La guerra in corso in Yemen si sta velocemente trasformando nell’equivalente arabo della guerra del Vietnam. Le due maggiori potenze del mondo musulmano – Arabia Saudita e Iran – si sfidano a supporto dei due schieramenti in lotta, bloccati in uno scontro impari che non trova soluzione.
Da una parte, infatti, troviamo il governo yemenita appoggiato da una vasta coalizione militare guidata da Riad e formata da tutti i suoi alleati, inclusi gli Stati Uniti. Dall’altra ci sono i ribelli Houthi, a loro volta supportati dalla Repubblica Iraniana e dalle milizie libanesi di Hezbollah. Terzi incomodi tra i due schieramenti sono i gruppi armati legati ad Al Qaeda e il ramo yemenita del Califfato Islamico, Ansar Al Sharia.
Nell’analizzare l’andamento del conflitto yemenita, scoppiato all’inizio del 2015, va tenuto presente che l’Arabia Saudita dispone del terzo esercito meglio equipaggiato al mondo, al quale in questa guerra si affiancano quelli degli Stati suoi alleati. L’aviazione saudita possiede 180 caccia di ultimissima generazione (tra cui 50 Eurofighter Typhoon) e l’esercito può contare su 300mila soldati, tutti dotati di armi di recente acquisto. A questo si contrappongono le milizie Houthi che hanno meno della metà dei soldati (stime equilibrate parlano di una cifra tra gli 80mila e i 130mila uomini) e le cui armi sono piuttosto datate, molte di epoca sovietica.
A prima vista potrebbe sembrare uno scontro impari, ma la cosa sorprendente è che in realtà l’Arabia Saudita sta perdendo questa guerra. Come si spiega dunque che uno degli eserciti meglio equipaggiati al mondo non riesca a sconfiggere poche migliaia di guerriglieri?
La storia dello Yemen
Per un’analisi completa di quanto sta accadendo in Yemen è necessario partire dalle radici di questo conflitto. Non è la prima volta infatti che lo Yemen, il Paese più povero del Medio Oriente, si trova al centro di una guerra civile. Quello iniziato nel 2015 è il terzo scontro armato interno occorso negli ultimi 25 anni.
Lo Yemen è un Paese fortemente diviso sia a livello ideologico, sia da un punto di vista religioso tra sunniti e sciiti. Fino al 1990 sul territorio adesso occupato dalla Repubblica dello Yemen esistevano due stati diversi: lo Yemen del Nord – o Repubblica Araba dello Yemen con governo filo-saudita nato sulle ceneri di uno dei principati eredi dell’Impero Ottomano – e lo Yemen del Sud – o Repubblica Democratica Popolare dello Yemen, ex colonia britannica, passata in mano, con ingerenze egiziane, a un governo di ispirazione marxista-leninista.
Nel 1978 sale al potere a Sanaa, nel Nord, Ali Abdullah Saleh, che in seguito estenderà il suo potere a tutto lo Yemen riunificato nel 1990. Come succede spesso in casi analoghi Saleh, pur avviando una fase di modernizzazione del Paese, governa con il pugno di ferro, attirando critiche internazionali e malcontento interno sullo stato della democrazia yemenita e sul rispetto dei diritti umani. In questo clima quattro anni dopo, nel 1994, alcuni ufficiali ed ex-rappresentanti del governo del Sud tentano una secessione ma la rivolta viene repressa nel giro di pochi giorni. Nel 2004 scoppiano ancora una volta tumulti contro il regime di Sanaa. Questa volta l’opposizione al potere è costituita principalmente dal neo-formato gruppo sciita degli Houthi, che da quel momento in poi costituirà la principale opposizione al governo di Saleh. Abdullah Saleh resta al potere fino a quando, sulla scorta delle primavere arabe, anche la popolazione yemenita chiede e ottiene un cambio alla guida del Paese. È il 2012 e Abd Rabbih Mansur Hadi, vice di Saleh, si trova a capo di un governo fragile che deve pure far fronte a un momento di rapida crescita del movimento jihadista allora raccolto sotto le bandiere di Al Qaeda.
Gli Houthi tornano alla ribalta, dopo aver raccolto consenso intorno alle proteste contro il governo e nel 2015 occupano la capitale costringendo il presidente Hadi alla fuga ad Aden, sua città natale nel sud del Paese, dove però riesce a costituire un governo provvisorio.
L’Arabia Saudita non può rimanere alla finestra e permettere che i tanto odiati nemici sciiti, longa manus degli ayatollah di Teheran, prendano il controllo del Paese e decide di appoggiare apertamente, anche a livello militare, il governo di Aden. Contemporaneamente, ma non casualmente, si riapre con più vigore il fronte jihadista con in testa lo Stato Islamico nella sua variante yemenita costituita dal movimento Ansar al-Sharia, e cellule rimaste invece legate ad Al Qaeda.
Yemen, una fortezza naturale
Quando si pensa alla penisola araba vengono in mente immediatamente immagini di enormi distese di sabbia immobili e dune esteticamente perfette ordinate dal vento, e probabilmente questa idea vale per gran parte dell’Arabia Saudita. Lo Yemen però ha una conformazione geografica completamente differente: è occupato per gran parte da altopiani e montagne che in alcuni casi superano i 3.500 metri.
Questo spiega subito un primo punto di difficoltà contro cui si è scontrata Casa Saud nella conduzione del conflitto yemenita: trasportare un esercito sulle montagne è estremamente impegnativo a livello logistico a prescindere da quanto sia ben equipaggiato. I sauditi sono dotati di circa 400 carrarmati M1 Abrams di fabbricazione statunitense, un modello di tank considerato tra i più efficienti e resistenti al mondo: 65 tonnellate di acciaio e kevlar su cingoli. Non è difficile immaginare quali difficoltà trovi un mezzo di queste dimensioni ad attraversare gli stretti passi di montagna yemeniti, senza esporsi al fuoco nemico. Con queste condizioni sono necessarie poche decine di uomini forniti di lanciarazzi RPG7 per distruggere un intero battaglione di tank che si inerpica sui sentieri in fila indiana. L’RPG7 è un lanciarazzi molto comune nei teatri di guerra di mezzo mondo e ha un prezzo di mercato che si aggira intorno ai 3mila dollari. I tank della serie M1, invece, costano più o meno 6 milioni di dollari ognuno, circa 2mila volte di più.
Non va meglio per la coalizione saudita nello spazio aereo in cui velivoli e droni trovano difficoltà nella localizzazione del nemico che si nasconde nelle irregolarità morfologiche del territorio ricco di grotte e anfratti naturali; nemmeno i radar di ultima generazione di cui dispongono i droni USA possono identificare con certezza cosa o chi si trova dentro queste caverne. A questo si somma il vantaggio che hanno le forze vicine agli Houthi, costituito dalla perfetta conoscenza dei luoghi nei quali si muovono con l’aiuto di animali da soma, spesso un valore aggiunto antiquato ma efficace per il trasporto delle apparecchiature militari.
Date queste condizioni si intuisce come sia difficile per i sauditi tracciare gli spostamenti dei guerriglieri e contrastarli efficacemente, mentre al contrario l’imponente macchina bellica della coalizione è costantemente esposta agli attacchi dei ribelli. Tuttavia il vantaggio logistico non spiega in pieno l’andamento fallimentare di questo spedizione militare.
Riad ha un esercito demotivato
Apparentemente si potrebbe pensare che il sistema politico di un Paese abbia poco a che vedere con l’organizzazione militare del suo esercito e col modo in cui porta avanti una guerra. In realtà, per Paesi come l’Arabia Saudita le due cose sono strettamente correlate. La famiglia reale è consapevole di quanto poco sia affidabile il proprio esercito, per cui la sua principale ossessione è quella di mantenere il controllo di tutta la catena di comando, dai ranghi più alti degli ufficiali fino all’ultimo soldato sul campo. Questo fa sì che il potere decisionale sia molto più lento che nella maggior parte degli altri eserciti moderni.
Normalmente, nella maggior parte degli eserciti occidentali il singolo soldato ha un’autonomia decisionale tale per cui può chiedere e ottenere rinforzi in base a sue valutazioni, derivate dalle circostanze in cui egli si trova. Potrà richiedere il supporto dell’aviazione, per esempio, anche soltanto interfacciandosi con un pari grado via radio. Non accade lo stesso nell’esercito saudita in cui l’informazione deve risalire tutti i gradi della gerarchia fino a trovare qualcuno in grado di prendere una decisione esecutiva. Si stima che il tempo intercorso tra la richiesta e la decisione sia di circa un’ora. Quei sessanta minuti probabilmente fanno la differenza tra neutralizzare una postazione nemica e perdere il soldato sul campo.
Oltre a questo, anche l’addestramento dei sauditi gioca un ruolo negli esiti della guerra; gran parte degli ufficiali raggiunge i gradi più alti in virtù del proprio rango e non attraverso la formazione nelle accademie militari. Questo implica una grave mancanza di preparazione e di qualifiche tecniche che si ripercuotono sulle attività belliche. Infatti, in Yemen si è assistito molte volte assistito a errori grossolani dovuti essenzialmente alla scarsa preparazione dei militari sauditi, come l’isolamento di carrarmati lasciati alla mercé degli Houthi, liberi di avvicinarsi e neutralizzare i mezzi.
Sorprendentemente dall’altra parte i ribelli Houthi vantano un’organizzazione del loro esercito più simile a quella degli Stati occidentali: piccoli gruppi sono in grado di gestirsi in autonomia e di rispondere velocemente e in modo efficace senza dover risalire tutta catena di comando per prendere decisioni sul campo. Senza dubbio anche le motivazioni di chi resiste sono un elemento di forza in più; semplicemente perché per gli Houthi il ritiro non è un’opzione: loro difendono le loro case da un’invasione straniera.
In conclusione, la guerra in Yemen è un esempio lampante di come la strategia sia più importante dell’equipaggiamento militare in senso stretto e di come un sistema di controllo così autoritario renda gli eserciti molto meno efficienti. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: la coalizione a guida saudita sta perdendo forza, le sue componenti si stanno dividendo e per Riad, adesso, il vero obiettivo è diventato quello di uscire in qualche modo dal pantano yemenita.
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