€uropa e welfare: tra rimedio al pauperismo, ong e legalità costituzionale
di SINISTRAINRETE (Quarantotto)
Introduzione
Forniremo un breve reminder che riguarda il concetto di welfare e la sua accezione fondativa del modello “legale-costituzionale”, irriducibilmente alternativa a quello irresistibilmente sospinto dal vincolo esterno (in realtà, l’intero blog è rivolto a questa precisazione di paradigmi, come pure i due libri che traggono dal materiale emerso dal blog il loro contenuto di ricostruzione della legalità costituzionale).
Cercherò di integrare, per punti essenziali, il contenuto di vari post e di alcuni importanti commenti che ne sono scaturiti e che ci riportano a “fonti” che potremmo assumere quale interpretazione “quasi-autentica” del testo costituzionale.
1. Premessa definitoria dei paradigmi alternativi interni alle moderne società ad economia capitalistica.
Esistono due tipi di welfare. Perchè esistono due modelli di società che poi sono due diversi modelli di capitalismo: uno è quello costituzionale e l’altro è quello “internazionalista-oligarchico-finanziario”.
E infatti esiste un welfare “costituzionale”, chiaramente identificabile in base alle previsioni della Carta fondamentale e un welfare “euro-trainato”, che tende a orientare la società verso il modello finanziario-oligarchico del mainstream neo-classico.
Questi, sul piano economico, corrispondono a un ulteriore dualismo qui più volte evidenziato, che si incentra su due concetti diversi e incompatibili di “piena occupazione”.
Questo dualismo era in realtà ben chiaro ai nostri Costituenti, che, nelle (forse irripetibili e purtroppo transitorie) condizioni in cui si diede vita all’Assemblea Costituente, non ebbero esitazione nella scelta tra le due opzioni.
2. La formula tattica e cosmetica della “economia sociale di mercato” tra Hayek, il vincolo europeo e il sistema delle Ong all’interno del welfare assistenziale e privatizzato.
La loro alternatività, irriducibile ad una presunta e tattica “Terza Via”, o “economia sociale di mercato” (quale esplicitamente introdotta nei principi-chiave dei trattati europei, cfr; qui, p.9, infine) era in verità, un tempo, un patrimonio comune della cultura giuridico-costituzionale della Repubblica:
Il welfare connesso allo Stato democratico pluriclasse, basato sull’eguaglianza sostanziale, non coincide con il welfare liberal-liberista proprio della maggior parte della storia capitalistica anglosassone: un welfare, quest’ultimo, basato sull’idea “compassionevole” di soccorrere per mano pubblica, in via surrogatoria e residuale – rispetto alla carità meramente privata, quella dei “filantropi”, che può opportunamente essere istituzionalizzata attraverso le Ong, in modo da rafforzare l’esclusione dello Stato-corrotto dai suoi compiti pubblicistici esponenziali di tutte le classi sociali- , il bisognoso e l’indigente per evitare che i loro atti di disperazione sconvolgano l’ordine sociale (propizio allo svolgersi delle forze del mercato).
Si tratta, come è ben noto, di versioni tatticamente aggiornate della folgorante visione di Hayek (qui, p.2.1. ex multis):
«Nel Mondo Occidentale, fornire agli indigenti e agli affamati per cause al di fuori del loro controllo una qualche forma di aiuto è una pratica oramai accettata come dovere dalla comunità. In una società industriale nessuno dubita che una qualche forma di intervento sia in questi casi necessaria, fosse anche solo nell’interesse di coloro che devono essere protetti da eventuali atti di disperazione da parte dei bisognosi.».
3. La scelta legale-costituzionale come corollario della “Repubblica fondata sul lavoro”.
Vezio Crisafulli, – uno dei più importanti costituzionalisti del secondo dopo-guerra (un tempo gli studenti si formavano essenzialmente sui testi scritti da lui e da Costantino Mortati)-, ci mostra come il “respingimento” della concezione hayekiana, e del liberalismo “ristretto” anglosassone (in Italia einaudiano) che, dopo la crisi del 1929, su Hayek ha fatto affidamento come proprio autentico vessillo ideologico e politico, ma anche molto operativo (qui, p.2), fosse ben cosciente nella scelta legale-costituzionale:
E anche questo i costituzionalisti lo sapevano e lo dicevano: “Giacché il principio della pubblica assistenza, pur rappresentando certamente un passo avanti rispetto alla beneficenza privata, si inquadra peraltro nel clima umanitaristico dell’epoca; era, in pratica, l’unico mezzo per alleviare il disagio dei meno abbienti senza venir meno ai principi fondamentali del nuovo ordinamento liberale borghese realizzato o confermato e consacrato da quelle Costituzioni.
Tra tutte le possibili forme di intervento statale nella sfera dei rapporti economico-sociali, era ed è dunque, indubbiamente, il meno penetrante, il più consono alle ideologie allora imperanti, il meno compromettente.”
Nella Costituzione del ’48, invece, non si tratta più del “concetto, vago e genericamente umanitaristico, dell’assistenza dovuta dalla collettività ai cittadini bisognosi, del rimedio al pauperismo, come nei primi accenni contenuti nelle vecchie Costituzioni che abbiamo rapidamente richiamato al par. precedente; ma è proprio l’affermazione di principio del diritto dei cittadini, ed in modo speciale dei cittadini in quanto lavoratori, a certe determinate prestazioni, in largo senso, assistenziali; diritto che, di solito, si configura sistematicamente come integrativo del fondamentale diritto al lavoro e all’attuazione del quale vengono chiamate a corrispondere, almeno in larga parte, le leggi e le istituzioni « previdenziali »”. (V. Crisafulli, Costituzione e prevenzione sociale, Rivista degli Infortuni e delle Malattie Professionali, 1950, n. 1 (gennaio-febbraio), ora in La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Giuffè, Milano, 1952, pagg. 122 e 125).
4. Il senso dei principi fondamentali della Costituzione e il suo modello economico di partecipazione pluriclasse alla crescita in condizione di pieno impiego.
La Costituzione presuppone che la Repubblica democratica, essendo fondata sul lavoro (art.1), garantisca o tenda a garantire la piena occupazione in senso keynesiano, cioè di utilizzazione più ampia possibile della forza lavoro, considerando la disoccupazione uno stato residuale che (solo) l’intervento pubblico tende a riassorbire a livelli fisiolgici.
Il modello di capitalismo neo-classico di Maastricht e dell’UEM, considera la piena occupazione il risultato di un riequilibrio “naturale” dell’effetto sistemico di domanda e offerta; tale principio incide anche sul “lavoro”, considerato alla stregua di qualunque altro fattore della produzione o merce, e quindi implicando il riequilibrio mediante un’alta flessibilità salariale. Il cui primo riflesso attuativo è la progressiva eliminazione per via legale, degli elementi che determinano tale rigidità: primi i meccanismi di indicizzazione salariale e poi, in varie forme, la stessa stabilità della posizione lavorativa, depotenziata attraverso forme di lavoro appunto “instabili” e poi attraverso un nuovo regime di licenziamenti, cioè la flessibilità “in uscita” .
4.1. L’attuazione ormai prevalente del modello normativo ordoliberista dei trattati europei: welfare subordinato all’istituzionalizzazione del lavoro-merce.
La piena occupazione sarebbe raggiunta in presenza di qualunque livello di riequilibrio del prezzo del lavoro e il processo implica di vincere le resistenze a tale elasticità mediante un mercato del lavoro normativamente inteso a disattivare i meccanismi che innescano ogni rigidità all’adattamento dei salari verso le esigenze del sistema produttivo. E normativamente imposto dall’UE non dalla Costituzione.Il che determina fisiologicamente, nel tempo, un grado di disoccupazione stabilmente più elevato, e comunque funzionale a tale obiettivo di piegare le resistenze dei lavoratori ad accettare salari inferiori secondo le esigenze di aggiustamento dettate dall’aggiustamento dei costi delle imprese.
Poichè questo riequilibrio, basato sulla considerazione del lavoro come merce esclusivamente soggetta alla legge della domanda-offerta, esige, come abbiao visto, l’eliminazione di ogni elemento di rigidità, si introducono vincoli di bilancio pubblico, in particolare delimitando l’indebitamento fiscale, che si traduce in sostegno alla domanda e, quindi, all’occupazione, generato al di fuori del riequilibrio spontaneo dei costi di produzione (cioè in definitiva di quello che viene inteso come il reale fenomeno inflattivo). E ciò fino al punto di introdurre il pareggio di bilancio.
4.2. La Banca centrale indipendente come garante del lavoro-merce e della minimizzazione dell’intervento costituzionale dello Stato.
Questo insieme di misure, previste da rigidi meccanismi automatici e dalla sottrazione agli Stati democratici del potere di emissione della moneta, acutizza lo schema fino a portarlo al livello “ideale” predicato dalla dottrina neo-classica, ma esso trova un complemento indispensabile nella indipendenza della banca centrale, il cui contributo alla flessibilità del lavoro, e quindi alla crescita strutturale della disoccupazione in funzione di flessibilità-deflazione salariale, è meno evidente ma altrettanto efficace.
L’affidamento esclusivo del rendimento dei titoli del debito pubblico alle dinamiche del mercato finanziario determina l’innalzamento rapido, e a effetto cumulativo, del costo della stessa spesa pubblica corrente non coperta dalle entrate. Il deficit diviene così un rischio di ulteriore innalzamento di tale costo, instaurandosi una condizione di “pericolo”, strutturale e crescente, di non sostenibilità del debito, in quanto la crescita della ricchezza nazionale può verificarsi a tassi inferiori a quelli dell’incidenza annuale del deficit, per di più inesorabilmente ampliato dal costo cumulato degli interessi.
4.3. Banca centrale indipendente, desovranizzazione e i pilastri di una società TINA.
Questa sola misura (l’indipendenza della BC), quindi, tende a “disciplinare” la spesa pubblica, in quanto il suo aumento deve divenire, in termini reali, più contenuto del tasso di inflazione, per impedire di far dilatare il costo degli interessi (secondo la legge della domanda e dell’offerta in combinazione con lo “sconto” da parte degli investitori finanziari della solvibilità in prospettiva dei titoli emessi a quei rendimenti).
Unito poi a “tetti” del deficit, il sistema funziona in termini di progressiva sterilizzazione dell’efficacia di sostegno della spesa pubblica sulla domanda: questa tende a stabilizzarsi sui livelli salariali dettati dalle esigenze di competitività (esportativa) del sistema industriale. E cioè sulla produttività che, però, a sua volta, è strettamente correlata al livello di cambio verso l’estero della moneta adottata.
Quindi questa ulteriore componente della dottrina neo-classica accelera l’instaurazione del sistema in cui il lavoro è, per necessità, solo una merce, che diviene agevolmente sotto-domandato, in coincidenza con l’interagire dei quattro fattori – regime del mercato del lavoro, banca centrale indipendente, delimitazioni legalizzate del deficit di bilancio e rigidità del cambio verso monete più forti di quella nazionale.
5. L’intervento pubblico a sostegno dell’economia come mera eventualità residuale, “de facto” monetariamente insostenibile.
L’intervento pubblico a sostegno dell’economia diviene una mera eventualità, soggetta a rigidi limiti congiunturali, e cioè realizzabile in una (remotamente teorica) fase di espansione che, però, il vincolo di cambio potrebbe non consentire mai, sottraendo stabilmente, in assenza di una rigida politica di contenimento del bilancio dello Stato e salariale, la domanda estera, riassunta nel complesso delle voci che compongono il current account balance, al prodotto nazionale.
La domanda interna (o a ristagnare in termini “reali”) perciò tende inesorabilmente a calare, determinandosi un output-gap che può, in situazioni di crisi determinate da fattori esterni, divenire recessione acuita dall’inasprimento pro-ciclico di queste stesse politiche.
Queste, formalmente, mirano al deleverage, cioè a ridurre l’indebitamento (del settore pubblico, e immancabilmente incrementando quello del settore privato), ma operano in modo strettamente contabile, ragionieristico – la famosa parodia dell’incubo di un contabile, di Keynes, entro lo slogan dello “Stato come una famiglia”- tralasciando coscientemente di percorrere quel prioritario sistema di solvibilità del debitore che è la sua possibilità di tenuta e di incremento reddituale.
6. La scelta dell’irreversiblità del sistema €uropeo e la…Costituzione nella palude.
Preso atto, più o meno consapevolmente (a seconda della capacità culturale della forza che abbraccia tale “dottrina”), dell’irreversibilità di questo sistema, si finisce per accedere a un welfare non di sostegno diretto o indiretto dell’occupazione, quale quello previsto in Costituzione: questo prevede la tutela dell’equa retribuzione, art.36 Cost., la positiva valutazione ordinamentale della tutela sindacale, art.39 Cost., la cura dell’istruzione pubblica e della formazione professionale, artt. 33 e 35 Cost., il sostegno pubblico all’elevazione culturale e professionale dei privi di mezzi (art.34, commi 3 e 4), il coordinamento legislativo dell’attività economica PUBBLICA E PRIVATA per indirizzarla a fini sociali (art.41 Cost.), la “adeguatezza” dell’assistenza sociale – e dunque pensionistica- in caso di iogni genere di mpedimento della possibilità lavorativa (art.38 Cost.). Tutte previsioni che implicano appunto, con evidenza palmare, non solo il sostegno pubblico diretto o indiretto al livello occupazionale e salariale, ma anche forme che si traducono in un” salario indiretto”, cioè in mezzi di sostentamento del cittadino/a-lavoratore-trice apprestati dallo Stato in dipendenza di eventi e condizioni non direttamente esplicantisi nel rapporto di lavoro.
Ma si tratta appunto di spesa pubblica. E di spesa pubblica programmaticamente assunta dallo Stato come “obbligatoria”, cioè irrinunciabile alla luce dei principi fondamentali (art.1, 2, 3, in particolare secondo comma e 4 Cost.).
7. Il welfare “adattativo” come saldatura della scelta irreversibile in assenza della priorità costituzionale delle politiche di piena occupazione.
Aderire a un sistema di welfare che, invece, si connetta alla accettazione della crescente e strutturata maggior disoccupazione, come nel caso del salario di cittadinanza, da un lato implica la rinuncia a perseguire programmaticamente, – sempre nella impraticabilità contabile che vincola ad un sacrificio inevitabile all’interno della moneta unica -, gli strumenti di sostegno diretto e indiretto del lavoro e della domanda mediante spesa pubblica, dall’altro, assoggetta queste stesse provvidenze, nel quadro in cui vengono assunte, alla clausola, in effetti extracostituzionale, del limite del deficit o del pareggio di bilancio. Cioè, da un lato si prende semplicemente atto, senza più attribuirvi significato congiunturale da correggere, che il sistema fa della disoccupazione la principale emergenza sociale, rinunciando a rivendicare gli altri strumenti costituzionali intesi a prevenirla, dall’altro, la cura di questa emergenza è perseguita nei limiti dell’accettazione dello schema generale neo-classico: cioè “se e in quanto” ciò sia compatibile coi tetti del deficit o ancor più col pareggio di bilancio, e quindi col perseguimento del sistema di sterilizzazione dell’intervento pubblico a favore della qualificazione ordinamentale (contraria ai principi della Costituzione) del lavoro come merce.
D’altra parte, anche volendo porre in constestazione tale in-compatibilità istituzionale, l’azione delle istituzioni dell’eurozona, già consolidata e sempre incombente, porta a quella situazione di crisi innescabile a piacimento dai “mercati”, che riporta qualunque “ribelle” ai più miti consigli (classico esempio la vicenda “Tsipras”).
7.1. E dunque, in questo continuo incombere del sovrastante e inderogabile principio della riduzione della spesa pubblica, il nuovo “welfare” assumerà sempre e solo, nel tempo, il livello che non interferisce col riequilibrio naturale della domanda e dell’offerta: a livelli crescenti di disoccupazione, scontati nell’indebolimento della domanda provocato dall’insieme dei fattori sopra indicati, l’onere, altrimenti crescente, sarebbe considerato comprimibile e riducibile. Il welfare non sarà più un sistema attivo di promozione delle classi sociali subalterne, e in pratica di aumento del benessere generale determinato dalla mobilità sociale, ma una mera valvola di sicurezza per impedire il crollo “eccessivo” della domanda stessa.
8. L’ottica temporeggiatrice di (inconsapevole) adattamento a livelli salariali decrescenti e l’espansione degli investimenti privati che non arriva mai.
Ci si colloca così in un’ottica temporeggiatrice – strutturalmente non correttiva del “ciclo” da parte delle politiche fiscali (sostanzialmente automatizzate, secondo la formula di Milton Friedman)- che mira all’abituarsi della società a nuovi e più bassi livelli di reddito e, quindi, di prezzi, ottenendosi così quella deflazione che tutela il credito finanziario in termini reali e che spingerebbe le imprese verso gli investimenti contandosi sull'”effetto ricchezza” determinato dalla aspettative di calo dell’inflazione.
Nulla di tutto questo si verifica e si è mai verificato: quello che si verifica, nell’attuazione dell’ideologia neo-classica, è piuttosto la contrazione della domanda e la minor ricchezza collettiva, inclusi i profitti considerati in assoluto e nella loro dinamica di crescita. Ma aumenterà la loro rigidità verso il basso in percentuale al PIL, cioè l’assetto redistributivo nel suo insieme, potendosi comprimere il costo del lavoro, e più ancora, come evidenzia Kalecky, potendosi raggiungere l’obiettivo delle grandi imprese finanziarie e industriali di avere la forza politica incontrastata di influenzare e indirizzare l’azione dei governi.
Questa è dunque la società che sottende il “reddito di cittadinanza”, che assume, appunto, la funzione di strumento di ratifica della resa delle forze sociali e politiche alla realizzazione del modello costituzionale (Keynesiano).
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