È mercoledì 20 settembre, e sono nell’ufficio in cui lavoro a Barcellona, in vía de les Cortes Catalanes. Sembra tutto tranquillo quando squilla il telefono e un collega alza la cornetta.
Dall’altro lato c’è sua nonna, e gli sta dando la notizia di una serie di retate della Guardia civile spagnola contro gli organizzatori del referendum per l’indipendenza della Catalogna—giudicato illegale dalla Corte costituzionale spagnola, e previsto per l’1 ottobre 2017. Alle 9 e 30 di quella mattina, infatti, la polizia nazionale ha fatto irruzione nella Consejería de Economía (il Ministero delle Finanze di Barcellona) e arrestato il segretario generale, nonché presidente del Consiglio Nazionale del partito indipendentista Esquerra Republicana de Catalunya (Sinistra Repubblicana di Catalogna) Josep Maria Jové.
Ora, vivo a Barcellona da tre anni, e in questo tempo ho capito una cosa molto semplice: in presenza di catalani è meglio non parlare d’indipendenza, perché sarà per quello che si scalderanno, o sarà per quello che potrebbero diventare molesti. Ogni volta che ho discusso il tema con chi si dichiara contrario, ho sempre notato che tendono ad abbassare la voce e guardarsi intorno. Gli indipendentisti, invece, la voce tendono al alzarla. Non solo: quando serve, manifestano e si riversano per strada in massa.
E così, sempre quella mattina, iniziamo a sentire cori, clacson, urla, e vedere la via colorarsi di giallo e di rosso della bandiera catalana. Dal balcone, dove ci spostiamo per osservare la scena, scorgiamo uomini, donne, bambini, anziani, cani, turisti e manifestanti avvolti nella bandiera indipendentista chiamata “Estelada blava,” tutti intenti a gridare, incitare e saltare, in nome di un paese che—indipendente o meno—è incredibilmente unito.
Nel frattempo, sul mio cellulare arrivano decine di messaggi di amici che mi invitano a scendere in piazza e protestare; Instagram inizia a riempirsi di Stories di persone che protestano, e su Facebook leggo parole come “vergogna” e frasi come “è tornato il franchismo.” Su Twitter, il governo catalano twitta cose come: “I cittadini sono convocati l’1 ottobre per difendere la democrazia da un regime repressivo e intimidatorio” o “Pensiamo che il governo spagnolo abbia oltrepassato la linea rossa che lo separava dai regimi autoritari e repressivi.”
Il resoconto me lo fa Laura il giorno dopo dell’accaduto, il 21 settembre. Laura è un’amica di 25 anni, che studia per diventare avvocatessa e ha preso parte alle proteste. “Eravamo circa 40mila, e le proteste sono andate avanti più di 20 ore. È stato assurdo vedere tanta gente così rabbiosa ma così pacifica. Li abbiamo rinchiusi, li abbiamo accerchiati, non li abbiamo fatti uscire quei bastardi della Guardia civile! Sono dovuti vestirsi da civili perché se la facevano addosso,” mi racconta.
“Ti sembra normale che non ci lascino votare?”, continua. “Ti sembra normale che in una democrazia non si possa esprimere il proprio voto? Votare non è proibito dal codice penale e ti dico una cosa, non ero sicura di votare sì all’indipendenza, però dopo tutto quello che è successo, che nel Ventunesimo secolo si debba ricorrere alla violenza, alla repressione con le forze armate, a me fa paura e fa pena. Quindi chiaro, dovrò votare sì.”
Marcus, un amico giornalista che lavora per un’importante rivista di Barcellona, la pensa all’opposto. “Il primo ad aver realmente messo in dubbio i principi democratici è stato il governo catalano con l’appoggio della CUP [Candidatura di Unità Popolare, un partito indipendentista catalano] a inizio mese, approvando illegalmente la legge che indiceva il referendum, mentre tutti i partiti dell’opposizione si dichiaravano contrari.” E anche il giudizio su quello che è successo il 20 di settembre è diverso: non un segno del ritorno del franchismo e dell’autoritarismo dello stato centrale, ma una “repressione giudiziaria decisa da un giudice di Barcellona. Le forze dell’ordine stanno solo adempiendo agli ordini di un giudice, odio quando la gente se la prende con chi fa il suo dovere.”
Nel fine settimana, e più precisamente la mattina di venerdì 22, un amico mi chiede su Whatsapp se avessi ancora una stanza libera nel mio appartamento, perché suo cugino (che è una guardia civile) sta cercando una stanza a Barcellona. In vista del referendum, infatti, il governo spagnolo ha inviato quanti più rinforzi possibili—tra cui un contingente di poliziotti a bordo di una nave da crociera dei Looney Tunes. A ogni modo, declino la richiesta di ospitalità: non tanto per una questione ideologica, ma per sopravvivenza. In caso si mettesse davvero male, eviterei di mettermi in casa il “nemico.”
Personalmente, comunque, in una situazione del genere ho solo domande: è corretto che sia solo la Catalogna a decidere per la propria indipendenza? Non dovrebbe il paese intero decidere insieme alla stessa Catalogna? Può un paese autodeterminarsi attraverso il dialogo? Chi ha l’autorità per decidere se quel territorio può ottenere l’indipendenza? Il referendum del primo ottobre—organizzato con parecchie forzature—ha realmente importanza, dato che è stato promosso da una sola una fazione?
Per cercare di rispondere almeno parzialmente a queste domande chiedo lumi a Jesus, un amico che fa il medico a Madrid, mentre mangiamo tapas di pesce in un ristorante della Barceloneta. Stando a quello che mi dice, dall’avvento della democrazia in Spagna lo stato centrale ha dato sempre più ampie concessioni alla Catalogna. Cedere sull’indipendenza, però, “andrebbe a scontrarsi con uno dei capisaldi della costituzione, ossia la sovranità del governo applicata a tutto il territorio spagnolo.” Tra l’altro, il PP (Partito Popolare, il partito di centrodestra a capo del governo spagnolo) “è nato come partito nazionalista e punto, non permetterà mai che la Catalogna diventi indipendente. Sarebbe come chiedere al Ku Klux Klan di smettere di essere razzista.”
Mentre cerca di finire la frase, alcune persone intorno a noi iniziano a battere piatti, bicchieri e forchette contro le superfici dei tavoli sempre più velocemente. All’improvviso c’è un rumore pazzesco—e non solo nel posto in cui ci troviamo, ma dalla cucina, dai palazzi di fronte e dalle strade. È la cacerolada , un segno di protesta pacifica contro il governo cominciato mercoledì e che viene ripetuto ogni sera alle dieci in punto.
Nonostante il perenne subbuglio in cui vive la città dagli arresti del 20 settembre, la festa della Mercé—la più grossa di Barcellona—aiuta a dimenticarsi un po’ quello che sta succedendo. A stemperare il tutto contribuiscono anche alcune storie a margine del grande evento, come quella che vede protagonisti degli impiegati di una ditta d’imballaggio. La mattina del 23 uno di loro posta su Whatsapp la foto di una cassa bianca, dicendo per scherzo che al suo interno si trovano le schede elettorali per il referendum. La Guardia civile lo prende però sul serio e nell’arco di qualche ora piomba negli uffici, trovando solo piccole confezioni di yogurt alla frutta. Una figuraccia, insomma.
Al di là di questi siparietti, tuttavia, a Barcellona tutti pensano che il primo di ottobre succederà qualcosa di grosso. Te lo fanno pensare i migliaia di poliziotti che aspettano nelle navi dei Looney Tunes, le manifestazioni fasciste che ogni tanto spuntano qua e là con tanto di bandiere spagnole e volti coperti, e lo suggeriscono quei tizi che alle dieci di ogni sera stuzzicano la tua resistenza al rumore. Eppure, appunto, nessuno ne vuole parlare apertamente—questi sono giorni di festa, anche se l’attentato sulle ramblas del 17 agosto ha lasciato ferite ancora aperte.
Joan Manuel Serrat, uno dei più noti cantautori catalani, si è espresso recentemente sul tema del referendum durante un suo concerto sostenendo che “sono state fatte queste leggi da un giorno all’altro, senza discuterle, senza che ci fosse nessun emendamento. Questo tipo di referendum a me non dà la sensazione che possa rappresentare nessuno, però chiaro, è colpa del PP se siamo arrivati a tutto questo.”
Nel frattempo, il procuratore generale spagnolo José Manuel Maza fa cadere sul tavolo la possibilità di arrestare il governatore della Catalogna Carles Puigdemont. Quest’ultimo—un paio di giorni dopo le prime proteste—ha concesso un’intervista alla televisione La Sexta suscitando non pochi imbarazzi. Quando il conduttore Jordi Évole gli ha chiesto se fosse o no favorevole all’indipendenza del Kurdistan iracheno, la sua risposta è stata: “Ovviamente, sono a favore del diritto di autodeterminazione di tutti i popoli, e quindi anche di quello del Kurdistan”. A quel punto Évole gli ha ricordato che nel 2014, durante una seduta del parlamento catalano sul referendum in Kurdistan, Puigdemont si era dichiarato contrario votando “no”. Cosa lo avrebbe fatto cambiare così dal nulla?
Parlo di questo scivolone con una mia amica di poco più di 20 anni, catalana e non indipendentista, che chiamiamo Lilì per la canzone di Venditti. È proprio lei ad avermi mandato il video dell’intervista. “Penso che questo presidente non sia catalanista, o che nemmeno lui sappia realmente cos’è,” mi spiega. “Ciò che penso è che Puigdemont ha visto l’occasione di ‘fare la storia’, quindi un giorno si è svegliato e si scoperto indipendentista, cominciando a lottare in quella direzione. Mi sembrano tutti falsi.”
Per stare sul versante dell’attualità, il 27 settembre il Tribunale di Giustizia Superiore della Catalogna ha proibito l’uso di strutture pubbliche per il referendum del 1-O (come viene abbreviato qui l’appuntamento). Da parte loro, i più grandi e potenti sindacati della Polizia Nazionale hanno chiesto ai Mossos d’Esquadra (la polizia autonoma catalana) di salvaguardare la sicurezza dei cittadini ad ogni costo. Ed è proprio ai Mossos che spetta prendere una serie di difficili decisioni: ubbidire agli ordini del Ministero dell’Interno—che la scorsa settimana, di fatto, li ha “commissariati”—o disattenderli? Lasciare che i loro cittadini votino e quindi schierarsi per l’indipendenza, o non schierarsi e perdere il supporto dei loro cittadini?
Con l’avvicinarsi dell’appuntamento, anche le persone più scettiche e meno fataliste che conosco iniziano ad avere paura. C’è anche chi si è preso dei giorni di vacanza per evitare di vivere quello che succederà—che ad oggi rimane pur sempre una grande incognita. Il punto, infatti, è che nessuno sa cosa potrà succedere. Magari tra qualche anno si vedranno questi giorni come un riuscito e democratico processo di autodeterminazione di un popolo; o, al contrario, come un fallito tentativo di prendersi qualcosa in modo pacifico, ma che è finito malissimo.
Cerco di non pensarci, come fanno tutti, e al tempo stesso mi preparo al primo ottobre. Mentre degusto un caffè orribile mi arriva un messaggio da un amico che vive a Saragozza, che mi domanda con annesso smile sorridente: “¿Listo para la guerra civil?”, pronto per la guerra civile?
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