1917-2017: effetti della guerra, effetti del neoliberismo
di LO SGUARDO (Augusto Illuminati)
Il 1917 di Martov fu singolare e ne derivò una lettura minoritaria, complessivamente erronea, ma a tratti acuta e presaga della rivoluzione. Martov (Julij Osipovič Cederbaum, Costantinopoli 1873-Schönberg 1923), dopo essere passato da Odessa a Pietroburgo per sfuggire ai pogrom, si era avvicinati al marxismo e fu arrestato per la prima volta nel 1892, esiliato a Vilna, in Lituania, dove contribuisce alla costituzione del Bund (Unione generale dei lavoratori ebrei). Ritornato a Pietroburgo, fonda insieme a Lenin, l’Unione di lotta per l’emancipazione della classe operaia: nel 1896 vengono entrambi esiliati in Siberia. Contrae la tubercolosi, come la maggior parte dei carcerati di epoca zarista, e non ne guarirà mai. Nel 1898 confluiscono nel riorganizzato Partito Operaio Socialdemocratico Russo (POSDR) e fondano, con Plechanov e Vera Zásulič la rivista «Iskra». Nel 1903 redazione e Posdr si spaccano in due tendenze: Lenin è alla testa di quella maggioritaria (bolscevica), Martov di quella minoritaria (menscevica). Nel 1905 Martov oscilla fra una rivoluzione popolare non compromessa con gli elementi borghesi e la partecipazione a una coalizione con la borghesia liberale (i cadetti). Nel 1914 si oppone alla guerra imperialista, avvicinandosi a Lenin e Trockij e partecipando alle conferenze internazionaliste di Zimmerwald (1915) e Kienthal (1916).
Allo scoppio della rivoluzione di febbraio del 1917, Martov torna in Russia schierandosi senza successo contro la destra menscevica, che partecipa al governo provvisorio e sostiene la prosecuzione della guerra. Subito dopo la presa del Palazzo d’Inverno, nel secondo congresso dei Soviet (7 e 8 novembre 1917) la fazione internazionalista di Martov propose un governo di coalizione di tutte le forze socialiste – bolscevichi, menscevichi, socialisti rivoluzionari. La risoluzione fu approvata per acclamazione ma vanificata poco dopo dall’abbandono dei lavori da parte dei menscevichi di destra e dei SR di destra, per protesta contro il colpo di mano bolscevico. A quel punto Trockij respinse brutalmente le posizioni tanto dei fuoriusciti quanto dei conciliatori e li consegnò metaforicamente all’immondezzaio della storia. Anche Martov e seguaci abbandonarono allora il congresso e, dopo lo scioglimento nel 1918 dell’Assemblea Costituente passarono all’opposizione; Martov e tuttavia sostenne i bolscevichi nella guerra civile contro i Bianchi, pur criticandone aspramente le tendenze dittatoriali. Nel 1920 Lenin concesse all’antico compagno d’armi di trasferirsi in Germania per curarsi la tubercolosi, cui soccombette 4 anni più tardi. Poco prima di morire aveva fondato il «Socialističeskij Vestnik» (Messaggero Socialista), organo dei menscevichi in esilio a Berlino, Parigi e New York.
Si dice che all’inizio della Nep Lenin avesse tentato inutilmente di farlo tornare in Russia. Dopo la sua morte F. Dan, leader del menscevismo di destra, pubblicò l’opera teorica più suggestiva di Martov, il saggio sulle radici del bolscevismo mondiale, il cui primi paragrafi erano stati pubblicati a Mosca nel 1919.
La tesi di fondo dell’opuscolo è che «il bolscevismo non è semplicemente una rivoluzione di soldati, ma l’influenza del bolscevismo sul decorso della rivoluzione in ogni paese è proporzionale alla partecipazione che ad essa prendono le masse armate dei soldati»1. Si tratta dell’estrema conseguenza del “comunismo del consumatore” che unisce, con peculiari accenti anti-parlamentari (oggi diremmo “populisti”) «elementi eterogenei per composizione di classe e declassati, cioè staccati dal loro ambiente sociale di origine»2.
Mentre il «comunismo del produttore» si fa carico dello sviluppo delle forze produttive e della cultura accumulata nei secoli, il comunismo del consumatore, risentito e distruttivo, è causato dal cambiamento delle condizioni materiali prodotto dalla guerra, fa saltare la prospettiva socialdemocratica e le acquisizioni della democrazia, regredendo a un modello giacobino e blanquista. Sebbene il fenomeno bolscevico non possa ridursi al peso del fattore militare, scarso in paesi diversi dalla Russia, tuttavia quel fattore entra con forza nella psicologia del bolscevismo cui è dedicato il § 3. Se al primo posto di quella mentalità è il massimalismo, «acriticamente fiducioso nell’inesauribilità delle risorse e delle ricchezze della società di cui aspira a impadronirsi il proletariato», al secondo si colloca «l’assenza di un serio interesse per le necessità della produzione sociale, la prevalenza – come tra i soldati – del punto di vista del consumatore su quello del produttore»3.
Al terzo posto vi è la propensione a risolvere tutti i problemi della lotta politica con l’uso immediato della forza armata, sia contro il nemico di classe sia per risolvere i rapporti fra singole parti (e partiti) del proletariato.
Durante la guerra
la massa operaia è cambiata dal punto di vista qualitativo. I suoi vecchi quadri, dotati di una maggiore educazione di classe, hanno trascorso quattro anni e mezzo al fronte e, staccatisi da ogni lavoro produttivo, si sono impregnati della psicologia delle trincee, dissolvendosi spiritualmente nell’ambiente socialmente amorfo degli elementi declassati. Tornati nelle file del proletariato, vi portano lo spirito rivoluzionario combattivo ma anche lo spirito del ribellismo soldatesco. Nel corso della guerra, il loro posto nella produzione fu preso da milioni di nuovi operai, ex artigiani andati in rovina e altri “poveracci”, proletari delle campagne e donne della classe operaia. Questi nuovi operai lavoravano in assenza di un movimento politico del proletariato e con un movimento sindacale ridotto a dimensioni pietose. Mentre le masse passate attraverso le trincee perdevano nel corso di lunghi anni la perizia professionale, l’abitudine a un lavoro produttivo regolare, e si esaurivano in senso fisico e psichico nelle condizioni disumane della guerra moderna, le masse che avevano preso il loro posto in fabbrica lavoravano oltre misura, cercando di guadagnare con ore straordinarie il necessario per sfamarsi, dato l’aumento esorbitante dei prezzi delle derrate. Questo sfibrante lavoro, volto in gran parte a produrre mezzi di distruzione, era improduttivo dal punto di vista sociale e non poteva contribuire a elaborare nelle masse lavoratrici quella coscienza dell’insostituibilità del loro lavoro per l’esistenza della società che costituisce un elemento essenziale nella moderna psicologia proletaria di classe4.
Asteniamoci dal farci sviare e irritare dall’evidente disprezzo per i nuovi strati proletari e per la loro componente femminile (gli stessi cui prestava tanta attenzione Rosa Luxemburg nel suo scritto sullo Sciopero generale5) e l’ottusa immedesimazione con la storia dei vincitori, cioè con la produzione per la produzione sdegnosamente affrancata persino dall’atmosfera consumistica della borghesia decadente, e seguiamo lo sviluppo dell’argomentazione. Nelle pagine successive, infatti, Martov approfondisce questo regresso in termini di “atavismo”, osservando a buon titolo (§ 4) che proprio il fallimento social-patriottico del 1914 (ricordiamo la sua coerente opposizione alla guerra) comportava il risorgere per contraccolpo di illusioni e parole d’ordine di stampo anarchico e bakuniniano, secondo una logica “spontanea” di polarizzazione complementare fra collaborazione di classe e comunismo primitivo. La prevalenza del comunismo di consumo sull’organizzazione della produzione (§ 5) è stigmatizzato come un “male gravissimo”, un passo indietro nella capacità del proletariato di dirigere la società. Il modello produttivistico è spinto alle estreme conseguenze, anche se paradossalmente il bolscevismo si sarebbe dimostrato più che capace di sviluppare un programma di produzione a oltranza: la polemica anti-bolscevica di Martov conduce direttamente alla mitologia staliniana! Il fatto che la responsabilità del “consumismo” di ultrasinistra e della decadenza della disciplina del lavoro venga imputato alla degenerazione imperialistica del capitalismo, con i suoi effetti di spreco e distruzione bellica, conferma l’internità della «barbarie scita» alla follia imperiale, come vendetta sterile degli oppressi ma indica anche la via d’uscita nel «ritorno all’ordine» che segneranno gli anni ‘30 anche in Urss.
Il fastidio per l’insorgenza degli indisciplinati strati inferiori del proletariato si estende con tono sgradevolmente razzista ai popoli extra-europei, una volta che il bolscevismo ha fatto saltare l’ordinato processo stadiale che avrebbe dovuto passare per la democratizzazione borghese delle borghesie arretrate e delle metropoli prima delle colonie:
In pratica, i popoli saltano tutti gli stadi, ossessionati dalla negazione metafisica di ogni categoria relativamente progressiva. «Sì-sì, no-no, e tutto il resto è dovuto al social-tradimento» decretano nomadi kirghizi, pastori brasiliani, fellah egiziani. Se i soviet sono la forma più perfetta di organizzazione statale, se rappresentano la chiave per l’eliminazione dell’ineguaglianza sociale e della miseria, chi si caricherà volontariamente del giogo di forme meno perfette per imparare nella tormentosa esperienza le loro contraddizioni? Dopo aver assaporato il dolce, chi vorrà assaggiare l’amaro?6
Le considerazioni dei successivi paragrafi di quel libro sono in sé interessanti ma rimandano a una già nota critica menscevica e socialdemocratica generale dell’Ottobre (carattere minoritario e giacobino della dittatura del proletariato in condizioni di frammentazione della classe, impossibilità di saltare uno stadio storico, critica retrospettiva agli entusiasmi comunardi di Marx, ecc.). Proviamo invece a insistere sulla rottura operata dalla I guerra mondiale sostituendo alla devastazione bellica quella operata dal neoliberalismo. In entrambi i casi, infatti, si è dissolto un equilibrio (economicistico) raggiunto dal proletariato e mutato il rapporto di forza fra un nuovo assetto borghese e i subalterni. Cambia la struttura del potere e cambiano le condizioni per una rivoluzione.
Un Martov oggi si scandalizzerebbe per il predominio della finanza sulla produzione industriale e denuncerebbe la ricaduta dei subalterni in un «atavismo ideologico»7 che farebbe retrocedere i rivoluzionari a modelli anarcoidi di collera di classe o alla sostituzione dell’avanguardia alle masse, tipo i sanculottes lionesi e parigini del 1794 e 1797. Denuncerebbe il populismo di oggi come allora denunciava il neo-blanquismo di Lenin. E beninteso sarebbe attaccato dai “nuovi barbari” come nel 1905 era accusato di astrattezza dai seguaci del pope Gapòn. Rischi dei parallelismi storici … Osserviamo di sfuggita che tutto quel blocco di riferimenti storici (dal giacobinismo al Termidoro, dal blanquismo alla Comune) oggi è diventato “citabile” senza che più ci sentiamo coinvolti in esso, come i rivoluzionari di allora senza distinzioni fra bolscevichi e menscevichi, staliniani e trotskisti. Un mondo che ci interessa e che convochiamo nella misura in cui non ne facciamo più parte e dunque possiamo anche studiare e deturnare alcune intuizioni di Martov senza badare al suo ruolo storico effettivo (perdente) e al complesso della sua argomentazione, in sostanza inaccettabile.
Sarebbe invece degno di riflessione cercare un equivalente del bolscevismo (non di Martov o del pope Gapòn) dopo la devastazione ordoliberista, con la stessa capacità di sfruttare le forze nuove sprigionate dalla distruzione del vecchio ordinamento ma tenendo conto che, fra le cose distrutte e irrecuperabili, c’è pure l’avanguardia esterna pedagogica di allora e poi il partito bolscevico e derivati. Già Martov si aggrappava al ruolo costruttivo e civilizzatore del proletariato produttivistico kautskiano, non tanto distante dall’uso che Lenin faceva della forma partito e che Stalin farà dell’industrializzazione. Illusioni necessarie in quella fase storica, ma oggi non più riproponibili.
L’elemento ricorrente e iterabile è piuttosto quello allora esorcizzato dai menscevichi: la capacità di saltare gli schemi stadiali e di afferrare con metodi eterodossi le occasioni somministrate dalla fortuna, di conseguire il machiavelliano “riscontro” fra caratteri imprevisti della congiuntura e forze al momento disponibili. Operazione non standard e ad alto coefficiente di rischio – lo si è visto proprio con gli esiti (almeno europei) dell’Ottobre, divergenti rispetto alle intenzioni. E tuttavia non liquidabili con una fiction contro-storica, in quanto hanno disegnato la scena delle contraddizioni su cui oggi dobbiamo intervenire. Per non parlare della liquidazione del colonialismo, che già dal 1920 appare come il principale risultato e compito epocale di quella rivoluzione.
A che altro potrebbe sollecitarci l’«esperienza delle cose moderne», una volta preso atto, senza nostalgia, della «lezione delle antique»?
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