Abbiamo solo meno diritti
di ALESSANDRO GILIOLI
Durante l’estate appena trascorsa il quotidiano toscano il Tirreno ha meritoriamente chiesto ai suoi lettori di segnalare come sono cambiate le condizioni del lavoro stagionale in quella regione, specie nel settore turistico-alberghiero.
Il quadro che ne è uscito è più o meno questo: tuttofare di ristoranti che lavorano 70 ore a settimana per tre euro l’ora senza nemmeno un giorno libero; guardiani notturni di stabilimenti balneari assunti per 15 giorni a 280 euro complessivi; straordinari in hotel pagati mezzo euro l’ora; cuoche che per 564 euro fanno 120 ore al mese; assunti con contratti da 4 ore al giorno per lavorarne poi 14 o 16; “tirocinanti” a 500 euro al mese; cameriere pagate due euro per ogni stanza pulita, quindi immerse in un corsa disperata e continua contro il casino lasciato dai clienti; addette alla pulizia di una banca assunte per mezz’ora al giorno, busta paga alla fine del mese di 60 euro.
Eccetera eccetera: il catalogo è qui, sicuramente comprende molti casi limite ma altrettanto sicuramente sono di più quelli che non hanno avuto il coraggio di denunciare – nemmeno anonimamente – condizioni simili o peggiori.
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Quando due o tre anni fa il governo Renzi varò prima il decreto Poletti poi il Jobs Act, io sconsigliai i miei amici d’area Pd di farsi troppo vanto dei numeri Istat che segnalavano un aumento degli occupati. Li sconsigliai per tre motivi: primo, il curioso criterio per cui Istat considera occupato anche chi ha lavorato una sola ora nella settimana di riferimento (e perfino chi ha lavorato almeno per un’ora presso la ditta di un familiare senza essere retribuito); secondo, l’evidente impatto su quei numeri degli sgravi fiscali a termine, un doping pagato decine di miliardi dallo Stato, insomma una bolla e tutta a carico dei contribuenti; terzo perché l’aumento dell’età pensionabile previsto dalla riforma Fornero produce un effetto tappo in uscita, il che deforma il numero finale complessivo degli “occupati”.
Ma soprattutto li sconsigliai di farsene vanto perché lo strombazzamento produce l’effetto opposto, se non ha riscontri concreti nella vita delle persone. Cioè determina l’effetto “non solo non c’è lavoro, ma mi pigliano pure per il culo dicendo che tutto va bene”.
È stato probabilmente questo abisso tra narrazione e vita quotidiana a provocare (o almeno a concausare) il rifiuto del renzismo che si è declinato il 4 dicembre scorso. Se prendi tre euro l’ora o sei pagato a cottimo per portare cibo giapponese in bicicletta, poi ti girano parecchio le balle a sentire in tivù che l’occupazione va bene.
Ciò nonostante, ancora ieri Renzi ha twittato contro i “gufi” per l’aumento dell’occupazione Istat ad agosto, tutta trainata dal precariato stagionale ben descritto dal Tirreno (specie per i giovani) e dal solito tappo Fornero (per gli anziani). Amen. Dio acceca coloro che vuole perdere.
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Chi invece non vuole essere accecato, o annebbiato dalla narrazione tossica, può trovare da giovedì 5 ottobre in libreria lo studio-inchiesta dell’economista Marta Fana, che da qualche anno è andata vivere a Parigi come capita a molti ricercatori italiani, ma ha continuato a occuparsi del lavoro nel nostro Paese. Il libro si intitola, senza giri di parole, “Non è lavoro, è sfruttamento” ed è edito da Laterza.
È, come dicevo, una via di mezzo tra un’inchiesta sul campo nel mondo del lavoro (quello vero, non quello dei dati Istat) e di analisi, cifre, tabelle, confronti: insomma roba da economisti. Ma spiegato in modo talmente semplice che lo capisco pure io.
C’è tutto: c’è il lavoro gratuito più o meno nascosto da vari nomi, c’è il grande ritorno del cottimo, c’è la parabola grottesca dei voucher, c’è lo schiavismo nella logistica al servizio delle ‘over the top’ digitali, c’è la deriva nella stessa direzione nei servizi pubblici e negli appalti delle pubbliche amministrazioni, ci sono i meccanismi ricattatori e di torsione psicologica che si diffondono nel nuovo clima tutto top-down, c’è il regalo di manodopera ad aziende come McDonalds, Ibm e Bosch fatto passare per “alternanza scuola-lavoro”.
Ma c’è anche la distruzione del patto sociale che aveva garantito la crescita del Paese per due decenni nel Dopoguerra; c’è la diffusione del mito farlocco e ideologico secondo cui maggiore ‘flessibilità’ produce più posti di lavoro; c’è la denuncia dell’interiorizzazione dello sfruttamento (quel “sempre meglio di niente” che agevola parecchio la slavina del dumping salariale e di diritti); ci sono gli interventi legislativi che hanno portato a questa situazione (perché non è vero che il degrado non ha responsabili); e c’è la guerra tra sfruttati, vero capolavoro del capitalismo contemporaneo.
E c’è infine la denuncia politica: quello che è avvenuto non è stato una casuale concomitanza di eventi – o uno spiacevole effetto collaterale della recessione iniziata nel 2008: «Non siamo di fronte a un momento d’eccezione, bensì nel pieno di un progetto politico che con la crisi è stato esacerbato per riaffermare e consolidare il potere di una parte della società su un’altra. Lavoro povero e sfruttamento sono la regola, non l’eccezione. (…) Dicevano: meno diritti, più crescita. Abbiamo solo meno diritti».
fonte: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/10/03/abbiamo-solo-meno-diritti/
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