Cina e Vaticano parlano la stessa lingua
di LIMES.IT (Giorgio Cuscito)
Una statua di Gesù nella cattedrale di Jiaozuo (Henan, Cina, 13 agosto 2018). Foto: GREG BAKER/AFP/Getty Images
BOLLETTINO IMPERIALE Settembre lungo le nuove vie della seta. Santa Sede e Pechino firmano un accordo storico. Usa e Ue sviluppano strategie per contrastare la Belt and Road Initiative. L’Italia potrebbe aderire all’iniziativa cinese entro il 2018.
Il Bollettino Imperiale è l’osservatorio di Limes dedicato all’analisi geopolitica della Cina e alle nuove vie della seta. Grazie al sostegno di TELT. Puoi seguirci su Facebook e Twitter.
Indicatore geopolitico: 1.3 miliardi
Sono i cattolici battezzati nel mondo. Sul vincolo di fede che li lega al papa si impernia l’impero spirituale della Chiesa.
CINA-VATICANO, L’ACCORDO È L’INIZIO
“Il tempo di Dio assomiglia al tempo dei cinesi” ha detto papa Francesco, per rimarcare quanta arte e pazienza abbiano impiegato Santa Sede e Pechino per capirsi e raggiungere un accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi nella Repubblica Popolare.
Il Vaticano ha evidentemente compreso le tecniche di negoziato cinesi, secondo le quali la fiducia e il rapporto personale sono presupposti di qualunque intesa. Basti pensare al contributo fornito dal segretario di Stato Parolin, che ha guidato la delegazione vaticana durante i negoziati segreti con Pechino sin dai primi anni Duemila.
Per questo, nel messaggio ai cattolici cinesi, papa Francesco ha menzionato il passo del De amicitia di Matteo Ricci (gesuita come lui e noto per la sua attività pastorale nella Cina imperiale) che recita: “prima di contrarre amicizia, bisogna osservare; dopo averla contratta, bisogna fidarsi”. Nella Repubblica Popolare gli accordi rappresentano l’inizio del confronto, non il punto di arrivo. Non a caso il documento firmato da Pechino e dalla Santa Sede è provvisorio e privato. Pertanto può essere ridiscusso in corso d’opera.
La Cina ha di fatto rinunciato a un frammento di sovranità, lasciando che la nomina sia formalmente attribuita dal papa. Tuttavia, può servirsi del dialogo con la Santa Sede per rafforzare il suo soft power mentre affronta la guerra commerciale con gli Usa, le critiche internazionali riguardanti il rispetto dei diritti umani nel Xinjiang e quelle inerenti le ripercussioni negative della Belt and Road Initiative (Bri, o nuove vie della seta) sui paesi più deboli economicamente.
Nel lungo periodo, il Vaticano punterà invece a potenziare la sua attività pastorale nella Repubblica Popolare, dove si stima vi siano circa dieci milioni di cattolici.
TAIWAN TRA CINA, USA E VATICANO
Taipei osserverà con attenzione il riavvicinamento tra Pechino e la Santa Sede, anche se questo non determina per ora l’apertura delle relazioni diplomatiche tra i due Stati. Il Vaticano, uno dei 17 paesi che riconosce la sovranità di Taiwan, difficilmente sposterà il suo nunzio apostolico da qui alla Cina continentale perché ciò incrinerebbe gli equilibri tra Repubblica Popolare e Usa. Una simile decisione infatti potrebbe indurre Pechino a pressare maggiormente Taipei verso la riunificazione, obiettivo che vorrebbe raggiungere entro il 2050. Washington riconosce la sovranità della Repubblica Popolare, ma fornisce a Taiwan appoggio strategico e armi. Per questo non resterebbe a guardare in caso di conflitto a cavallo dello Stretto.
TRUMP ALL’ONU CONTRO LA CINA
Le tensioni sino-statunitensi ormai vanno ben oltre il fronte commerciale. Durante l’assemblea generale dell’Onu, il presidente Usa Donald Trump ha accusato la Cina d’interferenza contro la sua amministrazione nelle elezioni di medio termine che si svolgeranno il 6 novembre. Trump ha anche invitato tutte le nazioni a resistere al socialismo e al comunismo, che avrebbero prodotto “sofferenza, corruzione e decadenza” ovunque siano stati esercitati.
A fine settembre, l’Esercito popolare di liberazione (Epl) ha anche interrotto temporaneamente i principali dialoghi con le Forze armate statunitensi dopo che Washington ha sanzionato un dipartimento militare cinese per aver acquistato armi dalla Russia. Queste dinamiche potrebbero alimentare la narrazione cinese circa l’aggressività statunitense e agevolare il dialogo sino-russo contro Washington.
UN’AGENZIA USA PER CONTRASTARE GLI INVESTIMENTI CINESI
L’offensiva Usa non si ferma qui. Washington intende creare una nuova agenzia per contrastare le attività cinesi nei paesi in via di sviluppo. In particolare in quelli dove gli investimenti della Repubblica Popolare alimentano il debito pubblico e quindi la vulnerabilità all’influenza di Pechino. La Camera dei rappresentanti statunitense ha approvato la legge sulla formazione dell’ente ad agosto e il Senato potrebbe dare il via libera entro novembre.
L’ITALIA NELLA NUOVE VIE DELLA SETA ENTRO FINE ANNO?
L’Italia potrebbe diventare il primo paese del G7 a diventare ufficialmente parte integrante delle nuove vie della seta, entro la fine del 2018. In occasione del suo viaggio in Cina, il vicepresidente del Consiglio dei ministri Luigi Di Maio ha detto che Roma potrebbe sottoscrivere il memorandum d’intesa con la Cina sulla Bri nei prossimi mesi. Magari a novembre, quando Di Maio si recherà a Shanghai per presenziare all’International import expo. Nel frattempo, Roma e Pechino hanno firmato un documento d’intesa per la cooperazione in paesi terzi. Questa dovrebbe focalizzarsi in primis sull’Africa, continente strategico per entrambi i governi.
La firma del memorandum sulla Bri rappresenterebbe un passo in avanti per il coinvolgimento italiano nei progetti cinesi, ma non determinerebbe una svolta. Il memorandum è un documento non vincolante, quindi non indispensabile per attuare accordi nella cornice delle nuove vie della seta. Basti pensare che la Grecia ha firmato la medesima dichiarazione solo il mese scorso, mentre il porto del Pireo (controllato dall’azienda di logistica cinese Cosco) era già incardinato nei progetti di Pechino.
Sinora, gli sforzi italiani lungo le nuove vie della seta hanno prodotto pochi risultati. Il cambio di marcia potrebbe avvenire se, come probabile, l’autorità portuale di Trieste annunciasse un accordo di collaborazione con la Cina nei prossimi mesi.
UN PIANO ANTI-BRI PER L’EUROPA
L’Ue ha gettato le basi di una nuova strategia per migliorare i collegamenti infrastrutturali tra Europa e Asia. Il comunicato che descrive il progetto menziona espressamente la connessione dei dieci corridoi della Trans-european transport network (Ten-t) alle reti ferroviarie dell’Estremo Oriente.
L’iniziativa veterocontinentale mira implicitamente a ostacolare lo sviluppo delle nuove vie della seta cinesi. Questa infatti propone all’Eurasia un sistema di investimento alternativo alla Bri, basato su trasparenza, sostenibilità economica e alti standard qualitativi. Proprio gli ambiti in cui l’iniziativa cinese presenta maggiori carenze.
Durante lo scorso anno, alcuni paesi europei hanno criticato la Bri e Bruxelles ha elevato la soglia di attenzione verso la crescente presenza economica della Repubblica popolare nel Vecchio Continente. La sinergia tra le due iniziative potrebbe essere discussa durante l’imminente summit Asia-Europa (18-19 ottobre), anche se in realtà cela uno scenario competitivo.
IL PAKISTAN OFFRE AIUTO ALLA CINA NEL XINJIANG
Il Pakistan ha chiesto alla Repubblica Popolare di allentare le misure restrittive nei confronti degli uiguri (musulmani e turcofoni) nel Xinjiang e gli ha offerto il proprio aiuto nel contrastare l’estremismo religioso. L’argomento è tornato d’attualità dopo che l’Onu e gli Usa hanno accusato Pechino di aver rinchiuso circa un milione di musulmani in campi d’internamento dislocati nella regione.
L’ambasciatore cinese ha accolto formalmente la proposta di collaborazione con Islamabad, per due ragioni. Primo, Pechino considera il corridoio economico Cina-Pakistan uno strumento per alleviare la dipendenza dei propri flussi commerciali dallo Stretto di Malacca. Secondo, la Cina deve evitare che le proteste delle comunità musulmane di altri paesi (primi segnali si vedono in India e in Bangladesh) danneggino la sua immagine e – nel peggiore dei casi – alimentino la minaccia jihadista nei suoi confronti.
LE NUOVE MALDIVE TRA INDIA E CINA
Abdulla Yameen, ex presidente delle Maldive appoggiato dalla Cina, è stato sconfitto da Ibrahim Mohamed Solih, capo dell’opposizione, durante le elezioni svoltesi a fine settembre. Non è ancora chiaro in che modo l’esito delle urne inciderà sulle relazioni tra Pechino e Malè. Durante la presidenza di Yameen, la Repubblica Popolare ha investito nelle infrastrutture del paese arcipelago (tradizionalmente nella sfera d’influenza dell’India) per integrarlo nelle nuove vie della seta. Inoltre, tra febbraio e marzo la Cina ha dato sostegno diplomatico a Yameen per evitare che Delhi interferisse nello stato d’emergenza da lui dichiarato.
L’India spera di recuperare il rapporto con Malè, visto che Solih aveva manifestato la volontà di ridiscutere i termini del rapporto con la Cina. Pechino cercherà invece di preservare la sua presenza nel paese. È probabile che il nuovo capo di Stato maldiviano cerchi una posizione intermedia tra le due potenze regionali. Per evitare di essere schiacciato da entrambe.
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