Cosa dice il caso Zte sulla competizione tra Usa e Cina
di LIMES (Giorgio Cuscito)
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Lo stallo dell’azienda cinese Zte porta con sé due messaggi.
Il primo è che nella guerra commerciale tra Usa e Cina Washington ha per ora il coltello dalla parte del manico.
Il 13 maggio, il presidente statunitense Donald Trump ha affermato via Twitter che sta cooperando con l’omologo cinese Xi Jinping per permettere all’azienda basata a Shenzhen di tornare sul mercato.
Zte ha infatti annunciato che cesserà le sue principali attività dopo che Washington ha vietato alle aziende statunitensi di venderle componenti tecnologici fino al 2025. Ciò ha danneggiato la quarta più grande produttrice al mondo di attrezzature per la telecomunicazione, che ad oggi dipende dall’hardware e dal software statunitense.
The Donald utilizzerà il caso del gigante tecnologico cinese come leva negoziale per ottenere delle concessioni da Pechino.
Il secondo è che nel lungo periodo la vera posta in gioco tra Cina e Usa è il dominio tecnologico.
Gli Usa hanno deciso di rivalersi contro Zte perché – contrariamente a quanto pattuito – questa avrebbe venduto beni e tecnologia a Iran e Corea del Nord. Non è chiaro se ciò sia accaduto, ma a tale mossa soggiace una questione ben più rilevante: Washington vuole impedire a Pechino di completare il piano Made in China 2025, che punta a trasformare la Repubblica Popolare in una superpotenza manifatturiera, elevando la qualità dei prodotti cinesi in settori quali automotive, aviazione, macchinari, robotica, logistica ferroviaria e marittima avanzata, tecnologia dell’informazione eccetera.
La prima occasione utile è la visita del vicepremier Liu He, a Washington che dal 15 al 20 maggio per il secondo giro i negoziati economici e commerciali, dopo il primo – e apparentemente infruttuoso – avvenuto a Pechino a inizio mese.
Il dossier Zte ha reso Pechino ancora più consapevole della sua eccessiva dipendenza tecnologica dagli Usa e delle necessità di ridurla il prima possibile. Al punto che lo scorso aprile lo stesso Xi Jinping ha detto che la Repubblica Popolare deve “mettere da parte le illusioni e fare affidamento su se stessa” per lo sviluppo della tecnologia.
Pechino vuole guidare lo sviluppo della rete wireless 5g e dell’intelligenza artificiale, chiave di volta per favorire la crescita economica, identificare nuovi strumenti per mantenere la stabilità interna e garantire la sicurezza nazionale.
Secondo un documento del Consiglio per la sicurezza nazionale Usa reperito dal sito Axios, l’amministrazione Trump starebbe prendendo proprio in considerazione l’ipotesi di nazionalizzare la rete 5g Usa per impedire che in futuro il paese dipenda dalla tecnologia cinese.
Ad ogni modo, la Repubblica Popolare deve fare ancora molta strada per colmare il divario tecnologico con gli Usa. Le compagnie cinesi attive nel settore dell’intelligenza artificiale sono solo 700, contro le 3 mila a stelle e strisce. Inoltre, tra il 2012 e il 2016 la Cina ha investito nel settore circa 2,6 miliardi di dollari, mentre gli Stati Uniti quasi 18 miliardi.
Negli Usa lo sviluppo del settore è maggiormente stimolato dai privati. In Cina, invece il balzo in avanti che stanno compiendo le start-up è possibile principalmente grazie agli investimenti del governo e in seconda battuta ai capitali esteri e al fermento imprenditeriale domestico.
Il numero di ricercatori cinesi concentrati su questo settore è in crescita, anche se l’impatto delle loro produzioni accademiche è ancora inferiore rispetto a quelle occidentali. Per impedire che questi attingano più o meno lecitamente al know-how degli Usa, Trump vorrebbe restrigerne l’accesso alle università statunitensi.
Per accelerare il progresso tecnologico, Pechino ha incaricato le aziende di punta cinesi Baidu, Alibaba, Tencent e iFlitek di trainare il paese nel campo dell’intelligenza artificiale. Inoltre, lo scorso anno Xi ha istituito una commissione per lo sviluppo integrato tra industria militare e civile, consapevole che la loro sinergia potrà rafforzare più rapidamente l’indipendenza della Repubblica Popolare in relazione a “tecnologie di base” (hexin jishu), quali semiconduttori, sistemi operativi e analisi dei big data.
Il legame tra industria civile e bellica è confermato dal fatto che la principale azionista della Zte è la Shenzhen Zhongxingxin Telecommunications Equipment. Questa è posseduta tramite sussidiarie dalle statali China Aerospace Science and Technology Corporation e la China Aerospace Science and Industry Corporation, principale contractor cinese nel campo della difesa e dell’aerospazio.
Nel breve periodo, se gli Usa decidessero di bloccare in maniera sistematica il trasferimento di tecnologia alla Repubblica Popolare, Pechino sarebbe costretta a cercare partner di altre nazionalità. La taiwanese Mediatek avrebbe già ottenuto il permesso di vendere componenti all’azienda cinese. Evidentemente il piano di Pechino per riprendersi l’ex Formosa entro il 2050 intacca fino a un certo punto le relazioni economiche a cavallo dello Stretto.
Inoltre, la Arm Holdings, sussidiaria della giapponese SoftBank e importante produttrice di processori, avrebbe già compiuto passi in avanti per entrare nell’industria cinese. Tra questi rientra la joint-venture con il fondo d’investimenti Hopu, cui contribuiscono tra gli altri il fondo sovrano China investment corporation e il Fondo per le vie della seta.
Nei prossimi mesi, altre aziende cinesi potrebbero essere colpite dalle sanzioni Usa. La più a rischio è Huawei (terzo produttore al mondo di cellulari dopo Apple e Samsung), i cui prodotti – al pari di quelli di Zte – sono stati più volte considerati dagli apparati d’intelligence statunitensi una minaccia alla sicurezza nazionale.
Pechino potrebbe intraprendere due strade per allentare la pressione esercitata da Washington.
Primo, aprire ulteriormente il mercato cinese (obiettivo in linea con il piano di riforma economica), elevare la protezione della proprietà intellettuale delle aziende straniere e brandire allo stesso tempo eventuali contromosse in caso di guerra commerciale.
Secondo, mostrare agli Usa di poter facilitare – o complicare – due dossier che coinvolgono Cina e Stati Uniti.
Il più imminente è il processo di denuclearizzazione della penisola coreana. Il secondo viaggio di Kim Jong-un in Cina (a Dalian) nel giro di 40 giorni ha confermato che Xi vuole essere parte attiva nel futuro (nucleare o meno) della Corea del Nord. La sua esistenza impedisce agli Usa di posizionare le sue truppe al confine nordorientale della Repubblica Popolare.
Il secondo dossier è quello relativo all’accordo nucleare con l’Iran, da cui la Casa Bianca si è ritirato. Pechino vorrebbe invece preservarlo per consolidare maggiormente i rapporti con Teheran, da tempo partner energetico cinese e ora potenziale strumento di pressione nei rapporti sino-statunitensi.
FONTE: http://www.limesonline.com/rubrica/cosa-dice-il-caso-zte-sulla-competizione-tra-cina-e-usa
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