NEOLIBERISMO CON CARATTERISTICHE CINESI
di I Diavoli
A dieci anni dalla crisi economica del 2008, passaggio ultimo del fragoroso crollo della dottrina neoliberista, constatiamo che la teoria economica entusiasticamente adottata da Reagan e Thatcher negli anni Ottanta, divenuta lo «standard» delle democrazie vicine al blocco occidentale, si mostra oggi nuda e fallimentare davanti al rigurgito di protezionismi e localismi diffusi su scala globale; sulle sue macerie si costruiranno modelli inediti in grado di scongiurare gli errori del passato, con l’obiettivo di raddrizzare le storture di un libero mercato lasciato disastrosamente senza freni.
Eppure l’occidente è naufrago, scrivevamo qualche giorno fa recensendo l’ultimo saggio del professor Vittorio Emanuele Parsi pubblicato da Il Mulino, e latita nella formulazione di nuovi modelli che possano aggiornare – o sostituire – una professione di fede rivelatasi mal riposta: la «mano invisibile» di Adam Smith – o meglio, l’interpretazione à la deus ex machina del concetto espresso da Adam Smith, molto in voga tra gli ultras del neoliberismo – mentre tutto andava a rotoli si è mostrata più evanescente che invisibile. O, come avvertiva Stiglitz all’inizio del millennio: «La mano invisibile di Adam Smith – l’idea che il libero mercato porti all’efficienza come guidato da una forza invisibile – è invisibile perché, almeno in parte, proprio non c’è».
In Asia, per contro, sta sempre più prendendo forma un modello di governance in grado di superare le (false) promesse benefiche collaterali degli alfieri del libero mercato.
Invitata dallo stesso Clinton ad entrare nella World Trade Organization nel 2001, la Repubblica popolare cinese ha saputo raccogliere i frutti abbondanti del libero mercato altrui schivando, senza troppa fatica, qualsiasi tentativo di contaminazione democratica. Anzi, secondo Friedman e Kao, direttamente ribaltando la previsione di Fukuyama sulla «fine della Storia»: se secondo il politologo statunitense la diffusione del modello di governance rappresentato dalle democrazie liberali occidentali era destinato a segnare l’apice dell’umanità declinata all’evoluzione socioculturale, l’esempio cinese sotto ai nostri occhi indica un epilogo della Storia quantomeno da rimandare a data da destinarsi.
Si tratta di una scelta di campo spregiudicata, capace di portare il Paese lontano dal solco tracciato dai maestri del liberismo occidentale: dove la teoria indicava una resa incondizionata delle istituzioni in favore di una deregolamentazione salvifica del mercato, senza incrinare la tenuta autoritaria del proprio assetto repubblicano la Cina ha sì intrapreso il sentiero delle riforme di apertura economica, ma subordinandole all’eminenza grigia del Partito.
L’economista Dori Rodrik, in una lunga requisitoria per «liberare l’economia dal neoliberismo», pubblicata l’anno scorso dalla Boston Review, offre un elenco dettagliato delle misure di stampo liberista adottate dalla Cina degli anni Ottanta con un approccio «non-ortodosso» rispetto alla dottrina del libero mercato a tutti i costi in voga all’epoca: «Al posto di transitare direttamente dalla proprietà statale alla proprietà privata, ad esempio, che sarebbe stata ostacolata dalla debolezza delle strutture legali prevalenti al tempo, il Paese si affidò a una forma di proprietà mista che garantiva diritti di proprietà più efficaci per l’imprenditoria. Le Township and Village Enterprises (TVEs), che guidarono la crescita economica cinese durante gli anni Ottanta, erano consorzi controllati e di proprietà dei governi locali. Anche se di fatto sotto l’amministrazione pubblica, gli imprenditori ricevevano la protezione dalle espropriazioni di cui avevano bisogno. I governi locali avevano una percentuale diretta dei profitti delle aziende e quindi non avevano alcun interesse a sopprimere la gallina dalle uova d’oro».
L’intellettuale indiano Pankaj Mishra, in un denso long form sulla crescita cinese e la fine del mito del libero mercato pubblicato sul New York Times Magazine, riporta a questo proposito un episodio emblematico. È il 1980 e Milton Friedman, premio Nobel per l’Economia e figura di spicco della «Scuola di Chicago», viene invitato per un tour accademico nella Cina di Deng Xiaoping, in procinto di superare l’ultima fase catastrofica del maoismo guardando a prospettive di crescita e sviluppo promesse dalle riforme di apertura economica. Scrive Mishra: «I cinesi non poterono non irrigidirsi di fronte alla brusca liquidazione del loro governo fatta da Friedman. Nonostante disastri orribili, lo Stato cinese aveva drasticamente aumentato l’aspettativa di vita l’alfabetizzazione del proprio popolo. Inoltre, i cinesi cercavano una terza via: guardavano al Giappone e a Singapore, più che agli Stati Uniti, in cerca di modelli che potessero accelerare la crescita senza mettere in pericolo l’autorità del Partito Comunista. I cinesi vedevano poca utilità nel “laissez faire” predicato dall’americano. Friedman lasciò la Cina, sostenendo arrabbiato che chi lo aveva accolto era “incredibilmente ignorante circa il funzionamento del mercato e del sistema capitalista”».
Friedman, continua Mishra, muore nel 2006, due anni prima della crisi che avrebbe fatto terra bruciata dell’intera costellazione del libero mercato lasciando praticamente intatta la sola economia cinese.
Se è vero che il neoliberismo moribondo è stato definitivamente annichilito dall’ascesa egemonica cinese, è altrettanto vero che il cosiddetto «neo pragmatismo» cinese rappresenta un’alternativa difficilmente appetibile per chi si è opposto «da sinistra» alle conseguenze nefaste di un libero mercato senza controllo.
Tra un ritorno al protezionismo ultranazionalista e il primato di un mercato regolato a discapito dei diritti democratici, la sfida del domani sarà immaginare e formulare un’ennesima, necessaria, terza via.
Fonte: http://www.idiavoli.com/focus/neoliberismo-caratteristiche-cinesi/
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