Questo possiamo dire.
Riferimenti
Bagnai, A. (2012), Il tramonto dell’euro, Imprimatur, Reggio Emilia.
Barba, A. e Pivetti, M. (2016) La scomparsa della sinistra, Imprimatur, Reggio Emilia.
Cesaratto, S. (2017a), Sei lezioni di economia – Conoscenze necessarie per capire la crisi, Imprimatur, Reggio Emilia (3a ristampa).
Cesaratto, S. (2017b) Alternative Interpretations of a Stateless Currency crisis,Cambridge Journal of Economics, (https://doi.org/10.1093/cje/bew065) vol. 41 (4), pp. 977-998, free download.
Di Martino,P. e Vasta, M. (2017) Ricchi per caso. La parabola dello sviluppo economico italiano, Il mulino, Bologna.
Letta, E. La visione larga di Andreatta, in AAVV (2011), L’autonomia della politica monetaria – Il divorzio Tesoro-Banca d’Italia trent’anni dopo, Arel-il Mulino, Roma-Bologna (introduzione di Giuseppe Mussari [sic])
Paggi, L. e D’Angelillo, M. (1986), I comunisti italiani e il riformismo, Einaudi, Torino
http://it.blastingnews.com/politica/2017/09/dalema-pd-verso-il-disastro-vi-spiego-come-ricostruire-una-grande-sinistra-001975817.html
[1] Da ultimo Di Martino e Vasta (2017).
[2] Gli organi di stampa internazionali sono chiari al riguardo (qui e qui)
[3] Sul tema europeo, con Leonardo c’è consenso di metodo, ma purtroppo non di merito.
Fonte: http://politicaeconomiablog.blogspot.it/2017/09/intellettuali-e-sinistra-un-intervento.html#more
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