I moti del ’98 fra rivolta del proletariato e colpo di stato della borghesia
di SINISTRA IN RETE (Eros Barone)
“A questo mondo si rassegna solo chi non ha bisogno di fare altrimenti. La rassegnazione è la filosofia di chi non è obbligato a lavorare sempre col dubbio di perdere il lavoro, a lottare sempre col dubbio di rimanere sconfitto nella lotta, a dormire sempre col dubbio di svegliarsi e di trovarsi affamati. La rassegnazione è la filosofia dei soddisfatti. La ricchezza fra gli altri vantaggi che procura, procura anche quello della rassegnazione. Io credo che se Lei da bambino avesse sofferta la fame e l’avesse sofferta in compagnia dei Suoi fratelli e della Sua mamma, se Lei dovesse vivere sempre nell’incertezza del domani, se Lei dovesse vedere davanti a sé sempre la minaccia di vedere i Suoi figli soffrire la fame, come Lei la soffrì quando era bambino, io credo che la filosofia della rassegnazione non sarebbe fatta per Lei….”.
Lettera di Gaetano Salvemini all’amico Carlo Placci del 15 giugno 1898.
- Le premesse
“Oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese.” (Marx-Engels, Manifesto del partito comunista)
Il ’98 rappresenta, non solo a Milano ma in tutta Italia, il culmine di una crisi sociale e politica che per profondità, durata ed estensione ha indotto gli storici a qualificare tale periodo, riferendosi ai conflitti di classe e alle repressioni statuali degli anni ’90, attuate con il continuo ricorso allo “stato di assedio” e quindi all’intervento militare, come ‘decennio di sangue’. Quei conflitti avevano trovato la loro espressione, durante il biennio 1893-1894, nel movimento popolare dei Fasci siciliani, che alla protesta contro il fiscalismo e il dominio del latifondo univa la rivendicazione di terre da coltivare, e nel tentativo insurrezionale anarchico in Lunigiana.
Mentre il governo Crispi, che aveva affrontato quel ciclo di lotte popolari con la politica del pugno di ferro operando con tutti gli strumenti legislativi ed istituzionali a sua disposizione in difesa dello ‘Stato forte’ e degli interessi del blocco industriale-agrario, che erano il nucleo duro di tale Stato, dava le dimissioni all’indomani della sconfitta di Adua (1896) e passava la mano ai governi Rudinì e Pelloux, che avrebbero seguito sostanzialmente la stessa linea sino alla ‘crisi di fine secolo’ (1898-1900), Sonnino elaborava, con il consenso della Corte, dell’esercito e delle frazioni più conservatrici di quel blocco, un organico progetto reazionario, basato sulla prevalenza del potere esecutivo e dell’autorità regia e sullo svuotamento delle istituzioni parlamentari, progetto che all’inizio del ’97 fu esposto nel famoso articolo Torniamo allo Statuto della «Nuova Antologia».
Come suole accadere nelle fasi di transizione da un ciclo economico recessivo ad un ciclo economico espansivo, anche la fase che seguì la fine della ‘grande depressione’ del capitalismo liberoscambista (1873-1895) e la trasformazione di quest’ultimo in senso monopolistico, inaugurando l’epoca dell’imperialismo e dei suoi robusti rampolli (protezionismo, colonialismo, militarismo e sciovinismo), fu segnata dalla esplosione di guerre fra gli Stati e conflitti fra le classi. Nel caso italiano, il decollo industriale si intreccerà con la crisi agraria e le alte tariffe doganali si sommeranno alle crescenti spese militari, determinando un aggravamento delle condizioni di vita e di lavoro delle classi popolari e provocando una vasta opposizione antigovernativa che coinvolgerà anche settori della borghesia imprenditoriale del nord, danneggiata dalla politica economica protezionista del governo centrale nelle sua ricerca di sbocchi sui mercati esteri.
Decisivo, tanto rispetto al ciclo economico quanto rispetto agli equilibri del blocco di potere, diviene il ruolo dello Stato quale organo attraverso cui si opera il trasferimento di quote crescenti di ricchezza dalle classi popolari alla classe dominante. In questo senso la sinistra al governo, se da un lato ha formalmente abolito la tassa sul macinato, scarica dall’altro sulle classi popolari, con la restrizione dei consumi, con il protezionismo e con una maggiore pressione delle imposte indirette, sia la difesa della rendita fondiaria sia il costo della nascente industrializzazione.
La gravità della situazione socio-economica dell’Italia alla fine del secolo scorso – un paese in cui, di fronte a 9 milioni di contadini, la principale attività industriale, quella tessile, raggruppa meno di 300.000 operai – trova puntuale riscontro nei seguenti dati, che mostrano, fra l’altro, che l’agricoltura, oltre a non nutrire adeguatamente gli stessi contadini, dipende in modo sempre più gravoso dall’approvvigionamento estero. Fra il 1891 e il 1898 la produzione agricola è rimasta costante, ma la popolazione è aumentata di oltre tre milioni e mezzo; da tale divario sono risultati tanto la diminuzione della produzione agricola in tutti i settori con la prevalenza delle importazioni, specialmente di grano, rispetto alle esportazioni, quanto il mancato rinnovamento delle colture e dei metodi di coltivazione: tutto ciò va posto in relazione con la svolta protezionistica attuata mediante l’introduzione della tariffa doganale dell’87 (la più alta d’Europa), che ha di fatto neutralizzato la discesa dei prezzi, mantenendo artificialmente alta la rendita agraria.
La difesa della rendita (attraverso il dazio sul grano), la diminuzione dei raccolti che contrasta con i crescenti bisogni alimentari delle masse e, conseguentemente, le sempre maggiori importazioni si sono rivelate assai vantaggiose per il bilancio statale, grazie alla incidenza del fisco su un bene di largo consumo quale è il pane. In dieci anni (1887-1897) il dazio ha fruttato ai proprietari terrieri circa un miliardo e mezzo e al fisco non meno di 365 milioni, prelevati dalle tasche dei consumatori. Nitti osserverà amaramente, riferendosi al rapporto tra il dazio sul grano e le malattie causate dalla scarsa e cattiva alimentazione: «Il popolo paga di più anche per continuare a morire di pellagra». Relativamente alle spese militari, Arturo Labriola ha calcolato che, nel decennio 1884-1893, l’Italia aumenta tali spese di 1.413 milioni rispetto al periodo 1874-1883: questo aumento è stato coperto per 1.047 milioni dalle imposte sui consumi popolari (dazio compreso) e per 366 milioni con il maggior gettito sulla ricchezza mobile, dovuto a un incremento di reddito e non a inasprimenti fiscali. Gli agrari e gli industriali non vi avrebbero assolutamente contribuito. Non è difficile determinare gli effetti di tale fiscalismo sul tenore di vita delle masse: è sufficiente considerare che nel 1898 il consumo medio annuo di grano per abitante è sceso dai 123 Kg nel 1884-1885 a una media di 106 nel triennio 1896-1898 e la disponibilità di pane pro capite è passata dai 330 g del 1884 ai 277 del 1897, contro, ad es., i 553 g dei francesi (parimenti, il reddito medio annuo italiano nel ’98 è di 223 £, contro 573 £ in Francia e 802 £ in Gran Bretagna, mentre il deficit alimentare è superato soltanto da quello spagnolo e russo e con una media nazionale di 60 analfabeti su 100 abitanti l’Italia si colloca, nel campo dell’analfabetismo, al secondo posto tra i paesi europei).
Le tragiche condizioni di esistenza delle masse nell’ultimo decennio del secolo emergono, inoltre, dall’aumento delle vendite giudiziarie di beni immobili sequestrati a contribuenti morosi con debiti inferiori a 5 £, dal 43 % di riformati e di rivedibili tra i giovani di leva nel 1893 per gli effetti della denutrizione, dall’emigrazione più che raddoppiata nel solo 1896, dall’aumento della criminalità nelle campagne durante gli stessi anni del decollo industriale. I prezzi del grano salgono rapidamente, passando dalle 23 £ al quintale del 1897 alle 31 £ dell’inizio del 1898.
Il caropane, causato da un cattivo raccolto che, date tali condizioni, si muta in una vera e propria carestia; connesso alle guerre doganali fra gli Stati nel campo dell’esportazione dei prodotti alimentari; inasprito dalla guerra ispano-americana per Cuba con l’aumento dei noli marittimi che si ripercuote sui costi di trasporto del grano importato e reso intollerabile, oltre che dall’incidenza del fisco che rappresenta quasi il 43 % del prezzo totale di 1 q di pane, dalla speculazione, farà divampare le sommosse che, in un crescendo irresistibile e lungo una direttrice che dal sud si svolge verso il nord, si trasformeranno in una rivolta generale, interpretata dal blocco dominante, in parte per convenienza in parte per convinzione, come il prodotto di un organico piano insurrezionale (che non esisteva) e, quindi, come il pretesto per un organico piano reazionario (che esisteva).
- Le ‘quattro giornate’ di Milano
“La borghesia… ha creato città enormi, ha grandemente accresciuto la popolazione urbana in confronto con quella rurale.”(Marx-Engels, Manifesto del partito comunista)
Da Bari a Foggia, dalla Puglia, dove sarà inviato il generale Pelloux, alla Sicilia e a Napoli, il 1° maggio 1898 vede la popolazione meridionale passare dalla sollevazione alla rivolta. A partire dal 2 maggio la rivolta si estende alla Romagna, alle Marche, all’Emilia, alla Toscana e alle regioni industriali del nord, in cui la classe operaia, caratterizzata da una maggiore coscienza politica, svolgerà il ruolo trainante.
Quivi le masse lavoratrici, sulle quali l’esperienza delle Camere del Lavoro (quella di Milano era nata nel 1891) e la propaganda anarchica e socialista (il partito socialista si era costituito a Genova nel 1892) non erano passate senza lasciare il segno, introducono nella rivolta un contenuto politico, indirizzandola verso gli obiettivi della repubblica e del socialismo. Proprio a Milano, dove non si era ancora spenta l’eco della commemorazione alternativa del cinquantenario delle “cinque giornate” e dei funerali dell’esponente radicale Filippo Cavallotti, morto in un duello con un deputato di destra, esplode il 6 maggio l’insurrezione, preannunciata il giorno prima dal grave episodio di Pavia in cui, a seguito degli scontri tra le forze dell’ordine e i lavoratori, era stato ucciso lo studente universitario Muzio Mussi, figlio del vicepresidente radicale della Camera.
A Milano, la ‘capitale morale’ d’Italia, la città dove si è compiuto il passaggio dalla manifattura all’industria, il centro dove si erano già verificate nel corso dell’800 due insurrezioni (quella del 1848 e quella del 1853, definita sprezzantemente dalla borghesia milanese, a causa della sua spiccata componente proletaria, la ‘rivoluzione dei barabba’), un vasto fronte che comprende, oltre al popolo, anche quei gruppi borghesi di tendenza liberista che vedono nel protezionismo una camicia di Nesso per i loro interessi di esportatori, scende in lotta non solo per il pane ma contro un governo autoritario, colonialista, militarista e fiscalmente oppressivo.
Venerdì 6 maggio: la classe operaia dà il segnale della rivolta
“È così che gli operai incominciano a formare coalizioni contro i borghesi, riunendosi per difendere il loro salario… Qua e là la lotta diventa sommossa.” (Marx-Engels, Manifesto del partito comunista)
Anche a Milano la scintilla che dà fuoco alle polveri della rivolta è l’aumento del prezzo del pane che sale da £ 23 a £ 34. Il 6 maggio, durante l’ora di pausa per la colazione, alcuni militanti diffondono fra gli operai della Pirelli un manifestino del partito socialista che, pur denunciando i privilegi, la guerra e il governo responsabile della carestia, esprime quella posizione attendista e legalitaria cui anche in seguito si atterrà il gruppo dirigente raccolto attorno a Turati. È proprio quest’ultimo a consigliare di « non fare dimostrazioni » alle migliaia di operai affluiti nella zona dopo l’arresto di uno dei diffusori, Angelo Amodio detto “ il pompierin ”. Una parte degli operai dà ascolto al dirigente socialista, ma molti altri si incamminano verso il centro e si scontrano con la truppa schierata lungo la strada. Alle sassate dei dimostranti i soldati rispondono sparando a zero. Il cadavere di Silvestro Savoldi, uno dei 5 operai rimasti uccisi in seguito alla sparatoria, viene sistemato su un tram e trasportato in corteo fino a piazza del Duomo, dove si avranno altri scontri.
Comincia così a manifestarsi la ‘grande paura’ della borghesia verso la Milano operaia, che con le sue industrie moderne (Stigler, Erba, Bocconi, Grondona, Manifattura Tabacchi ecc.) e con i suoi 37.000 lavoratori rappresenta una forza compattamente antigovernativa. Per soffocare la rivolta, che il blocco dominante interpreta, in parte per convinzione in parte per convenienza, come il prodotto di un organico piano insurrezionale (che non esisteva) e, quindi, come il pretesto per un organico piano reazionario (che esisteva), il governo proclama lo stato di assedio e mobilita 20.000 soldati dell’esercito, posti, assieme alle squadre di poliziotti e carabinieri, sotto il comando del generale Fiorenzo Bava Beccaris, che installerà il quartier generale delle operazioni repressive in una tenda in piazza del Duomo.
Sabato 7 maggio: una insurrezione senza capi e senza armi
“Le vostre concezioni borghesi della libertà, della cultura, del diritto, ecc…. sono anch’esse un prodotto dei rapporti borghesi di produzione e di proprietà, così come il vostro diritto non è che la volontà della vostra classe innalzata a legge.” (Marx-Engels, Manifesto del partito comunista)
La mattina di sabato gli operai trovano chiusi i cancelli delle fabbriche. La serrata è stata imposta dalle autorità militari su ordine della prefettura e delle autorità civili. È ormai scattato il piano reazionario del blocco dominante che, imponendo la chiusura delle fabbriche e utilizzando la paura degli industriali, si pone lo scopo di spingere i lavoratori nelle strade a dimostrare, in modo da creare il pretesto per una repressione draconiana. Alcune migliaia di operai formano allora un corteo per protestare contro l’eccidio della sera prima e si dirigono da via Moscova verso corso di Porta Nuova, dove si scontrano con la cavalleria. Un altro corteo, composto anch’esso da migliaia di operai, arriva in corso Venezia alle 10,30 del mattino. La cavalleria carica i dimostranti che, per difendersi, erigono con i tram, tolti dalle rotaie e rovesciati, le prime barricate. Dall’alto dei palazzi piovono sui soldati tegole e mobili. La truppa e la cavalleria, sparando e caricando, assalgono le barricate. I militari dànno, inoltre, la caccia ai ragazzi sui tetti dei palazzi.
Scattano intanto gli arresti in massa dei dimostranti e degli stessi dirigenti socialisti. Alle 14 si verifica il massacro. I lavoratori, che sono stati respinti da piazza del Duomo, si concentrano in via Torino, dove l’esercito spara a zero, facendo venti morti e decine di feriti. Altri scontri avvengono al Carrobbio, in corso di Porta Ticinese, a Porta Garibaldi e al corso di Porta Vittoria. Vi sono posti di blocco in via Torino, a Porta Venezia, in Piazza del Duomo e in altri punti della città. È tutto un susseguirsi di scontri accaniti, di barricate erette, difese e poi espugnate, di lanci di tegole e sassi, da una parte, e di sparatorie, cariche di cavalleria e colpi di cannone, dall’altra.
Nel frattempo, i dirigenti politici delle opposizioni di sinistra si riuniscono clandestinamente per definire un piano di azione. Descrivendo l’atteggiamento di quei dirigenti, Paolo Valera, il cronista proletario delle “terribili giornate del maggio ’98”, enuncia con chiarezza il dilemma: « Non c’era alternativa: o mettersi alla testa della rivolta, se fosse una rivolta, o tacere e lasciare che gli avvenimenti si svolgessero da sé ».
Domenica 8 maggio: la “domenica di sangue”
“La borghesia è di continuo in lotta: dapprima contro l’aristocrazia, poi contro quelle parti della borghesia stessa i cui interessi sono in contrasto col progresso dell’industria; sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri.” (Marx-Engels, Manifesto del partito comunista)
Anche in questa giornata le fabbriche restano chiuse (a quel tempo non esisteva il riposo festivo, che sarà istituito solo nel 1907). Le sedi della stampa legata alle organizzazioni operaie e ai cattolici intransigenti, come «L’Italia del popolo», «Il Secolo», «La Lotta di Classe» e «L’Osservatore Cattolico» sono state perquisite il giorno prima e i redattori arrestati; perciò, la mattina di domenica i quotidiani non escono, tranne il «Corriere della Sera», «La Perseveranza» e la «Lega Lombarda», organo dei cattolici moderati. Proprio in questa giornata la repressione diventa, se possibile, ancora più cruenta.
A Porta Ticinese e a Porta Garibaldi i cannoni sparano a mitraglia sulla gente. Si tratta di interventi senza alcuna giustificazione militare, che utilizzano la ‘strategia della tensione e del terrore’ per innestare sulla psicosi del piano insurrezionale attribuito ai repubblicani e ai socialisti il piano reazionario, preparato di lunga mano dal blocco dominante (borghesia, corte, esercito), che mira ad attuare il colpo di Stato.
Basti pensare che il deputato repubblicano De Andreis, ingegnere elettrotecnico della Edison, arrestato durante la perquisizione dell’«Italia del popolo», verrà accusato di complotto contro lo Stato perché aveva in tasca una pianta della città. Un semplice schema dell’impianto elettrico milanese, sul quale comparivano, in corrispondenza delle fognature e delle bocche di presa dell’acqua, le lettere F e B, fu fatto passare dai giornali governativi per un piano insurrezionale in cui quelle lettere simboleggiavano, rispettivamente, “fuoco” e “bombe”. Torelli Viollier, direttore del «Corriere della Sera» e portavoce dei settori della borghesia imprenditoriale del nord che si opponevano alla politica del governo, riassume il senso vero di tale politica con queste parole, che gli costeranno il licenziamento: « Siamo dunque in pieno colpo di Stato fatto a beneficio della borghesia contro il popolo, ossia di una classe contro un’altra, dell’oppressore contro l’oppresso ».
Il cannone tuona per tutta la giornata, gli attacchi alle barricate sono incessanti. Mentre si fa notte e ai 20.000 soldati già impegnati nella repressione si aggiungono i rinforzi richiamati da altre località, Di Rudinì invia al generale Bava Beccaris questo telegramma: « Dalla quiete di Milano da Lei così prontamente ristabilita dipende la quiete di tutto il Regno ».
Lunedì 9 maggio: la ‘Porta Pia’ milanese di Bava Beccaris
Tratteggiando le fasi più generali dello sviluppo del proletariato, abbiamo seguito la guerra civile più o meno occulta entro la società attuale.” (Marx-Engels, Manifesto del partito comunista)
La mattina del 9 maggio “l’ordine regna a Milano”. In una Milano, le cui strade e le cui piazze sono bagnate dal sangue dei popolani (tra la forza pubblica si contano solo due morti: un poliziotto colpito per errore dal fuoco dei commilitoni e un soldato fatto fucilare per disobbedienza). Il governo ha imposto la riapertura delle fabbriche, ma il generale Bava non ritiene che sia ancora il momento di autorizzare la ripresa del lavoro. Mentre i lavoratori trovano i cancelli della fabbriche chiusi, ci sono ancora sporadici conflitti con i soldati.
Tuttavia, il ‘clou’ della giornata è il cannoneggiamento del convento dei cappuccini di Porta Monforte, cui assiste lo stesso generale Bava, convinto di trovare all’interno dell’edificio sia i cinquecento studenti di Pavia, Padova, Torino e altre università, sia le bande organizzate di saccheggiatori provenienti dalle vicine campagne, sul cui arrivo a Milano avevano favoleggiato i giornali. Con quelle bande immaginarie i soldati, durante la mattinata, fra Porta Ticinese e Porta Vittoria, hanno sostenuto per ben quattro ore, senza scorgere un solo nemico, un furibondo conflitto a fuoco. Aperta nel muro di cinta del convento una breccia più larga di quella di Porta Pia, i difensori delle istituzioni si trovano davanti (e li arrestano) soltanto ventotto frati e una quarantina di mendicanti in attesa della ciotola di minestra.
Alla repressione militare segue la repressione giudiziaria. Se soldati e poliziotti hanno causato, secondo le cifre ufficiali, palesemente sottostimate, 80 morti e 450 feriti fra la popolazione (ma un calcolo reale indica 400 morti e un migliaio di feriti), i giudici in spada e speroni nella sola Milano infliggono agli 828 imputati, nei 129 processi che vengono celebrati, oltre 14 secoli di galera, condannando 688 di tali imputati, un terzo dei quali è rappresentato da minorenni. La repressione colpisce, assieme a centinaia di lavoratori, esponenti socialisti, anarchici, repubblicani e cattolici intransigenti come don Albertario. Un mese dopo il ‘re buono’, Umberto I, premierà il generale Bava Beccaris con la Gran Croce dell’Ordine militare di Savoia per il servizio reso « alle istituzioni e alla civiltà ».
- Stato, classi e forze politiche nella transizione dalla crisi di fine secolo all’età giolittiana
“Il potere politico dello Stato moderno non è che un comitato, il quale amministra gli affari comuni di tutta quanta la classe borghese.” (Marx-Engels, Manifesto del partito comunista)
Dopo la sconfitta parlamentare della politica reazionaria che il governo Pelloux, succeduto a quello di Rudinì, ha cercato di attuare mediante le ‘leggi eccezionali’ del 1899, la classe dirigente rinuncia al tentativo, fino ad allora tenacemente perseguito, di realizzare un colpo di Stato e, costretta dai rapporti di forza obiettivi, adotta una politica diversa. Preceduto da un governo di transizione quale era il governo Saracco (durante il quale si ebbe il massiccio sciopero generale del porto di Genova), si forma così il governo della sinistra liberale di Zanardelli, che costituisce il prologo dell’età giolittiana: il 15 giugno 1901 il gruppo socialista vota alla Camera la sua fiducia a tale governo.
Ma il suggello alla crisi di fine secolo viene posto da Gaetano Bresci, un operaio di Prato, anarchico internazionalista emigrato negli Stati Uniti, che rientra in Italia con il proposito di vendicare i morti del ’93-’94 e del ’98 e uccide a Monza il re Umberto I. Turati, pur vivamente pregato dal Bresci, rifiuta di assumerne la difesa (non solo per il timore di una speculazione sul nesso tra socialismo e anarchismo, tanto caro ai conservatori, ma anche e soprattutto) per l’orientamento collaborazionista che egli ricaverà dalla drammatica esperienza della crisi di fine secolo e che si tradurrà nel sostegno al governo Zanardelli. Il processo si svolge dinanzi alla corte di assise di Milano il 29 agosto, esattamente un mese dopo il regicidio: al termine di un dibattito pro forma durato poche ore giunge la condanna all’ergastolo e Bresci è tradotto a S. Stefano. Non è trascorso ancora un anno quando, il 22 maggio 1901, Bresci, secondo il comunicato ufficiale, si impicca con un asciugamano alle sbarre della finestra della propria cella: il tutto sarebbe accaduto in meno di tre minuti, durante una distrazione della guardia carceraria che ha l’obbligo tassativo di sorvegliarlo “a vista”, nonostante che il piede di Bresci sia incatenato ad una palla di ferro. In realtà, per ordini ricevuti dall’alto, tre guardie gli hanno fatto il “Santantonio”, cioè gli hanno buttato addosso coperte e lenzuolo e poi l’hanno ammazzato di bastonate. I resti verranno fatti sparire da due ergastolani inviati appositamente da un altro carcere e tenuti all’oscuro del nome del morto. Poco dopo il direttore del carcere è promosso e le tre guardie sono premiate. Un altro ‘suicidato’ entra così nella lunga storia delle ‘istituzioni totali’ italiane. Come si è ricordato poc’anzi, il presidente del consiglio dei ministri è Giovanni Zanardelli, il ministro dell’interno Giovanni Giolitti.
I moti del ’98 si erano inseriti in una situazione politicamente fluida, che vedeva la borghesia impegnata nella ricerca di una unificazione fra le sue diverse frazioni. Se tale ricerca assunse un carattere violentemente antipopolare e repressivo, ciò dipese, per un verso, da una crisi organica di egemonia della classe dirigente liberale (resa più acuta dal divario crescente tra un ciclo economico espansivo e un ceto politico chiuso e privo di ricambio) e, per un altro verso, dall’intreccio fra un organico piano reazionario e quella ‘linea nera’ che più di una volta dopo l’Unità, nei momenti di maggiore tensione, è emersa sotto la difesa dei rapporti di classe della società italiana.
Per quanto riguarda le classi popolari, i moti del ’98, benché, come si è visto, fossero stati un’insurrezione senza capi e senza armi, posero tuttavia in luce alcuni dei tratti che contraddistinguono le grandi insurrezioni proletarie della storia moderna: l’egemonia della classe operaia; l’autonomia, giacché la classe operaia osò infrangere la propria normale subordinazione alla dinamica economica, sociale e politica del sistema capitalistico (« L’è vegnuda l’ora che nun lavorem pû, ve toccarà a vialter adess a sgobbaa », grida un operaio all’industriale C. Grondona); la generalizzazione ad altri strati sociali subalterni e ad altri territori; la radicalità delle forme di lotta. Una esplosione di conflittualità di tale portata non poteva non produrre, proprio per la presenza di quei tratti, un effetto durevole di spavento sugli “animal spirits” del blocco dominante.
Per quanto riguarda le forze politiche di opposizione, il ’98 ha un valore di spartiacque storico rispetto agli orientamenti e all’azione dei due ‘nemici’ dello Stato liberale, i ‘rossi’ e i ‘neri’. Infatti, dopo il ’98 sia il partito socialista che le organizzazioni di massa controllate dall’Opera dei Congressi faranno le loro scelte, ripudiando la passata intransigenza e avvicinandosi allo Stato liberale.
In particolare, già nel corso dei moti di Milano il gruppo dirigente socialista raccolto attorno a Turati aveva cercato di fermare l’insurrezione o vi si era opposto (basti ricordare, fra l’altro, l’intervento diretto a bloccare quei fuorusciti politici italiani che vivevano in Svizzera e che, non appena appresero la notizia della rivolta di Milano, si mobilitarono per rientrare in Italia), manifestando quell’atteggiamento, ad un tempo legalitario e rinunciatario, ben individuato in una lettera che Salvemini inviò al Placci il 27 maggio del 1898:
« …nel Natale passato, parlando a Milano col Turati, gli dicevo che in primavera il prezzo del pane avrebbe prodotto gravi tumulti e che noi avremmo dovuto prepararci per intervenire in essi e trasformarli in rivoluzione, ma Turati mi mise in burletta dicendo… che non c’era da pensarci neppure lontanamente alla possibilità di uno scoppio. La sera del 1° maggio, quando lessi sui giornali le prime notizie dei moti di Molfetta e di Piacenza, scrissi al Turati… perché il Partito si ponesse a capo dell’agitazione… Ma Turati il 4 maggio, alla vigilia dei tumulti di Milano, mi rispondeva… che a Milano nessuno pensava neanche alla possibilità di una rivolta; che quelli erano moti isitintivi della plebe affamata, a cui Milano non si sarebbe associata, perché Milano si muove solo per un concetto e non per un istinto… La massa che aveva quell’istinto rivoluzionario, che mancava a noi, sentì che il momento buono era venuto e si precipitò nella lotta. E il nostro partito, invece di precipitarsi anch’esso nella lotta e di dirigerla ad uno scopo, pretese di fermarla… e, quando non poté fermarla, si astenne ».
Il giudizio di Gramsci sul nesso dialettico di continuità/discontinuità tra il ‘decennio di sangue’ e l’età giolittiana può essere assunto come conclusione per il suo valore paradigmatico:
« L’insurrezione dei contadini siciliani del ’94 e l’insurrezione di Milano del ’98 furono l’experimentum crucis della borghesia italiana. Dopo il decennio sanguinoso ’90-’900 la borghesia dovette rinunciare a una dittatura troppo esclusiva, troppo violenta, troppo diretta: insorgevano contro di lei simultaneamente, anche se non coordinatamente, i contadini meridionali e gli operai settentrionali. Nel nuovo secolo la classe dominante inaugurò una nuova politica di alleanze di classe, di blocchi politici di classe, cioè di democrazia borghese… un blocco industriale capitalistico operaio, senza suffragio universale, per il protezionismo doganale, per il mantenimento dell’accentramento statale (espressione del dominio borghese sui contadini specialmente nel Mezzogiorno e nelle isole), per una politica riformista dei salari e delle libertà sindacali. Giolitti impersonò il dominio borghese; il partito socialista divenne lo strumento della politica giolittiana ».
Indicazioni bibliografiche
A. Canavero – G. Ginex, Il ’98 a Milano, Fondazione Cariplo, Milano 1988
G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. VII, Feltrinelli, Milano 1974
F. Catalano, Vita politica e questioni sociali, in Storia di Milano, vol. XV, Treccani, Milano 1961
N. Colajanni, L’Italia nel 1898. Tumulti e reazione, Universale Economica, Milano 1951.
R. Colapietra, Il Novantotto, Edizioni Avanti!, Milano-Roma 1959
R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione, vol. 1, Edizioni Oriente, Milano 1970
A. Gramsci, La costruzione del partito comunista – 1923-1926, Einaudi, Torino 1971
U. Levra, Il colpo di Stato della borghesia, Feltrinelli, Milano 1975
P. Valera, Le terribili giornate del maggio ’98, De Donato, Bari 1973
Fonte: https://www.sinistrainrete.info/storia/12310-eros-barone-i-moti-del-98.html
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