La teoria del capitale a cinquant’anni dal dibattito tra le due Cambridge
di SINISTRAINRETE (Saverio M. Fratini)
Pubblichiamo una introduzione di Saverio Fratini al dibattito sulla teoria marginalista del capitale pubblicata sulla gloriosa rivista Critica Marxista*, che ringraziamo unitamente all’autore. Il tema è molto difficile (anche per me!), ma Fratini ci aiuta a farcene un’idea. Per i più giovani, l’invito è a cimentarsi con questa tematica, a mio avviso la ragione (analitica) più forte per non dirsi marginalisti. Fratini è docente a Roma 3
Ricorre quest’anno il cinquantesimo anniversario del simposio “Paradoxes in Capital Theory”, pubblicato nel 1966 sul Quarterly Journal of Economics, nel quale furono presentati i risultati di una controversia scientifica che era in realtà iniziata alcuni anni prima, con la pubblicazione, nel 1960, del libro di Sraffa Produzione di Merci a Mezzo di Merci.
Nel suo libro, Sraffa aveva mostrato che, facendo riferimento ad una situazione caratterizzata dall’uniformità del tasso del profitto in tutti i settori e dalla stazionarietà dei prezzi relativi,[1] il legame tra i prezzi delle merci e le variabili distributive—saggio del salario e tasso del profitto, in particolare—può essere complesso e imprevedibile, tanto che a fronte della variazione della distribuzione in una stessa direzione, ad esempio un continuo aumento del tasso del profitto, il prezzo relativo di due merci può crescere e diminuire a tratti alterni. Ciò, di fatto, svuotava di significato l’idea che diversi metodi di produzione di una certa merce potessero essere ritenuti a maggiore o a minore intensità di capitale,[2] come se si trattasse di una proprietà di natura tecnica. Infatti, dipendendo i prezzi dei beni capitale dal saggio del salario e dal tasso del profitto, l’ordinamento dei metodi di produzione sulla base dell’impiego di capitale per unità di lavoro sarebbe, in generale, cambiato al variare della distribuzione del reddito: il metodo inizialmente a più bassa intensità di capitale può diventare quello a maggiore intensità di capitale per un diverso livello delle variabili distributive.
Veniva quindi meno una delle fondamenta su cui la teoria neoclassica o marginalista della distribuzione era stata costruita, l’idea secondo la quale il capitale doveva essere visto come un fattore produttivo, ovvero un input, sullo stesso piano del lavoro, tanto da giustificare una spiegazione simmetrica—in termini di equilibrio tra domanda e offerta—del tasso del profitto (o dell’interesse[3]) e del saggio del salario, intesi entrambi come prezzi di fattori produttivi. Con ciò il marginalismo intendeva infatti contrapporsi rispetto alla teoria degli economisti classici—di Ricardo e di Marx in particolare—secondo cui, invece, i redditi dei capitalisti avevano natura residuale, trattandosi di un sovrappiù o plusvalore del prodotto rispetto ai costi necessari per il suo ottenimento.[4]
Samuelson e il capitale-gelatina
Ai risultati presentati nel suo libro da Sraffa—che si trovava a Cambridge nel Regno Unito—aveva risposto due anni dopo[5] Samuelson—che si trovava invece all’MIT, cioè a Cambridge in Massachusetts. Partendo da un modello di economia in cui uno stesso bene di consumo avrebbe potuto essere ottenuto attraverso l’impiego di molte tecniche diverse e alternative, ciascuna caratterizzata dall’impiego di beni capitale di tipo specifico, Samuelson aveva tentato di argomentare l’esistenza di una “gelatina” in grado di prendere la forma fisica dei diversi tipi di beni capitale e tale che, cambiando la tecnica adottata e quindi il tipo di beni capitale usati, la variazione del prodotto finale ottenuto per unità di lavoro potesse essere vista come dovuta al cambiamento della quantità impiegata di questa gelatina relativamente al lavoro.
Poiché la tecnica che le imprese hanno convenienza ad adottare si dimostrava dipendere dal livello del tasso dell’interesse, l’argomento di Samuelson avrebbe tenuto qualora si fosse potuto dimostrare che una diminuzione del tasso dell’interesse avrebbe inevitabilmente condotto all’adozione di tecniche che, a parità di lavoro, impiegano una maggiore quantità di gelatina e danno un maggior output. Proprio in questa direzione sembrava andare il contributo[6] di Levhari—un allievo di Samuelson—secondo cui una tecnica che era stata scelta e poi scartata in seguito ad una riduzione del tasso dell’interesse, non sarebbe potuta tornare in uso ad un livello del tasso dell’interesse ancora più basso. Tuttavia, come fu inequivocabilmente stabilito proprio nel simposio[7] di cui ricorre il cinquantenario, il teorema di Levhari era falso. Pasinetti e Garegnani—due economisti della scuola anglo-italiana che faceva riferimento a Sraffa—oltre a Morishima e Sheshinski, erano stati in grado di dimostrare, attraverso opportuni controesempi, che il “ritorno delle tecniche” (o re-switching), contrariamente a quanto Levhari aveva tentato di dimostrare, era possibile.
La possibilità del ritorno delle tecniche era sufficiente a far crollare la costruzione di Samuelson. Il fatto che una stessa tecnica di produzione del bene finale potesse essere adottata, cioè risultasse ottimale per le imprese, in corrispondenza di due diversi livelli del tasso dell’interesse, ma non per alcuni livelli compresi tra di essi, dimostrava definitivamente l’infondatezza dell’idea dell’esistenza di un fattore produttivo capitale, da impiegare insieme al lavoro in proporzioni variabili, e, quindi, del tasso dell’interesse come il prezzo da pagare per il suo uso. Come Samuelson stesso ammise nello scritto conclusivo di quel simposio, la parabola neoclassica secondo cui la riduzione del tasso dell’interesse avrebbe condotto all’adozione di tecniche “più indirette”, “più produttive” o in qualunque senso “a maggiore intensità di capitale”, non può essere ritenuta valida.
L’inizio di una nuova fase della controversia
Stabilito ciò, qualora gli economisti neoclassici avessero voluto perseverare nel ritenere il tasso dell’interesse come un prezzo che si stabilisce tramite domanda e offerta di capitale,[8] avrebbero incontrato il problema della possibile “inversione dell’intensità capitalistica” (o reverse capital deepening), ovvero della diminuzione, invece che dell’aumento, della domanda di capitale (a parità di lavoro) a fronte di una riduzione del tasso dell’interesse, con il conseguente rischio di instabilità dell’equilibrio.[9] Questo argomento fu utilizzato per la prima volta in un articolo di Garegnani pubblicato nel 1970.
Quest’articolo può essere visto come una sorta di spartiacque tra la fase iniziale e una nuova fase del dibattito.[10] Infatti, in primo luogo, per la prima volta il ritorno delle tecniche e l’inversione dell’intensità capitalistica della produzione venivano indicati come possibili cause di instabilità degli equilibri neoclassici tra domanda e offerta. Tema questo che, come diremo in seguito, sarebbe stato poi ripreso in altri contributi di vari studiosi. In secondo luogo, Bliss, nel suo commento pubblicato insieme all’articolo di Garegnani, pose l’attenzione sulle moderne versioni della teoria neoclassica del valore, quelle neo-walrasiane,[11] nelle quali le merci sono distinte anche per data di consegna, così che i prezzi relativi possano cambiare con la data di consegna delle merci, e i mercati per consegne a pronti e a termine sono, per ipotesi, aperti contemporaneamente.
Il riferimento agli equilibri neo-walrasiani è caratteristico di questa nuova fase del dibattito, nella quale il lato neoclassico non veniva più rappresentato da Samuelson e dagli altri economisti dell’MIT, ma da Bliss e Hahn—due studiosi inglesi[12]—seguiti più recentemente da Mandler.
Bliss, nel suo libro del 1975, e poi Hahn, negli articoli del 1975 e del 1982, mostrarono che nei modelli di equilibrio intertemporale neo-walrasiani, partendo da date dotazioni iniziali di merci e supponendo mercati a termine completi ed aperti simultaneamente alla data iniziale, si poteva giungere alla determinazione del sistema dei prezzi (a pronti e a termine) sulla base dell’equilibrio di domanda e offerta, senza alcuna necessità di aggregare i beni capitale né in termini di valore, né tramite qualche fantomatica gelatina. Quindi, secondo Hahn, gli argomenti critici utilizzati dagli economisti da lui chiamati neo-ricardiani—cioè, essenzialmente, gli studiosi che facevano riferimento a Sraffa—si rivolgevano a versioni ingenue della teoria neoclassica, quelle destinate agli studenti di primo anno, in cui per semplicità si aggrega, ma non alle versioni più raffinate, quelle neo-walrasiane appunto.
Il cambiamento della nozione di equilibrio
Bliss e Hahn avevano quindi cercato di difendere la spiegazione dei prezzi e della distribuzione in termini di equilibrio tra domanda e offerta sulla base della concezione neo-walrasiana dell’economia che, secondo questi studiosi, sarebbe stata immune dai problemi emersi relativamente all’idea del capitale come un fattore produttivo, che è in effetti assente in tale impostazione. La reazione di Garegnani—e di alcuni economisti a lui vicini—a questa tesi si sviluppò attraverso due argomenti distinti. Il primo, di cui ci occuperemo tra poco, riguardava il significato delle nozioni di equilibrio neo-walrasiane. Il secondo, per il quale rinviamo al prossimo paragrafo, intendeva invece mostrare la necessità che vi fosse, anche nei modelli neo-walrasiani, un mercato specifico, quello dei risparmi e degli investimenti, di fatto analogo, almeno per ciò che riguarda i problemi che da esso possono scaturire, al mercato del fattore capitale presente nelle versioni tradizionali della teoria neoclassica.
Come si è accennato all’inizio (si veda, in particolare, la nota 1), le teorie del valore hanno tradizionalmente rivolto l’attenzione verso un sistema dei prezzi che potesse essere visto come il centro attorno al quale orbitano, nel tempo, i prezzi a cui effettivamente avvengono gli scambi. Quest’idea ha rappresentato, e rappresenta tuttora, il solo possibile legame tra la realtà, costituita ad esempio dai prezzi che si formano in ogni seduta della borsa merci di Chicago, ed una delle parti più astratte dell’analisi economica, come la teoria del valore. Se però adottassimo l’impostazione neo-walrasiana e quindi supponessimo che l’equilibrio non determini il livello centrale attorno al quale i prezzi effettivi possono gravitare nel tempo, ma piuttosto i prezzi delle merci per ogni possibile data di consegna, quel legame tra teoria e realtà si spezzerebbe.
Nella concezione tradizionale, i prezzi teorici e quelli effettivi, osservati alle diverse date, sono generalmente diversi e ciò è perfettamente compatibile con la tendenza di quest’ultimi ad orbitare attorno ai primi. Se invece, come avviene nell’approccio neo-walrasiano, l’equilibrio è formato dai prezzi delle merci consegnate in ogni periodo, allora non c’è nessuna possibilità di aggiustamento o di tendenza dei prezzi effettivi verso quelli teorici. O i prezzi effettivi delle merci consegnate ad una certa data, diciamo nel momento t, corrispondono, per un qualche caso fortunato, con quelli inizialmente determinati dall’equilibrio per consegne a quella data, oppure si passerà alla data successiva, t+1, e i prezzi effettivi e teorici alla data t rimarranno definitivamente diversi. In altri termini, visto che i processi di aggiustamento o gravitazione richiedono tempo, essi non sembrano poter aver luogo con riferimento ai prezzi di merci con specifiche date di consegna.[13]
Questo punto fu sollevato per la prima volta da Garegnani durante il convegno tenuto alla State University of New York di Buffalo nel 1974, i cui atti furono poi pubblicati nel 1976, e ripreso pochi anni dopo da Petri (1978). Garegnani, in particolare, sosteneva che l’accantonamento del metodo delle posizioni normali o di lungo periodo, dovuto all’ascesa dell’approccio neo-walrasiano, fosse avvenuto a scapito della significatività della teoria del valore, che si trasformava in una specie di giocattolo intellettuale, sprovvisto di rilevanza per l’analisi della realtà.
Inoltre, Garegnani vedeva all’origine della deriva neo-walrasiana della teoria neoclassica, proprio le difficoltà che questa aveva incontrato con riferimento al capitale come fattore produttivo. Nel determinare la svolta, era stato centrale, secondo Garegnani, il contributo di Hicks. Quest’ultimo aveva inizialmente tentato di adottare—nel libro Theory of Wages del 1932—una spiegazione della distribuzione in termini di sostituibilità (al margine) tra fattori produttivi, ricevendo forti obiezioni dovute alla particolare natura del fattore capitale, concepito come un aggregato, in valore, dei beni capitale. Tali critiche indussero Hicks ad una profonda revisione del suo approccio, fino ad intraprendere—con Value and Capital (1939)—una strada nuova, che se da un lato recuperava alcune caratteristiche della teoria di uno dei padri dell’approccio neoclassico, come Walras, dall’altro obbligava all’abbandono dell’idea tradizionale di equilibrio come centro di attrazione e all’introduzione di nuove nozioni di equilibrio, quelle appunto utilizzate nell’approccio neo-walrasiano.[14]
L’equilibrio risparmi-investimenti
Il secondo argomento introdotto da Garegnani—e poi ripreso da alcuni altri economisti—per rispondere alla tesi di Bliss e Hahn, si basava, come detto, sulla possibilità che i fenomeni del ritorno delle tecniche e dell’inversione dell’intensità capitalistica comportassero molteplicità o instabilità degli equilibri anche nei modelli neo-walrasiani, nonostante in questi il capitale non fosse considerato come un fattore produttivo. L’idea di fondo di questo argomento era che gli equilibri neo-walrasiani richiederebbero, in modo più o meno esplicito, l’uguaglianza tra risparmi e investimenti di ciascun periodo. Essendo gli investimenti il valore dei beni capitale nuovi acquistati dalle imprese, i problemi derivanti dalla trattazione della domanda di capitale in valore sarebbero potuti sorgere ancora attraverso la funzione, o la curva, degli investimenti.
In particolare, Garegnani,[15] facendo riferimento allo stesso modello utilizzato da Hahn nel suo articolo del 1982, cioè un modello di equilibrio intertemporale di tipo Arrow-Debreu, aveva cercato di dimostrare, in primo luogo, la presenza implicita di un mercato risparmi-investimenti e, in secondo luogo, la possibilità di equilibri multipli dovuti all’andamento non monotòno della curva degli investimenti nel caso di inversione dell’intensità capitalistica.[16]
Quello Arrow-Debreu è un particolare tipo di modello neo-walrasiano nel quale si suppone che i mercati a pronti e a termine siano: i) completi, cioè vi sia la possibilità di scambiare tutte le merci per ogni possibile data di consegna; ii) di numero finito, ovvero vi sia un numero finito di possibili date di consegna; iii) aperti tutti simultaneamente in un unico istante, l’istante iniziale del primo periodo. Quest’ultima caratteristica ha importanti implicazioni per il punto che stiamo esaminando. Infatti, da un lato, visto che le imprese possono vendere l’output che otterranno nello stesso istante in cui acquistano gli input che impiegheranno, nessuna anticipazione dei costi attraverso il capitale è necessaria,[17] ma i costi possono essere finanziati direttamente coi ricavi. Dall’altro lato, essendo tutti i mercati aperti in un solo istante, l’intera capacità di spesa dei consumatori dovrà essere esercitata in quell’istante, per l’acquisto di merci consegnate poi alle varie date. Così, nel modello Arrow-Debreu, risparmiare nel tentativo di trasferire potere d’acquisto a qualche data futura sarebbe addirittura impossibile, poiché nessuna transazione può aver luogo dopo l’istante iniziale.[18] Si vede dunque che in questo modello non ci sono né gli investimenti delle imprese, né i risparmi delle famiglie.[19]
Fu, di conseguenza, piuttosto agevole per gli economisti neo-walrasiani—e per Mandler (2005) in particolare—dimostrare che i problemi di molteplicità e instabilità degli equilibri, nei modelli Arrow-Debreu, potevano derivare soltanto da fenomeni riguardanti il lato delle scelte dei consumatori,[20] mentre le decisioni delle imprese—tra cui quelle riguardanti i metodi di produzione ed i beni capitale da impiegare—risultavano sostanzialmente ininfluenti.
E’ stato inoltre dimostrato (Fratini 2015) che il fenomeno del ritorno delle tecniche—almeno nel modo in cui esso era stato concepito nel dibattito degli anni sessanta—non è possibile nei modelli Arrow-Debreu. In particolare, affinché il ritorno delle tecniche possa manifestarsi, occorre che il legame tra tasso dell’interesse e i prezzi relativi sia del tipo che emerge quando quest’ultimi rimangono stazionari, cioè lo stesso sistema di prezzi relativi si applica sia agli input che agli output. Se invece i prezzi relativi delle merci consegnate alle diverse date non rimanessero stazionari, il loro legame con le variabili distributive si allenterebbe e si aprirebbe lo spazio per situazioni di coesistenza, invece che di reciproca esclusione, dei diversi metodi per la produzione di una stessa merce.
Tuttavia, sebbene nella teoria neo-walrasiana i prezzi relativi delle merci consegnate alla data t possano essere, in generale, diversi da quelli delle merci consegnate alla data t+1, si possono benissimo concepire modelli in cui, per ipotesi, i prezzi relativi rimangano stazionari. Anzi, se si escludono dinamiche caotiche, le posizioni di equilibrio stazionario dovrebbero essere proprio ciò verso cui tendono i sentieri di equilibrio (sequenziale) neo-walrasiano, su un arco temporale sufficientemente lungo. Così, se si rivolge l’analisi a questi equilibri stazionari, si scopre che non soltanto il ritorno delle tecniche è possibile, ma si può perfino individuare un suo ruolo nel determinare la molteplicità e l’instabilità delle soluzioni, proprio come si era inizialmente tentato di fare, senza successo, con riferimento all’equilibrio Arrow-Debreu.
In questi modelli, infatti, la stazionarietà dei prezzi relativi di periodo in periodo richiede l’assenza di accumulazione netta di beni capitale (per unità di lavoro). Di conseguenza, nel sistema delle condizioni di equilibrio stazionario deve essere inclusa quella secondo cui i risparmi lordi consentano esattamente di finanziare la riproduzione dei beni capitale impiegati, e questa condizione ha caratteristiche assai simili alla condizione di equilibrio tra offerta e domanda di capitale. In particolare, ci si aspetta che sia il livello del tasso dell’interesse ad aggiustarsi in modo tale da rendere nulla l’accumulazione netta, cioè da portare all’uguaglianza tra risparmi lordi e valore dei beni capitale impiegati dalle imprese.
Così, con riferimento ai modelli neo-walrasiani con prezzi stazionari, visto che in essi, come detto, si può manifestare il ritorno delle tecniche, è stato possibile mostrare che l’apparire di questo fenomeno può comportare: i) la molteplicità dei livelli del tasso dell’interesse di equilibrio (Fratini 2007); ii) l’instabilità (locale) degli equilibri, nel senso che livelli del tasso dell’interesse appena inferiori di quello di equilibrio possono generare un ammontare di risparmi lordi maggiore rispetto al valore della domanda di beni capitale da parte delle imprese (Fratini 2013a).
Quindi, in ultima analisi, la tesi avanzata da Garegnani, secondo cui anche i modelli neo-walrasiani—pur non considerando il capitale come un fattore produttivo—non sono immuni da problemi simili a quelli emersi nella prima fase del dibattito, si è dimostrata corretta, sebbene nel contesto dei modelli stazionari, piuttosto che in quelli Arrow-Debreu.
Conclusioni
Con riferimento ai dibattiti di teoria del capitale, ciò che sorprende di più è sicuramente il quasi totale disinteresse da parte della grande maggioranza degli economisti contemporanei. Tanto gli studiosi di impostazione neoclassica, quanto quelli eterodossi, con poche eccezioni, sembrano ritenere i risultati di queste controversie—nel caso ne abbiano sentito parlare—delle curiosità per specialisti, il cui interesse è confinato nei meandri più astratti della teoria del valore e della distribuzione, senza alcuna rilevanza per i loro propri studi ed analisi.
Così, il capitale considerato come un fattore produttivo, sostituibile al margine col lavoro, tanto da poter distinguere i diversi metodi (o tecniche) di produzione sulla base del rapporto capitale/lavoro che essi richiedono, continua ad essere presente non solo sui libri di testo destinati agli studenti di primo anno—come aveva scritto Hahn—ma purtroppo anche in innumerevoli articoli pubblicati sulle più prestigiose riviste scientifiche. Per non dire del ruolo svolto, nella teoria mainstream della crescita, dall’idea secondo cui il tasso dell’interesse, almeno nel lungo periodo, sarebbe determinato dalla produttività (marginale) del capitale.
Le teorie macroeconomiche che costituiscono l’ispirazione per le decisioni di politica economica dei principali paesi del mondo utilizzano quasi sempre una rappresentazione della produzione nella quale il capitale è uno degli input ed il tasso dell’interesse è il prezzo da pagare per il suo uso. Analogamente, le più diffuse interpretazioni dei fenomeni economici che accadono nel mondo, dalla globalizzazione alla crisi finanziaria, si fondano su queste erronee concezioni.
La teoria economica più rigorosa, non mainstream, sembra avere su di se una specie di maledizione di Cassandra. Essa non è in grado, da sola, di fornire una analisi soddisfacente dei fenomeni economici—principalmente perché quest’ultimi sono fortemente influenzati da una moltitudine di circostanze di carattere sociale e istituzionale che difficilmente possono essere proficuamente incluse al livello di astrattezza della teoria—ma risulta invece molto efficace per mettere in luce i problemi e le incoerenze delle analisi superficiali e difettose. Proprio come Cassandra, però, la buona teoria economica è quasi sempre inascoltata.
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