da L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Sebastiano Caputo)

Sette anni di guerra per procura alla Siria non hanno insegnato nulla ai commentatori di politica estera che ancora una volta seguono ciecamente una narrativa anti-iraniana diffusa a fuochi incrociati dai think tank neoconservatorie dagli intellettuali più progressisti del cosiddetto “mondo libero”. Insomma quelli che venivano considerati i più accaniti avversari di Donald Trump durante la campagna elettorale si sono velocemente schierati al suo fianco per soffiare su una protesta di piccole dimensioni scoppiata nel Khorasan, ora estesasi in tutto il Paese. Per capire l’approccio dei media occidentali occorre prima di tutto studiare la geografia elettorale. Le manifestazioni non sono iniziate nella capitale Teheran (quasi 20 milioni di abitanti), roccaforte di Rohani e dei riformisti (insider della teocrazia quanto gli altri), bensì nell’Iran profondo, dove la mitologia modernista nemmeno viene sfiorata dall’immaginario collettivo tanto che proprio in quelle zone i conservatori (laici e religiosi) fanno il pieno di voti. Le motivazioni che hanno spinto dunque le persone a scendere in piazza sono state dettate dal rifiuto dell’attuale classe dirigente, accusata di corruzione e del rialzo dei prezzi, e non di un intero sistema, il governo islamico, come invece vogliono far credere la maggior parte degli opinionisti che ignorano la complessità di questo Paese.

Se da un lato esiste una totale superficialità dei giornalisti che invece di incrociare fonti locali e internazionali copiano-incollano le notizie da emittenti che rispondono ad agende politiche oppure enfatizzano tweet individuali funzionali alla narrativa mainstream, dall’altro c’è una volontà precisa di trasformare delle normali e legittime proteste in qualcosa di molto diverso e pericoloso. Al pari della Libia e della Siria, l’Iran è una nazione non allineata che pur soffrendo sul piano economico nazionale a causa del fallito (e non per colpa della Guida Suprema Ali Khamenei) accordo sul nucleare il quale avrebbe dovuto eliminare le sanzioni imposte dalle cancellerie occidentali, ha di recente conquistato una dimensione geopolitica di primo piano in un Medio Oriente di etnia araba, turca e curda, sconfiggendo Daesh al fianco dei russi, dei siriani e dei libanesi di Hezbollah e aprendo il corridoio sciita che da Teheran arriva a Beirut passando per Bagdad e Damasco.  Chi vuole la testa degli Ayatollah sa perfettamente oggi che l’Iran, vera e propria potenza militare, non lo puoi destabilizzare dall’esterno ma solo dall’interno, nonostante il consenso popolare alla Repubblica Islamica è quantomeno innegabile (seppur non unanime).  

Ecco che qualsiasi mobilitazione popolare, anche se isolata e senza un leader, diventa per alcuni gruppi di pressione stranieri un pretesto per interferire mediaticamente (se non fisicamente) e indebolire l’Iran agli occhi dell’opinione pubblica mondiale in vista di “un regime change”. Il caso più eclatante di questi giorni è stata la fotografia circolata in rete e sulle televisioni di tutto il mondo di una donna iraniana con la testa scoperta mentre tiene in mano un bastone sul quale è appoggiato il suo velo bianco, e utilizzata nel momento opportuno per confondere i moventi delle manifestazioni e di fatto strumentalizzare, per fini ideologici, quei diseredati scesi per strada a chiedere il pane prima ancora che la libertà (un concetto vago peraltro che vuol dire tutto e il suo contrario!). L’immagine è stata scattata tre giorni prima delle sollevazioni e non aveva fatto nessun clamore (nel video le persone camminano come se nulla fosse), ma è stata pubblicata per la prima volta su Facebook e Instagram qualche giorno dopo da Masih Alinejad, attivista iraniana che guarda caso vive da anni in esilio tra Londra e New York, e prontamente ritoccata da un grafico professionista che l’ha fatta diventare un’icona – rilanciata anche da Roberto Saviano sui suoi canali – per gli “indignati a comando” di tutto il mondo. E’ il solito copione che segue più o meno le stesse dinamiche. Ma gli apprendisti stregoni non hanno fatto i conti con il popolo iraniano che conosce il senso del limite. Non per paura degli uomini col turbante, tantomeno per sottomissione ad Allah. Piuttosto perché esiste un proverbio persiano che dice “a poco a poco un filo di lana diventa un tappeto” e i tappeti, da quelle parti, si fanno ancora in casa.