L’ingresso dei soldati turchi e dei ribelli del Free Syrian Army nel centro dell’enclave curda di Afrin lo scorso 18 marzo ha segnato un punto di svolta nell’andamento del conflitto siriano. Dopo lo smacco di Raqqa dell’ottobre 2017, con le milizie arabo-curde delle SDF (Syrian Democratic Forces) in prima linea nella cacciata di ISIS dalla capitale del Califfato in Siria, con la presa di Afrin Ankara si riposiziona al centro dello scacchiere siriano.
Per turchi e ribelli siriani avere la meglio sui miliziani curdi dell’YPG (Unità di Protezione del Popolo) è stato meno complicato del previsto. Il centro di Afrin è infatti capitolato senza che i curdi opponessero una vera resistenza. In due mesi i combattimenti, scattati lo scorso 20 gennaio con il lancio dell’operazione militare turca “Ramoscello d’Ulivo”, hanno costretto 98mila persone a lasciare le proprie case. L’ultimo bollettino delle vittime stilato dall’Osservatorio siriano per i diritti umani – organizzazione con base a Londra notoriamente vicina al fronte anti-Assad – parla di 289 civili morti, di oltre 1.500 miliziani curdi uccisi e di 46 soldati turchi caduti.
Quale futuro per Afrin?
Per ora Erdogan si è limitato a dire che restituirà Afrin ai suoi «legittimi proprietari». In realtà il suo piano è di dirottare qui alcune migliaia dei 3,4 milioni di rifugiati siriani che al momento stanziano nel sud della Turchia. Ma non solo. Afrin, infatti, potrebbe essere usata come valvola di sfogo per assorbire i futuri sfollati dal governatorato di Idlib, dove si concentreranno gli attacchi dell’esercito siriano e dei caccia russi una volta che Assad avrà definitivamente ripreso il controllo della Ghouta orientale.
I prossimi obiettivi della Turchia
Dopo Afrin l’esercito turco continuerà ad avanzare verso il nord-est della Siria come annunciato dal presidente Recep Tayyip Erdogan. Gli obiettivi di Ankara sono principalmente tre. Il primo, di carattere militare, è “bonificare” il più possibile le aree del nord della Siria dalla presenza di milizie curde. Il piano è impedire ai curdi di unire sotto il loro controllo i territori controllati nel sud della Turchia dal PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) e quelli nel nord della Siria in mano all’YPG, gruppo accusato da Ankara di essere una formazione terroristica. Più territorio conquisterà la Turchia in quest’area, più grande sarà la “zona cuscinetto” che ambisce a creare oltre i suoi confini meridionali. In quest’ottica i punti da collegare sono Afrin (a nord-ovest), Idlib (più a sud, in mano ai ribelli siriani) e Manbij (a nord-est).
Il secondo obiettivo di Ankara è di carattere politico e consiste nel riposizionare la diplomazia turca al centro dei negoziati per la futura spartizione della Siria. La presa di Afrin e le operazioni che verranno adesso avviate per avanzare in direzione di Manbij, fanno della Turchia un interlocutore con cui gli altri attori in campo – Mosca, Damasco, Teheran ed Hezbollah da una parte, gli USA dall’altra – dovranno necessariamente scendere a patti. È un segnale di cui devono tenere conto soprattutto gli Stati Uniti, alleati della Turchia in ambito NATO ma per ora decisi a continuare a puntare sulle milizie arabo-curde delle SDF (al cui interno i combattenti dell’YPG rappresentano l’80% degli effettivi) per tenere gli scarponi ben saldi nella parte nord-orientale della Siria confinante con l’Iraq attorno a Raqqa.
I rischi per l’esercito turco
Al netto della presa di Afrin, il cammino per la Turchia in Siria rimane pieno di ostacoli, e la direzione che prenderà dipenderà molto dalle prossime mosse che faranno Russia e Stati Uniti, vale a dire le due principali forze extraregionali che controllano di fatto lo spazio aereo siriano.
Già nell’immediato per i contingenti turchi schierati nel nord della Siria i rischi non mancano. Prevenire possibili colpi di coda dei curdi ad Afrin, città in cui la popolazione locale è molto solidale con i “fratelli” turchi del PKK, non sarà semplice. Afrin è infatti disseminata di trappole esplosive e in questa settimana l’esplosione di più ordigni ha già ucciso sette civili, quattro miliziani dell’FSA e tre militari turchi. Altra deriva che si sta materializzando è quella delle razzie e delle rese dei conti. Nel giorno della conquista di Afrin, mentre si issavano le bandiere turche nel centro della città, ribelli siriani saccheggiavano negozi e presto potrebbero spingersi molto oltre.
Questo aspetto, vale a dire la capacità di tenere a freno l’anima islamica radicale sempre più predominante nel fronte siriano anti-Assad, è una questione tutta da decifrare per Ankara. Finora la Russia ha lasciato mano libera alla Turchia nel nord della Siria con la promessa del contenimento dei gruppi jihadisti. È un impegno che la Turchia non ha però rispettato, come dimostra la minaccia sempre viva in particolare dei qaedisti di Tahrir al-Sham. Se Erdogan non darà delle rassicurazioni in tal senso, Mosca dovrà interporsi alla sua avanzata.
Nell’insieme, questi elementi potrebbero essere più che sufficienti per trascinare l’impegno militare turco in Siria in un logorante stato di guerriglia, una sorta di estensione in territorio siriano dell’ultradecennale scontro in patria con il PKK.
L’incognita di Manbij
Nella road map tracciata da Erdogan per il dopo Afrin le prossime tappe sono Manbij, e da qui Kobane, Tal Abyad, Ras al-Ain e Kamishli. Manbij è la località da dove inizia l’ampia fascia di territorio ancora saldamente sotto il controllo delle milizie curde che operano affiancate da circa 2.000 soldati americani. Quello che accadrà in questa città rappresenta una sorta di momento della verità per la complicata alleanza che tiene uniti Turchia e Stati Uniti. Washington e Ankara potrebbero arrivare a un accordo se l’YPG accetterà di ritirarsi a est del fiume Eufrate. Ma per i curdi significherebbe perdere Manbij. E dopo Afrin cadrebbe un altro tassello del sogno del Rojava, uno Stato autonomo curdo nel nord della Siria che appare destinato a non vedere mai la luce.
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