Il sogno antico di Babeuf
di SALVATORE PAOLO GARUFI (FSI Catania)
I
Giugno del 1797. Due giovani si trovavano impegnati nello studio per gli imminenti esami in una casa di campagna di Bronte, in contrada Colla, poco a sud del paese.
Aspettavano il loro professore, padre Nunzio Ganci, che doveva chiarire alcuni passi che avevano a che fare col veltro e col feltro nella Divina Commedia di Dante. Una caraffa di limonata era sul tavolo.
D’improvviso, sentirono lo svolazzare di una tonaca e il prete calò su di loro come un falco sulla preda. Teneva in mano un foglio, probabilmente una lettera appena arrivatagli.
“Hanno condannato a morte Babeuf!” disse, senza salutare.
Vincenzo Natale, il più taciturno dei due studenti, lo guardò stupito. Non avrebbe dovuto esserci alcun motivo, per un sacerdote, di agitarsi tanto per la morte di un rivoluzionario. “Si era macchiato di troppi delitti…”
“Era un giusto!” gridò padre Ganci, con gli occhi fuori dalle orbite.
“Voi parlate così?” chiese Vincenzo.
“La storia racconterà che a Parigi c’è stata anche una rivoluzione onesta, quella del movimento degli uguali” interloquì l’altro giovane, che tutti chiamavano Spartacus, per la sua forza ed il carattere ribelle.
“È fallita, purtroppo!” esclamò padre Ganci. “Ma, speravo che non si arrivasse a tanto. Francois Gracchus Babeuf, Filippo Buonarroti e Darthé sono e resteranno la parte migliore della Francia libera!”
“Non dite altro!” lo interruppe bruscamente Vincenzo.
Il suo viso, però, si addolcì subito dopo; e, rivoltosi al sacerdote, prese un’espressione cordiale. “Padre, io non so se sono ancora pronto per sentirvi…”
Gli si avvicinò e gli prese la mano, portandosela sul cuore. “Anch’io credo che Babeuf fosse un illuminato. Ma, la sua strategia non è approdata a nulla. La rivoluzione e la prudenza sono due guerrieri che debbono combattere insieme, come Diomede ed Ulisse.”
Quel ragazzo – figlio prediletto di don Alfio Natale, importante esponente della massoneria siciliana – si era già documentato sull’azione e sulla struttura del Comitato Insurrezionale del Movimento degli Eguali.
Ma, per una legge personale, che non trasgredì quasi mai, di ciò che pensava, lasciava trasparire soltanto il necessario…
E nulla di ciò che intendeva fare.
In questo senso, egli, molto più dei suoi interlocutori, era coerente con la mentalità del Comitato di Babeuf, rigorosamente clandestino e al vertice di una piramide organizzativa, i cui membri per lo più non si conoscevano fra di loro.
II
Ritroviamo Vincenzo Natale a Palermo, quando lord Bentinck prese in mano la situazione siciliana, vennero portati al governo i liberali e il parlamento non si limitò più a votare donativi e a chiedere grazie.
Arrivato al potere, infatti, il principe Carlo Cottone di Castelnuovo dette inizio al suo programma di realizzare un vero e proprio rimpasto degli ordini del regno.
“Sotto gli influssi del Ministero novello” scriveva perciò Vincenzo al padre, “le elezioni del Braccio demaniale hanno messo in luce i caldi e conosciuti patrioti. Ora speriamo che i nobili membri del Braccio militare e del Braccio ecclesiastico vengano ad adunarsi a Palermo, inclinati e disposti non soltanto alle novità, ma pure ai sacrifici inevitabili.”
Giunsero, così, le riforme per fare uscire la Sicilia dal feudalesimo.
Si cominciò con l’abolizione delle primogeniture e dei fedecommessi. Ma, in questa occasione, purtroppo, avvenne pure la rottura tra Cottone ed il nipote Ventimiglia, principe di Belmonte.
“Sarebbe preferibile rimandare la legge” allora suggerì Vincenzo a Cottone.
Era un consiglio che poteva permettersi, essendo diventato uno dei suoi più fidati collaboratori.
“E darla vinta a mio nipote?” si meravigliò il principe.
“La chiami una ritirata strategica. Lei, nel frattempo, avrebbe il tempo di preparare la camera dei Pari a darle un risolutivo appoggio.”
Cottone allargò le braccia. “Non avrebbe torto, se non fosse che il braccio demaniale non intende aspettare oltre.”
Davanti a quella premura, perciò, Cottone decise di rompere gli indugi, sfidando il parere del Ventimiglia, favorevole al mantenimento di adeguati appannaggi.
Tra zio e nipote divenne inevitabile l’ostilità. I bracci demaniale ed ecclesiastico votarono per l’abolizione del fedecommesso. Il Braccio baronale combatté ad oltranza, per mantenere inalterati i privilegi di casta legati alla primogenitura.
Inoltre, i nobili non volevano perdere il mero e misto impero, che faceva del castello feudale un ente con poteri sconfinati.
III
In quei tormentati giorni Vincenzo Natale frequentava pure Emanuele Rossi, un avvocato rivoluzionario amico di suo padre.
La mattina del 13 aprile 1812, i due si ritrovarono a parlare davanti alla Macchina ad acqua, che stava in piazza Pretoria, sulla quale si affacciava il Palazzo senatorio.
“Voi Natali siete nati moderati” gli disse Rossi.
Non riusciva a rinunciare a stuzzicare quel giovane, che aveva, come usava digli, una flemma travolgente, almeno nella misura in cui egli stesso aveva una passionale verve.
“Invece, almeno io, sono uno che sa fare i conti con la vita” rispose Vincenzo. “E’ bene chiedere soltanto ciò che si ottiene davvero… Avevo un amico, quando studiavo in collegio, che sognava la rivoluzione di Babeuf. Ora amministra da galantuomo il feudo dei Nelson.”
“È una peste che gira, l’accomodarsi col baronaggio” sospirò Rossi. “Spero che non contagi anche lei.”
“La vera peste” disse placidamente Vincenzo, “è la necessità di mangiare ogni giorno e di non lasciare la testa sul patibolo. Il mio amico ha fatto benissimo a entrare al servizio dei Nelson. Tanto più che non mi pare che abbia rinunciato alle sue idee.”
“Sa bene a che servono e dove ce le possiamo sbattere, le idee che restano nella testa dei rivoluzionari!”
“Quelle idee servono a restar vivi… per farle poi diventare realtà, quando arriva il momento giusto. In Francia, nell’89, insieme a troppi uomini, sono morte troppe idee buone.”
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