Brancaccio: “Sostenere l’austerity e poi dichiararsi antifascisti? È un’ipocrisia”
di EMILIANO BRANCACCIO
Per l’economista Emiliano Brancaccio chi ha appoggiato le ricette deflazioniste di questi anni non può diffondere appelli al “voto utile” per frenare il populismo xenofobo, dato che proprio quelle politiche hanno spianato la strada all’attuale revival fascistoide: “Il vento di estrema destra è forte ed è destinato a durare: non potrà certo essere arrestato escogitando tattiche elettorali di corto respiro”.
intervista a Emiliano Brancaccio di Giacomo Russo Spena
“Se ti dichiari antifascista, non puoi essere un ‘deflazionista’ che invoca nuove ondate di austerity e di privatizzazioni, sostiene le deregolamentazioni del lavoro e promuove la gara al ribasso dei salari e dei prezzi, perché proprio queste politiche favoriscono l’avanzata delle destre estreme”. E’ il giudizio dell’economista Emiliano Brancaccio, uno studioso che da tempo richiama l’attenzione sui fattori economici alla base del rinnovato successo dell’ultra-destra. Tra raid contro gli immigrati, assalti alle redazioni giornalistiche, svastiche di moda tra i poliziotti, e soprattutto l’ingresso di forze xenofobe nei governi di alcuni Paesi d’Europa, si discute in questi giorni del ritorno di una possibile “minaccia fascista”. Da Zizek a Chomsky, vari intellettuali sono stati interpellati per cercare di capire se questo pericolo sia concreto e quali possano essere le sue cause. Su questo Brancaccio non ha dubbi: il pericolo esiste e viene accentuato dalle politiche economiche dominanti, alle quali ha dedicato studi critici la cui rilevanza è stata riconosciuta persino da Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale.
Professor Brancaccio, nel 2013 Lei fu promotore del “monito degli economisti”, un documento pubblicato sul Financial Times e firmato da importanti membri della comunità accademica internazionale. Nel “monito” sostenevate che l’austerity, la flessibilità del lavoro e le altre politiche dei sacrifici non aiutano a uscire dalla crisi e possono invece aprire la via al più funesto irrazionalismo di destra. Vista l’ascesa recente di movimenti xenofobi e ultranazionalisti, possiamo dire che siete stati profetici?
L’idea che quel genere di politiche possa alimentare l’estremismo di destra non l’abbiamo certo inventata noi. Tracce di essa si trovano in alcune celebri premonizioni di Keynes, negli scritti di Maurice Dobb e di altri autori marxisti, e pure in alcuni studi mainstream dedicati al periodo tra le due guerre. Nella fase attuale questa idea trova diversi riscontri empirici: indizi su una correlazione tra le politiche “deflazioniste” di questi anni e l’avanzata delle destre estreme non mancano.
Cosa intende per politiche “deflazioniste”?
Con quel termine gli economisti intendono una strategia di gestione delle crisi che impone ai debitori pubblici e privati di rimborsare i prestiti a colpi di svendite di capitale, compressioni dei diritti sociali e del lavoro, abbattimenti delle spese e gare al ribasso sui salari e sui prezzi. Conseguenza di questa strategia è che la domanda di merci langue, gli sbocchi di mercato si restringono e la competizione globale tra capitali si fa più feroce. In questo scenario, ampie frange di piccola e media borghesia non riescono a reggere la concorrenza dei capitali più forti, risultano afflitte da erosioni dei risparmi e da problemi di insolvenza, e in prospettiva temono uno scivolamento verso forme di proletarizzazione. E’ quella che Marx definiva la “centralizzazione dei capitali” in sempre meno mani, con i piccoli proprietari che vengono via via espropriati dai più grandi.
In che modo questo tipo di politica favorirebbe l’avanzata delle destre estreme?
La centralizzazione scatena una reazione. Per difendersi dai grandi gruppi i piccoli proprietari tentano di organizzarsi politicamente. Poiché le loro ramificazioni internazionali sono limitate e i loro interessi prevalenti sono legati ai circuiti economici nazionali, la difesa politica di questi capitalisti minori assume facilmente i connotati tipici di un movimento sciovinista e al limite di estrema destra. Un movimento rappresentativo di interessi troppo deboli per diventare regime politico, ma sufficientemente forti per condizionare il corso degli eventi.
Quali sono gli altri elementi favorevoli all’ascesa delle destre estreme?
Di sicuro una classe lavoratrice disorganizzata, che sia priva di coscienza delle reali cause del proprio disagio e che si lasci sedurre da rozzi capri espiatori, come ad esempio gli allarmismi sull’avvento di orde di immigrati. In situazioni simili, basta poco ai pifferai della destra estrema per attirare frange rilevanti del mondo del lavoro.
Al giorno d’oggi, questi fattori alimentano un indistinto populismo di destra o possono fare insorgere una vera e propria minaccia fascista?
Benedetto Croce concepì il fascismo come una sorta di “ubriacatura”, una mera “parentesi” storica causata dalla guerra. Altri studiosi hanno suggerito che il fascismo sia stato una reazione alla minaccia comunista e che in assenza di questa non possa mai riaffiorare. Gli odierni liberali la pensano più o meno in questi modi, direi tutti piuttosto rassicuranti. Io però seguo una diversa storiografia. A mio avviso, sia pure in forme continuamente rinnovate, il fascismo è un virus interno alla meccanica stessa del capitale, che si alimenta delle contraddizioni innescate dalle crisi capitalistiche. Sebbene in forma blanda e mimetizzata, oggi quel virus è di nuovo attivo, la sua influenza sulle azioni di molti governi è già un dato di fatto. Ovviamente non stiamo ancora parlando di un fascismo che si fa regime. Ma se qualcuno azzardasse che già ora stiamo rischiando un’egemonia culturale di stampo neofascista non lo troverei assurdo.
Eppure Slavoji Zizek ritiene che l’odierno antifascismo europeo sia un feticcio fuorviante. E Noam Chomsky sostiene che l’antifascismo militante negli Stati Uniti è inutile, e rischia solo di favorire la reazione autoritaria del governo. Che ne pensa?
Mi sembrano posizioni miopi. Per adesso, nelle arene politiche circolano solo emuli grotteschi e persino un po’ ridicoli, ma forme surrettizie di fascismo stanno realmente fiorendo e sembrano destinate a guadagnare forza ad ogni successiva crisi economica. Si cita spesso il Marx del 18 Brumaio, dove sosteneva che la Storia tende a presentarsi prima come tragedia e poi come farsa. Io aggiungerei che a volte la sequenza si rovescia: per evitare di passare dall’odierna farsa a una futura tragedia, forse faremmo meglio a considerare la militanza antifascista un discrimine fondamentale per la politica del nostro tempo.
Se è per questo anche il presidente francese Macron ha issato la bandiera dell’antifascismo. Eppure, in un’intervista all’Espresso che fece molto discutere, Lei dichiarò che alle elezioni francesi non avrebbe votato Macron per fermare la Le Pen. Come mai?
Oggi più di ieri confermo quella mia scelta. Dobbiamo comprendere che siamo dinanzi a una doppia mistificazione: quella di chi minimizza l’evidente ascesa di una cultura politica di estrema destra, e quella di chi si illude di contrastarla sostenendo forze che portano avanti le politiche “deflazioniste” favorevoli al grande capitale. La verità è che proprio quelle politiche hanno accentuato squilibri e disuguaglianze, e hanno quindi spianato la strada al revival fascistoide di questi anni. Macron è un esempio tipico. Dopo il fallimento dei socialisti francesi, il nuovo presidente ha spostato ancor più a destra il quadro politico e la sua strategia economica si sta rivelando più “deflazionista” delle precedenti. La mia previsione è che al termine del suo mandato la Francia si risveglierà ancor più nera di oggi. E’ quello che definisco un tipico “antifascismo deflazionista”: contraddittorio e a lungo andare controproducente.
Nella stessa contraddizione cade anche il Partito democratico in Italia? Renzi è come Macron?
Questa fatale contraddizione vale per la Francia come per l’Italia, e riguarda tutti i soggetti che si dichiarano antifascisti ma che per anni si sono ritrovati ad appoggiare le politiche “deflazioniste”. Soggetti che sono rimasti fedeli a questo tipo di politiche fino all’autolesionismo, mentre al contrario si sono rivelati più volte disponibili a fare compromessi con il loro dichiarato antifascismo ammiccando ad alcune battaglie tipiche della destra estrema.
Ma allora Lei cosa pensa degli appelli al “voto utile” a favore della coalizione che ruoterà intorno al Pd? Molti sostengono che quel voto sia l’unico in grado di frenare l’avanzata del populismo xenofobo.
In Italia come nel resto d’Europa, penso che il cosiddetto “voto utile” non possa frenare niente. Il vento di estrema destra è forte ed è destinato a durare: non potrà certo essere arrestato escogitando tattiche elettorali di corto respiro, che contribuiscono solo a reiterare l’ipocrisia di un “antifascismo deflazionista”.
Si potrebbe obiettare che le politiche “deflazioniste” ce le impone l’Europa e che dentro l’euro non c’è alternativa ad esse.
Che l’assetto dell’Unione sia parte del problema non è una novità: anche i più convinti sostenitori della moneta unica ammettono che i vincoli dell’eurozona contribuiscono al diffondersi della peggiore reazione nazionalista. Aggiungo solo che la questione non si risolve con un mero cambio di moneta. In condizioni di libera circolazione dei capitali, il nesso tra politiche “deflazioniste” e avanzata dell’estrema destra può manifestarsi anche fuori dall’euro.
Come si può fermare l’avanzata dell’estremismo di destra? E in quali modi si dovrebbe aggiornare il messaggio dell’antifascismo?
Avremmo bisogno di un lavoro collettivo di lunga lena, che ci aiuti a riconquistare consapevolezza delle basi materiali su cui nasce e prospera il virus neofascista. Dovremmo recuperare e aggiornare le nostre conoscenze sui nessi tra crisi capitalistica, politiche economiche “deflazioniste” e sviluppo dei movimenti reazionari di massa. Solo in questi termini si può liberare l’antifascismo da ogni ipocrisia per renderlo nuovamente efficace, moderno, all’altezza di questi tempi difficili.
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