Amor patrio e fratellanza universale ai tempi del coronavirus: il messaggio di Leopardi
di La Fionda (Giulio Di Donato)
Mai come in queste settimane di dolore e preoccupazione si sono manifestati così tanti atteggiamenti di fierezza nazionale: un sussulto di orgoglio generato da un concorso drammatico di circostanze che è diventato quasi un moto spontaneo e liberatorio utile ad esorcizzare le paure e le tensioni accumulate.
Il senso di comunità inevitabilmente si rafforza soprattutto nei momenti di smarrimento collettivo, quando si cerca un ‘noi’ che ci protegga e rassicuri. Va compreso dunque questo patriottismo che nasce dall’angoscia e dal desiderio di non sentirsi soli in frangenti tanto difficili.
Certo, tutto questo non può valere in eterno: dopo una prima fase di union sacrée, se una situazione di grave crisi si protrae a lungo nel tempo e si ha l’impressione di non essere veramente protetti, il tessuto sociale si sfalda e si precipita nella caccia al nemico interno. Purtroppo, soprattutto al Sud, si fanno sempre più visibili i segnali di insofferenza dovuti ad una condizione di disagio sociale che si va intensificando di giorno in giorno.
Quel che possiamo fare, intanto, è provare a trarre qualche lezione dalla gestione della crisi emergenziale. La prima ci ricorda l’importanza del nostro servizio sanitario pubblico che, nonostante anni di tagli e spending review, rappresenta un’eccellenza della quale essere orgogliosi. Una seconda lezione ci impone di riconoscere la centralità dell’intervento pubblico-statuale e il peso della dimensione nazionale, la quale garantisce quel minimum di identificazione e di missione comune, quindi di coesione e di lealtà politica, quanto mai necessario in un momento in cui c’è da affidarsi al senso di sacrificio e di responsabilità collettiva.
Ormai acquisisce sempre più evidenza il fatto che solo uno Stato nazionale è in grado di garantire un rapporto equilibrato – per lo più democratico – fra la dimensione geopolitica e il sentimento di appartenenza e di “intimità” fra i cittadini e già per questo svolge una funzione difficilmente sostituibile, anche nei confronti degli eccessi secessionistici delle rivendicazioni etniche[i].
Queste indicazioni potrebbero, inoltre, aiutarci a impostare nel modo giusto il rapporto fra la dimensione nazionale e quella sovranazionale, rafforzando e confermando convincimenti maturati ben prima dell’emergenza sanitaria.
Crediamo infatti che la battaglia politica prioritaria dei nostri giorni sia quella di ridefinire il nesso nazionale/sovranazionale (con particolare riferimento alla posizione del nostro paese in ambito UE) secondo una prospettiva alternativa a quella egemone negli ultimi quarant’anni. Le sfide poste dai processi di (dis)integrazione globale degli ultimi quattro decenni sollecitano ormai da tempo tessiture nuove tra politica, diritto ed economia, che siano in grado di risolvere positivamente la contraddizione – già individuata da Gramsci all’inizio degli anni Trenta – tra il cosiddetto nazionalismo della politica e il cosmopolitismo dell’economia.
I fatti degli ultimi giorni avvalorano la tesi di chi crede che la soluzione non può che passare per un rinnovato protagonismo degli Stati nazionali (nella loro variante democratico-costituzionale) e per un contemporaneo rilancio della cooperazione internazionale; due momenti che appaiono – se opportunamente declinati – come stretti da un nesso di interdipendenza funzionale, dove il primo sollecita il secondo, e questo potenzia e rafforza l’altro. Il modello a cui guardare ci indirizza verso una forma di internazionalismo “equilibrato” che restituisca agli Stati la capacità di governare e orientare i processi economici, pur nella consapevolezza – mai così evidente come in questo periodo – che le democrazie nazionali devono confrontarsi con problemi che sfuggono in parte alla loro capacità di controllo e gestione (dal governo dei processi migratori ai flussi della comunicazione globale, dai problemi di approvvigionamento energetico agli effetti prodotti dalla guerra e dal terrorismo e via discorrendo) e che è altamente improbabile pensare di affrontare in un’ottica puramente domestica una grave minaccia al destino dell’umanità come quella rappresentata dalle nuove pandemie.
In questo, come in altri casi, anche se il punto di partenza si situa sul terreno nazionale, la risposta non può che coinvolgere l’intera comunità internazionale, perché nessun paese al mondo può pensare di salvarsi da solo.
Guardando alla storia dell’umanità, le epidemie rappresentano una tragica costante; ce ne sono poi alcune – come nel caso del Coronavirus – che coinvolgono il pianeta intero. In un passato non troppo lontano abbiamo avuto la spagnola e, ancora fresche nella memoria dei nostri contemporanei, ci sono l’Aids e l’asiatica.
Fu negli anni del colera a Napoli che Leopardi scrisse, pensando allo “sterminator Vesevo” e alla sorte di Pompei ed Ercolano, quel capolavoro di poesia e filosofia che è La ginestra, che soccomberà al fuoco del vulcano, “ma più saggia, ma tanto/meno inferma dell’uom” che si credeva e si crede onnipotente, in grado di dominare e addomesticare la natura nel modo a lui più utile e congeniale.
In questi giorni può essere utile ripercorrere l’itinerario leopardiano, che proprio con La ginestra “salta” dall’amor patrio alla fratellanza universale, senza stabilire o presupporre una contraddizione fra i due momenti.
Come è noto Leopardi, nello Zibaldone, magnifica l’idea della “società mezzana” o di “mezzana grandezza”, che, a ben vedere, altro non è che “una nazione” (“la mezzana civiltà trionferà in tutto il mondo”).
La patria moderna – scrive il grande poeta recanatese – dev’essere abbastanza grande, ma non tanto che la comunione d’interessi non vi si possa trovare, come chi ci volesse dare per patria l’Europa. La propria nazione, coi suoi confini segnati dalla natura, è la società che ci conviene. E conchiudo che senza amor nazionale non si dà virtù grande. (Zib., 896)
Sempre Leopardi in un altro celebre passo:
Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo: l’amor patrio di Roma divenuto cosmopolita, divenne indifferente, inattivo e nullo: e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu piú patria di nessuno, e i cittadini romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto. (Zib., 458)
La conclusione da trarre, agli occhi di Leopardi, è la seguente: in assenza di un comune interesse e di un legame patriottico (così come senza “illusioni”), una comunità politica non può prosperare, né possono essere temperati e ridimensionati gli egoismi dei suoi cittadini. Il modello è quello delle “antiche e poche ristrette società” nelle quali “l’amor proprio fu ridotto ad … amor di corpo o di patria”. (Zib., 878)
Se viene meno l’amor di patria l’agire dei singoli perde i suoi criteri di orientamento. Non si allarga certo l’orizzonte di riferimento, l’uomo non diventa improvvisamente cittadino del mondo, ma accade piuttosto il contrario: il singolo fa di sé stesso una repubblica in perpetuo conflitto con le altre. Altro che abolizione delle ostilità: la scomparsa dell’amor di patria ne promuove invece lo slittamento sul piano individuale. L’amor di preferenza, se non si radica nell’idea di nazione, quale luogo privilegiato d’espressione, favorendo una sintesi positiva fra gli interessi dei singoli e quelli della collettività, non può che rifluire sull’individuo, dando luogo ad un vero e proprio sistema dell’egoismo.
La fola dell’amore universale, del bene universale, col qual bene ed interesse, non può mai congiungersi il bene e l’interesse dell’individuo, che travagliando per tutti non travaglierebbe per sé, né per superar nessuno, come la natura vuol ch’ei travagli; ha prodotto l’egoismo universale. Non si odia piú lo straniero? ma si odia il compagno, il concittadino, l’amico, il padre, il figlio; ma l’amore è sparito affatto dal mondo, sparita la fede, la giustizia, l’amicizia, l’eroismo, ogni virtú, fuorché l’amor di sé stesso. Non si hanno piú nemici nazionali? ma si hanno nemici privati, e tanti quanti son gli uomini; ma non si hanno piú amici di sorta alcuna, né doveri se non verso sé stesso. (Zib., 891)
Insomma, quando l’inimicizia non si esercita più sul confine fra noi e loro, si frantuma e si diffonde lungo un asse che contrappone l’io a tutti gli altri.
Ed è un’illusione pensare che l’abbandono dell’amor patrio possa condurre ad una più larga solidarietà: dietro la melassa dell’universale solidarietà, si nasconde difatti il dominio universale dell’egoismo privato e si afferma “la teoria del non fare bene a nessuno” (Zib., 885).
Forzando un po’ il discorso, sembrerebbe quasi che in Leopardi ci fosse la consapevolezza per cui ogni comunità politica non può esistere senza una dialettica dentro/fuori. Il mondo – come sosterrà un secolo dopo Carl Schmitt – è un pluriverso e non un universo, a causa della tendenza degli esseri umani a riunirsi in comunità determinate e irriducibili le une alle altre (che non significa per nulla chiuse o in opposizione fra loro). Da qui il topos del “nemico” – questo sì ben presente in Leopardi – da non intendere come appello ad un sentimento di odio dei confronti dello straniero, ma in ragione della necessità della sua esistenza, come fattore di unità e coesione interna.
Proprio nella Ginestra l’affratellamento degli uomini appare possibile solo perché sullo sfondo si staglia un nuovo nemico: non più un nemico “umano e relativo” (nemico ad alcuni e non ad altri), ma un nemico “impersonale e assoluto” (nemico di tutto il genere umano). Questo nemico è la natura, contro la quale gli uomini affratellati sono chiamati a una “guerra comune”. E proprio perché essi agiscono “contro l’empia natura” si possono stringere “in social catena”. La natura è una nemica spesso crudele, ma è una nemica utile così come lo erano quei nemici esterni, la mobilitazione contro i quali permetteva di suscitare le virtù civili. La fratellanza di cui parla La ginestra non sembra comunque “affatto quella astratta degli ideali, delle fole, del progressismo cosmopolitico … non sembra il frutto di un’aspirazione etica, ma appare come una fratellanza concreta, come una solidarietà combattiva e disincantata, frutto di una spinta materiale proveniente dalla comune soggezione di tutti gli uomini alle violenze e alle minacce della natura”[ii].
Da un lato abbiamo quindi la realtà delle “poche e ristrette società”, nella quale l’individuo aderisce alla comunità senza dare pieno corso alla propria soggettività (la “bella vita etica” della polis greca per dirla con Hegel); dall’altro il sistema dell’egoismo moderno, che ama parlare di amore universale proprio perché sa che è vano ed impotente: ogni via di uscita sembra preclusa. Eppure c’è la possibilità di fare un “salto”: può accadere, infatti, soprattutto in una situazione estrema che coinvolge tutti gli esseri umani, di alzare lo sguardo fino ad abbracciare l’umanità intera, sollevandosi ad una distanza infinita dalla quale tutto appare nella sua nudità e insignificanza. Dal punto di vista dell’infinito (sub specie aeternitatis direbbe Spinoza), l’esistenza dell’uomo ha ben poco significato e tutte le passioni, i clamori, gli affanni e i dolori che ci assediano ogni giorno non hanno alcun rilievo. Da quella distanza l’esistenza si scopre vicino al nulla, ma gli uomini appaiono tutti degni di compassione. Da quelle altezze la cerchia degli uomini appare ristretta, proprio come nelle repubbliche antiche, e così l’amor di preferenza può essere messo al servizio dell’utilità di tutti. Quel che è certo è che tra la natura e l’uomo c’è una distanza incolmabile, che nasce dall’irrilevanza per la prima della sorte del secondo, perché la natura è totalmente indifferente al destino dell’uomo e alle dinamiche della storia. Ma la distanza infinita della natura, la sua indifferenza e supremazia possono diventare una carta da giocare contro la natura stessa, una carta che impone agli uomini di stringersi in una guerra comune contro le sue offese e minacce[iii].
Evocare questo senso di sproporzione tra la nostra fragile finitezza e quegli interminabili spazi e quei sovrumani silenzi può consentirci quindi di rovesciare la nostra fragilità in spirito di fratellanza. Trasformando il sentimento della nostra vulnerabilità (oggi pienamente smascherato dall’emergenza pandemia) in una battaglia comune in nome della solidarietà universale, non più vagamente sentimentale, ma concreta ed effettiva.
Si tratterà allora di conservare la memoria delle emozioni che stiamo vivendo in queste giornate difficili. La memoria delle emozioni, sì, perché la consapevolezza da sola non basta: come ci insegna Spinoza, la ragione deve farsi emozione per avere un qualche potere sulle passioni negative[iv]. In questo caso l’appello ad un certo tipo di emozioni ha un significato ben preciso: preservare l’amor patrio dal rischio della degenerazione nazionalistica e impedire al principio di fratellanza universale di ridursi a vuota e falsa retorica.
Come ci ricorda il filosofo Kwame Anthony Appiah, mai come in quest’epoca “di sfide planetarie e interconnessione tra paesi c’è stato un bisogno più grande di un senso di destino umano condiviso”[v]. Spesso però chi fa professione di cosmopolitismo assomiglia a quel personaggio dei Fratelli Karamazov che scopre che quanto più ama l’umanità in generale, tanto meno considera le persone in particolare. I “cittadini del mondo” dovrebbero fare attenzione a che i lori ideali non diventino un pretesto per venir meno ai doveri che hanno nei confronti dei loro connazionali.
Scrive Dani Rodrik nel suo ultimo libro:
Dobbiamo vivere nel mondo che abbiamo di fronte, con tutte le divisioni politiche, non in quello che desidereremmo avere. Il miglior modo per servire gli interessi globali è far fronte alle nostre responsabilità nel contesto delle istituzioni politiche che contano, ovvero quelle che esistono, all’interno dei confini nazionali[vi].
Da una parte dobbiamo dunque accettare la complessità e la varietà del mondo e respingere qualsiasi ipotesi di reductio ad unum (che è inevitabilmente l’unità voluta dal più forte), perché lo spazio globale è irrimediabilmente plurale e articolato in entità geopolitiche organizzate per grandi spazi con le grandi potenze a contendersi di volta in volta un ruolo egemonico mondiale (così come le comunità nazionali si organizzano attorno ad una dialettica interno/esterno, lo stesso avviene quando sono più paesi a unirsi fra loro secondo linee e sfere di influenza); dall’altra non bisogna rinunciare alla costruzione di momenti di unità e condivisione di responsabilità fra gli Stati, al fine di pervenire a forme di stabilità in grado di assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni. Parafrasando Gramsci, se il “punto di partenza è nazionale”, la vocazione non può che essere internazionalista: questo significa farsi costantemente carico dei problemi del mondo, rilanciare un senso aperto di una comune appartenenza, mobilitarsi contro chiunque offenda il principio di autodeterminazione dei popoli e la dignità della persona umana (vedi il dramma infinito vissuto dai palestinesi nel silenzio colpevole della comunità internazionale), credere infine nella capacità degli essere umani di costruire un mondo migliore.
[i] Danilo Zolo, Globalizzazione, Laterza, 2006, p. 79. ⇑
[ii] Massimo Luciani, Lo sguardo profondo, Mucchi, 2017, pp. 116-117. ⇑
[iii] Franco Cassano, Oltre il nulla, Laterza, 2003, pp. 71 e ss. ⇑
[iv] Un affetto negativo “non può essere ostacolato né tolto se non da un affetto contrario e più forte dell’affetto da ostacolare”, Etica, IV, Proposizione VII. ⇑
[v] “Mrs. May, We Are All Citizen of the World”, Say Philosopher, in “BBC News”, 29 ottobre 2016. ⇑
[vi] Dani Rodrik, Dirla tutta sul mercato globale, Einaudi, Torino, 2018, p. 47. ⇑
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