Felwine Sarr, e Mbambe, (Post)colonialismi e altracrescita.
Di TEMPO FERTILE (Alessandro Visalli)
Felwine Sarr è un economista e filosofo senegalese che insieme allo scrittore senegalese Boubacar Boris Diop[1] e a Nafissatou Dia ha fondato la casa editrice Jimsaan a Saint Louis. In italiano è stato tradotto il suo “Afrotopia”. Dall’ottobre 2016 insieme al camerunense Achille Mbembe (uno dei più importanti filosofi del Post-colonialismo[2], una corrente complessa inaugurata da Edward Said nel 1978 in linea con gli studi di Foucault) ed a trenta tra studiosi ed artisti afro-diasporici ha fondato gli Atelier de la Pensée[3] a Dakar e a Saint-Louis.
Il Post-colonialismo interpretato da Mbembé insiste sul comune, su ciò che gli uomini hanno di comune come destino. In particolare Mbembé è stato orientato da studi iniziali con i gesuiti (in Zimbabwe) e quindi dal cristianesimo e da una visione ideale di umanità senza frontiere. Si tratta, quindi, di un discorso fortemente anti-identitario che vede l’umano come un “essere esposti” gli uni agli altri, non “chiusi” da frontiere e da identità.
Costruendo una posizione che risente evidentemente delle urgenze della fase politica, con la sfida avanzata dal populismo della destra francese, in una intervista su Libération, del 2 giugno, il filosofo camerunense sostiene quindi che:
“Ciò che l’umanità ha oggi in comune è il fatto che siano chiamati a vivere esposti gli uni agli altri e non chiusi dentro frontiere e identità. Questo fa parte dell’umano, ma è anche il corso che prende ormai la nostra storia con altre specie su questa Terra. Vivere esposti gli uni agli altri presuppone di riconoscere che una parte della nostra ‘identità’ ha origine nella nostra vulnerabilità. Che deve essere vissuta e intesa come un appello a tessere solidarietà e non a costruirci dei nemici. Sfortunatamente tutto questo è troppo complicato per il temperamento della nostra epoca, portata invece verso idee preconcette. Più il nostro mondo diventa complesso e più si tende a ricorrere a idee semplici.”
Il rischio che corre la società in questa fase, invece, è di rinchiudersi in una sorta di “universalismo” di natura “etnica”:
“quando l’identità si coniuga con il razzismo e la cultura si presenta sotto l’aspetto di un’essenza immutabile. Quella che viene chiamata identità non è una cosa essenziale. In fondo siamo tutti dei passanti… Mentre emerge lentamente una nuova coscienza planetaria, la realtà di una comunità oggettiva di destino deve vincerla sull’attaccamento alla differenza… Essere nati in qualche poso è accaduto per caso, non per scelta. Sacralizzare le origini è un po’ come adorare i vitelli d’oro. Quel che importa è il tragitto, il percorso, il cammino, gli incontri con altri uomini e donne in cammino, e quello che facciamo. Si diventa uomini nel mondo camminando, non rimanendo prostrati dentro un’identità.”
Anche se attacca, secondo una consolidata attitudine delle élite sradicate cui tutto sommato appartiene per biografia, l’”ossessione identitaria” francese, come espressione del rifiuto di prendere atto della direzione della storia[4], ovvero de “il mondo come è e come sta diventando”, Mbembé collega in modo comunque interessante la ‘negritudine’ allo status di ‘vinto’. Dunque, secondo lui “i negri di oggi sono ad esempio i Greci, cui si sono imposti trattamenti riservati ai popoli vinti in una guerra e si è esteso il disprezzo sin qui riservato ai neri”. Oggi, in altre parole, i “neri” sono più in generale l’intera classe dei superflui, “di cui nessun padrone ha bisogno o che amerebbe avere neanche come schiavi. Il problema non è più quello di sfruttarli, anche se essi volessero esserlo, non troverebbero chi vuol farlo”.
Come diceva anni fa la Joan Robinson, insomma, ‘c’è di peggio dell’essere sfruttati. Non esserlo’.
Da questa posizione non ricava, tuttavia, una posizione di attesa e scoraggiamento, il futuro comune, che auspica, andrà invece “costruito coscientemente. Con la lotta”.
In “Politiche dell’inimicizia”, Mbembé descrive, anche qui in modo interessante, il processo di uscita dalla democrazia, proprio della deriva neoliberale, come un divaricarsi di “due corpi”, uno diurno, che è fatto di rappresentanza ed espressione, ed uno notturno, nell’altrove, che consente ogni violento sfruttamento. Ma “in questa fase neoliberale i due corpi della democrazia si stanno ricomponendo, in concomitanza con la scomparsa delle frontiere oggettive tra il qui e l’altrove”. In un mondo, quindi, “diventato piccolo”, e finito, “attraversato da vari flussi incontrollabili, movimenti migratori, movimenti di capitale legati alla finanziarizzazione estrema dell’economia”.
Ciò:
“Senza contare tutti i flussi creati dall’affermarsi della nuova ragione digitale e segnati dall’accelerazione della velocità, lo sconvolgimento dei regimi temporali. Questo favorisce un groviglio inedito tra dentro e fuori. La conseguenza è che è ormai divenuto impossibile vivere in sicurezza qui quando si fomentano il disordine e il caos altrove. Il caos e il disordine tornano indietro come un boomerang. Nella forma di attentati, ma anche di rafforzamento della pulsione autoritaria tra noi stessi. Uno scivolamento autoritario presentato come condizione per la salvaguardia della nostra libertà.Accettando più sicurezza nel nome della salvaguardia delle libertà, accettiamo dunque anche lo scivolamento autoritario. C’è una tensione tra la capitolazione e il desiderio di rivolta, un desiderio che è anch’esso un dato cruciale dei tempi che viviamo. Da un lato l’abdicazione e dall’altro un desiderio fondamentale d’insurrezione che si esprime qui e là in forme completamente nuove”.
Ne consegue che:
“La coscienza di questo mondo piccolo e finito esaspera il sentimento secondo cui occorrerebbe, per proteggersi, riattivare le frontiere, costruire i muri, separarsi. Non avremmo più a che fare con degli avversari ma con dei nemici che se la prendono con la nostra esistenza, i nostri ‘valori’, non importa quanto vaghi siano questi termini. Ecco cosa è cambiato: questa realtà del nemico e, quando il nemico non esiste, questa propensione a inventarsene uno. In questa configurazione, l’altro è percepito come una minaccia e il rapporto d’inimicizia e la volontà di separarsi diventano la sola forma di relazione”.
Insomma, anche questa richiusura identitaria sarebbe una forma del neoliberismo cui è indispensabile “lo scivolamento autoritario”[5], per il quale esso utilizza anche il terrorismo. Ovvero che utilizza le reazioni di paura verso il terrorismo che è il ritorno della violenza a casa, in qualche modo[6]. Una tesi che coglie naturalmente del vero, la ridefinizione strategica del potere di comando del capitalismo, sull’onda delle tensioni generate dal mondialismo imperialista e dall’egemonia della finanza predatoria è parimenti autoritaria della forma cui si oppone. Anzi, lo è in modo più evidente e visibile. La violenza, dunque, torna a casa e la paura di questa viene sfruttata per incoraggiare il consenso, deviandolo dall’obiettivo di farla finita con le predistribuzioni che determinano le immani povertà del presente (sia in occidente sia nelle periferie interne ed esterne del mondo).
Ma il discorso anti-identitario di Mbembe va più in profondità, anche se ripercorrendo sentieri piuttosto noti, secondo lui, infatti:
“Le democrazie liberali sono fondate su un’idea di identità pensata in termini di radici, di autoctonia[7]. È membro della comunità politica chi è nato qui, chi è di questo luogo. Il cittadino è un autoctono. Lo straniero può diventare cittadino se accetta di autoctonizzarsi, ma questo è un processo complicato, non aperto a tutti, un processo condizionale… e reversibile, nel caso della decadenza della nazionalità. Ecco il fondamento antropologico della democrazia liberale. Sappiamo bene che essere nati da qualche parte e da qualcuno dipende dal caso e non da una scelta. Ma nell’immaginario democratico liberale, questa casualità si trasforma in un destino a cui siamo condannati”.
Vediamo meglio: Mbembé sostiene che “è membro di una comunità politica chi è nato in essa”, è cittadino chi è autoctono o lo diventa. Questo sarebbe il “fondamento antropologico” della democrazia liberale (ma lo è, in effetti, e casomai dello Stato nazionale, indipendentemente se sia democratico e quanto lo sia). Una posizione piuttosto imprecisa e frettolosa, ma mi colpisce più la frase seguente, “essere nati da qualche parte e da qualcuno dipende dal caso e non da una scelta”. Questo concetto di scelta, definito in senso individuale, è se vogliamo la componente centrale della ideologia liberale, e in questo contesto è quindi particolarmente incongruo e contraddittorio. Infatti essere nati in un luogo e da una data famiglia sarà anche casuale (ma questa immagine implicita presume la preesistenza e la distribuzione), e certamente non è ‘scelto’, ma ci costituisce. Nulla preesiste al momento della nascita e tutto ciò che ci fa è definito da questa, ovvero se un individuo nasce in altro luogo o da altra famiglia è principalmente un altro individuo. Noi non scegliamo dove nascere, ma siamo “noi” proprio perché ciò avviene.
Dunque non è tanto “nell’immaginario democratico liberale” che sussiste la casualità dell’essere di qui o di altrove, e le sue conseguenze, ma nella natura umana. L’uomo è sempre questo uomo. Ovvero nella circostanza che l’uomo nasce particolarmente “vuoto” e viene definito dalle esperienze che compie nel percorso di crescita.
Certo, è vero che l’uomo può sempre cambiare, e anche la sua identità personale può mutare e spostarsi, ed è vero che, scendendo su un piano pratico-politico, il discorso nazionalista ed identitario può essere strumentalizzato a fini di controllo sociale, ovvero usato per “depistare”[8]. Come dice:
“Un modo per depistare i potenziali di rivolta verso oggetti sbagliati, oggetti casuali. Chiaramente, la manipolazione delle identità infelici è una maniera di deviare verso degli oggetti sbagliati le energie che potrebbero essere utilizzate in altro modo, nelle vere lotte di liberazione. L’ampiezza degli sforzi dissipati in queste storie è piuttosto interessante, ma alla fine, l’identità, ammessa la sua esistenza, non potrebbe comunque essere stabile. A darmi l’identità è l’altro, nel momento dell’incontro con lui. A essere importante non sono né la nascita né le origini: è il cammino, gli incontri che si fanno lungo quel cammino e quello che si fa”.
La “manipolazione delle identità infelici” è effettivamente un essenziale strumento di governo. Ma il discorso di Mbembé si lascia qui trascinare dalla verve polemica e, nella giusta sottolineatura del carattere narrativo e mobile della identità individuale[9], va oltre affermando che nascita ed origini non siano importanti. O meglio, che lo sono, ma sono rese importanti proprio da quel che si apprende, da quel che si incontra (in particolare nei primissimi anni), da quel che si fa.
C’è un’altra obiezione che vorrei però avanzare a questo discorso semplificato, i cui intenti e bersagli polemici peraltro capisco e in ultima analisi anche condivido: molta parte del pensiero liberale, dal quale Mbembé mi pare debitore, attacca proprio il desiderio di omogeneità culturale per indebolire la base di consenso dello stato sociale. Per costruire uno stato che si prenda cura dei cittadini e non ne affidi interamente la socializzazione al solo mercato è indispensabile, sul piano pratico e ideale, che ci sia una qualche stabilità e reciproco riconoscimento. È necessaria una solidarietà concreta, fondata sul sentire se stesso presso l’altro (Hegel) e capace di fondare un patto sincronico ed uno diacronico. Infatti, banalmente, i servizi che vengono forniti a chi ne ha bisogno devono essere coperti tassando chi può sostenerli, e questa necessità deve coprire servizi come un sistema di istruzione universale e sostanzialmente gratuito, il diritto alla salute, infrastrutture diffuse e adeguate, il diritto alla casa, il sostegno al reddito per chi è indigente o a perso il lavoro, e via dicendo. Uno stato liberale può immaginare di limitarsi a polizia, esercito, giudici, infrastrutture di base), ma uno stato socialdemocratico (per non dire di uno socialista) deve mettere in campo forme di solidarietà tra l’attuale generazione e verso le successive di molto più esigenti.
Questa solidarietà presuppone quindi un riconoscimento reciproco che è eroico presumere in “popolazioni nomadi e meticcie”, che continuamente si muovono, saltando come le api di fiore in fiore. Un simile comportamento nel mondo reale lascia semplicemente i fiori senza nessuno che li curi e finisce per essiccarli (esattamente come sta facendo il neoliberalismo, che, infatti, è universalmente per tutte le libertà di movimento possibili).
Lo scopo di questo discorso di Mbembé, comunque, al netto delle vaghezze (come “l’imperativo di redistribuzione egualitaria delle risorse dell’universo”) è di allargare gli orizzonti per creare nuovo senso, “arricchire la lingua e ‘risimbolizzare’ l’universo in modo che favorisca la condivisione invece che la separazione”[10].
In questi termini non si riesce ad essere contrari, la vecchia scuola dei gesuiti, probabilmente.
Ma veniamo ora, dopo aver introdotto il quadro di pensiero nel quale si muove, con differenze anche rilevanti, la sua posizione, all’intervista a Felwine Sarr, pubblicata da L’Interferenza.
In “Afrotopia” Sarr sottolinea in modo molto opportuno ed interessante (in qualche modo attenuando il discorso di intonazione cosmopolita cattolica di Mbembé) che il vasto continente africano comunque produce, per sua propria dinamica, dei “modelli di sviluppo” e forme istituzionali e culturali diversi da quelli propri dell’occidente (che sono stati incuneati con il colonialismo e confermati nella fase post-coloniale). Ci sono, infatti, tre dimensioni disturbate dalla alterità africana ed indicate da Sarr: lo Stato nazionale come modello politico[11], i progetti di sviluppo economico, l’obiettivo di entrare nella ‘modernità’ sociale.
In Africa come altrove, però, “le società sono creative” e producono quindi soluzioni che non rientrano necessariamente in questo schema; hanno modi di occupare le frontiere che non rientrano nei confini astratti imposti dal colonialismo[12].
Per come si esprime Sarr: “Le società producono una dimensione economica articolata con una dimensione relazionale, con elementi della propria cultura e del proprio ambiente. L’economia è fondamentalmente antropologica”. Oppure, come diceva Polanyi, le economie sono “incorporate” nella società.
Ne consegue che anche se l’economia capitalista impone delle forme, in queste la “gente” africana alla fine semplicemente “non si ritrova”. Cioè non trova se stessa (cosa che presume l’esistenza di una identità africana[13]) “perché sono state concepite non per loro ma contro di loro, in un rapporto globale del tutto squilibrato”. Di fronte a questa forma di violenza, di ineguaglianza, si determina così una creatività economica in quella che talvolta viene nominata (da noi) come “economia informale”. Cioè “un’economia socio-popolare fondata su culture e realtà specifiche”.
Dunque:
“Invece di cercare di comprenderla la si definisce negativamente rispetto a un’economia che sarebbe al contrario formale, e l’unica cosa che si vorrebbe fare è appunto formalizzarla. Il continente esprime stili di vita, forme economiche e relazioni sociali alternative rispetto all’economia dominante, il problema è che i nostri ricercatori non investono su tutto questo per capirlo, teorizzarlo, per comprendere se e dove questi modelli hanno un potere d’irradiazione, se sono forti o deboli, cosa si può sistematizzare, cosa si può replicare, cosa si può aumentare di scala. Siamo sempre all’interno di un’economia della mancanza, non si guarda quello che abbiamo e su cui possiamo costruire ma solo quello che gli altri hanno e che noi dovremmo avere. È un problema di sguardo”.
Una “economia della mancanza”, dunque.
A questo punto Felwine Sarr prende una direzione diversa da quella di Samir Amin, che criticava decisamente la percezione dell’Africa come ‘attardata’[14], ma proponeva comunque di incamminarsi nella direzione dello sviluppo industriale autonomo e completo, anche per ragioni di potenza (ovvero di autodifesa), per avvicinarsi piuttosto alle posizioni di Serge Latouche[15]. Sostiene:
“il punto è che questo modello comunque crollerà, non è perenne né sostenibile. Crollerà in ogni caso, non foss’altro per una questione ecologica. Siamo nella situazione di chi si trova davanti al precipizio e invece di fermarsi accelera. Molti economisti seri hanno iniziato a riflettere sull’economia postcapitalista, sanno che arriverà il giorno in cui bisognerà cambiare direzione, e che non sarà tra molto, e si chiedono su quale fondamento le società umane potranno creare valore secondo i loro bisogni quando non ci sarà più tutto quello su cui si basa l’economia attuale. Questo sistema finirà perché non è caduto dal cielo, non è sempre stato così, ha una storia: è nato e morirà.”
L’elemento fattuale di questa posizione è che la crisi ambientale ed il sovrasfruttamento che l’economia compulsiva del capitalismo indurrà ad un esaurimento prossimo delle risorse. Se tutto il mondo, e l’Africa in particolare, imitasse, come si avvia a fare l’Asia, il modello di relazione con la natura dell’occidente il pianeta sarebbe incapace di sostenere lo stress. O come dice: “La grande questione è sull’ordine di misura temporale: se si guarda ai prossimi venti, trenta o anche quarant’anni tutto può sembrare ancora accettabile, ma se si guarda alla stabilità del sistema è chiaro che più avanti collasserà. La crisi è nel sistema e noi ci comportiamo come se non ci fosse”.
Ciò significa evadere dall’immaginario della crescita infinita come criterio assoluto. E significa pensare alla possibilità di “condividere una crescita senza prosperità”, ovvero non avere sempre di più, ma avere meglio. Più socialità e collaborazione, desideri più appropriati alle necessità e allo stato del pianeta.
Dunque i paesi del sud del mondo non devono cercare di ripetere la storia occidentale, ma cercare di imparare da questa. Elaborare forme di società, di industria, di produzione e di consumo che siano molto più “ecoresponsabili” ed intelligenti. Ma anche forme politiche, nell’ultima parte dell’intervista, che siano adatte alle tradizioni africane, nelle quali una certa organizzazione per elezioni e rappresentanza funziona male. Ci sono forme di partecipazione di gruppo, di equilibrio di poteri e di inclusività che fanno parte della tradizione africana e che andrebbero, per Sarr, valorizzate.
Quindi:
“Si è mancato di immaginazione all’indomani delle indipendenze quando si è voluto replicare delle forme istituzionali prodotte altrove, da un’altra storia, senza tenere conto delle produzioni endogene. Hai ragione nel dire che il potere legittimo, quello che rappresenta le persone, non si trova nelle istituzioni come le abbiamo costruite: le persone hanno affiliazioni religiose, etniche, consuetudinarie, che sono molto più importanti del singolo deputato. Non si può mettere da parte questa realtà. In Africa esistono società fortemente gerarchiche ma anche fortemente egualitarie. Quando si fa un sondaggio e si domanda agli africani se vogliono la democrazia rispondono di sì, e capiscono bene cosa significa: partecipare al modo in cui la vita è organizzata è per noi un’aspirazione fondamentale. Quello che non funziona è la democrazia elettoralista: le elezioni in Africa costano molto denaro, tensione politica, vite umane, e il sistema messo in atto non sono sicuro che rifletta quello che vuole la gente. È un grosso problema”.
Qui si innesta la questione degli africani che lasciano il continente per cercare di costruire in Europa (o nel resto dell’occidente) una diversa prospettiva alla loro vita. Sarr, che non omette di ricordare che questi sono una piccola minoranza, circa il 4% di quelli che si spostano dal loro paese, e che sono mediamente quelli meno poveri, afferma che il punto è “cambiare immaginario”. Superare quell’immaginario “mimetico, ostruito, abitato da altri” (ovvero da noi) di una “intera generazione che contempla come unica via di salvezza il fatto di sbarcare sulla terra occidentale e vivere una vita all’occidentale”.
Perché questo succede? Evidentemente perché la vita offerta in Africa è “povera”, manca di futuro. Non è povera perché manca di occidente, ma perché quel che occidente non è resta schiacciato, oscurato, ‘stuprato’ (Aminata Traorè).
E questa vita offerta in Africa è oscurata anche nella sua espressione fisica e territoriale, nelle città africane, che stanno crescendo a ritmi velocissimi, ma per addensamento, senza progetto e dove c’è sulla base di idee di città occidentali. Ma l’idea di città è necessariamente e strettamente connessa con la società e l’economia che esprime. E’ sempre in rapporto con il modo di concepire spazio e tempo, di muoversi, di incontrarsi. Le città africane dovrebbero essere quindi in rapporto con le condizioni materiali e con le abitudini di una popolazione che sta molto all’aperto, che cammina, che si incontra ed è più conviviale. Servono città nelle quali il progetto di suolo sia diverso da quello di strutture fatte per individui e famiglie che si chiudono ognuna nel suo privato e che si spostano ad orari comuni con mezzi veloci individuali. Città con pochi spazi pubblici e pochi luoghi aperti.
Si tratterebbe, insomma, con il linguaggio di Lefebvre, di rivendicare da parte del popolo africano, in primo luogo nelle loro, il “diritto alla città”[16].
La questione, dal punto di vista descritto, non si definisce partendo dall’arresto dell’emigrazione, data la ridotta dimensione del fenomeno[17] e considerato che “la mobilità è un diritto fondamentale dell’essere umano”[18], ma, al contrario, partendo dall’offerta da parte dei governi africani di condizioni di vita “degne” sul territorio. Condizioni che non costringano la gioventù ad emigrare.
Il punto chiave di questo argomento è che muoversi, perché sia un diritto, deve essere scelto. E dunque non deve essere una costrizione, perché non lo diventi è necessario che ci sia effettivamente, e sia riconosciuta, la possibilità di crescere, di realizzarsi, di investire sul proprio futuro e di seminare nel proprio continente. Vite “decenti”, dunque.
Ma qui si pone, ad un livello ulteriore, un’altra domanda correttamente posta dall’intervistatore: pensare che la vita tradizionale in Africa sia “non degna” non è la proiezione di un immaginario occidentale, dunque una deformazione dello sguardo?[19] Sarr risponde che è assolutamente così. L’occidente importa in Africa la “quantofrenia”[20], e ciò determina “una visione invertita dell’uomo”.
Si finisce per migrare, spendendo migliaia di dollari, perché si vuole raggiungere uno status simile a quello occidentale, si vuole una casa nei quartieri buoni delle città, nelle parti occidentali, appunto. E per ottenerlo si pensa di investire una decina di anni come emigrato, perché sembra più facile[21]. Con le sue stesse parole:
“Quelli che partono non sono i più poveri, per partire bisogna avere i mezzi, migliaia di dollari. I veri poveri non possono pagarsi la traversata. Per molte di queste persone migrare non è una questione vitale, sono ambizioni di realizzazione sociale, di status, per esempio sperano di costruirsi una casa e pensano che sia più facile riuscirci passando dieci anni in Europa. È come una scorciatoia”.
Poi ci sono quelli che cercano un senso. Che vogliono fare della propria vita una sorta di avventura, superare ostacoli.
“Ma c’è anche dell’altro, c’è il fatto di volere fare della propria vita un’avventura, un cammino iniziatico, di andare alla conquista di qualcosa, darsi un senso che va anche al di là del semplice guadagno: mettere la propria vita in pericolo è riuscire in qualcosa di arduo, fare della propria vita una storia”.
Non sono tutti in fuga dalla guerra, anzi lo sono solo in minima parte, ma anche questi sono effetto di una destrutturazione profonda che spesso origina dai rapporti che l’occidente istituisce. L’esempio fatto è del bombardamento della Libia da parte della Francia.
La linea di argomentazione del camerunense Mbembe[22] e in misura diversa e minore del senegalese Felwine Sarr si discosta in modo frontale da quella di attivisti come Kemi Seba[23] o Mohamed Konare[24] i quali sostengono invece una posizione nazionalista in chiave “panafricana”[25] e quindi considerano con ostilità l’emigrazione in occidente. Kemi Seba, ad esempio, propone l’abolizione del Franco Cfa e la re-immigrazione allo scopo di combattere per la liberazione del continente.
Guardare queste posizioni da una chiave destra/sinistra può essere fuorviante, si tratta per lo più di posizioni che si possono inquadrare secondo diverse linee di frattura. Quella tra panafricanesimo, una sorta di nazionalismo a scala continentale, simile a quello proprio dell’Unione Europea, e cosmopolitismo alla Mbembé (comunque intrecciato con un discorso di liberazione neocoloniale piuttosto profondo). Felwine Sarr aggiunge una robusta dose di decrescita, ed una attenzione non banale all’autonomia culturale ed alla ‘decolonizzazione dell’immaginario’. Nello sviluppare questa attenzione risalta una versione di discorso identitario in chiave di ri-creazione sulla base delle pressioni della modernità.
Elementi comuni a tutte le posizioni sono quindi il rifiuto di schiacciare il continente africano su modelli esterni, con maggiore o minore attitudine all’ibridazione (massima in Mbembé e minima in Kemi Seba) e con maggiore o minore carica di violenza (all’opposto).
Rispetto al tragico tema dell’emigrazione, le cui radici sono esplorate da Felwine Sarr in modo interessante, si va dal rallentamento determinato più dall’interno che dall’esterno in questi, al netto rifiuto in Kemi Seba.
La dimensione geopolitica, sulla quale rifletteva Samir Amin, qui non sembra presente. Sarebbe necessario svilupparla.
[1] – Autore di “Murambi, il libro delle ossa”, sulla tragedia del Ruwanda.
[2] – Di cui si può ricordare “Necropolitica”, del 2016, “Emergere dalla lunga notte”, 2018, “Postcolonialismo”, 2005. Achille Mbembe è uno storico e filosofo nato in Camerun nel 1957, cresciuto in ambiente cattolico, e trasferitosi in Francia nel 1982 a venticinque anni. Ottiene un dottorato alla Sorbona ed un diploma di Scienze Politiche, quindi alla fine degli anni ottanta, nel clima entusiasta per la caduta del mondo sovietico e la incipiente mondializzazione, si trasferisce negli Stati Uniti per insegnare alla Columbia University e poi per lavorare per il famoso Brooking Institute di Washington, uno dei centri più importanti e storici della egemonia americana sul mondo, nel quale per fare un esempio è ricercatore senior William Easterly, di cui abbiamo letto “La tirannia degli esperti”, un vero manifesto neoliberale. Dopo l’esperienza al Brooking Mbembe va alla Univerity of Pennsylvania e resta in contatto con Berkeley, Yale, Boston, Chicago, Harvard. Non si tratta certamente di un outsider. Tornato in Africa a dirigere il CODESRIA, viene impegnato in forti polemiche con l’ambiente degli afro-radicali nativisti (la linea di Sankara, per capirci). La sua versione complessa del cosmopolitismo, verso il quale inclina, è imperniata sull’emergere di una sorta di modernità “afropolitana” di tipo cosmopolita. Per inquadrare più in generale gli studi (post) coloniali e la loro relazione con il post-modernismo si veda qui.
[3] – Una organizzazione della quale fanno parte anche personalità certamente non radicali, anzi piuttosto ben inserite nell’establishment internazionale come l’economista ex Banca Mondiale, Celestine Monga, il filosofo Mve-Ondo Bonaventure, lo scrittore Simon Njami, la giornalista Pulvar Audrey, ed altre più radicali come lo scrittore Jean-Luc Raharimanana e molti altri.
[4] – Riferimento strategico sul quale avanzo riserva. La storia non ha alcuna direzione, se ne ha una questa è incerta, mobile, soggetta all’esito della lotta e dello scontro tra principi di ordine e dominazioni. Dunque la storia è quella che noi, qui ed ora, facciamo.
[5] – Una tesi che è in qualche modo sostenuta su L’interferenza da Fabrizio Marchi in “La variante di (ultra) destra del sistema capitalista”.
[6] – Un concetto che può somigliare con quanto espresso a caldo da Malcom X alla morte di John Kennedy.
[7] – In senso storico questa frase è piuttosto strana, in quanto il racconto standard della nascita della modernità liberale individua il momento della nascita nella mossa esattamente contraria. Nel neutralizzare le radici, le credenze forti e le appartenenze, tramite l’invenzione della distinzione tra sfera privata (nella quale confinarle) e sfera pubblica (nella quale operare nella forma del contratto sociale).
[8] – O, come avevo scritto in “Aquarius” produrre delle diversioni.
[9] – Una linea di argomentazione splendidamente portata avanti da Charles Taylor lungo un percorso pluridecennale. Cfr., ad esempio, “La topografia morale del sé”.
[10] – Citato in questo contesto il Franz Fanon di “Pelle nera, maschere bianche”.
[11] – In “Xenofobia in Sudafrica”, Mbembe chiude dicendo che “Nessun africano è uno straniero in Africa. Nessun africano è un migrante in Africa. L’Africa è il luogo al quale noi tutti apparteniamo, nonostante la follia dei nostri confini. Nessun nazional-sciovinismo potrà cancellare questa cosa. Nessuna espulsione potrà farlo. Anziché spargere sangue nero sulla strada che porta il nome di Pixley ka Seme (!), dovremmo fare di tutto per ricostruire questo continente e porre fine a una storia lunga e dolorosa che, per troppo tempo, ha fatto sì che essere neri – in ogni luogo e in ogni epoca – fosse una colpa”.
[12] – Questa è, detto per inciso, una delle differenze importanti tra la sensibilità di Mbembe e Sarr e quella nostra. Senza assolutamente indicare gerarchie, ci sono differenze. Mentre le frontiere del colonialismo, imposte in Africa da francesi ed inglesi in particolare, sono arbitrarie, quelle che individuano i paesi europei sono molto più solide, al di là di quelle segnate da grandi barriere geografiche (come le Alpi, i Pirenei o il Reno), sono state per secoli oggetto di contesa, ed hanno una loro storica e sociale forza.
[13] – E, per necessario contrasto, di una identità europea.
[14] – Samir Amin parte da una formazione marxista, e di geografo dello sviluppo, sia pure eterodosso, e mette instancabilmente in evidenza come lo sviluppo economico non è mai un processo lineare nel corso del quale si realizza l’allocazione ottimale delle risorse, ma un processo discontinuo e sempre squilibrante, nel quale si producono diseguaglianze e asimmetrie di potere. Già nel suo primo libro del 1973, “Lo sviluppo ineguale”, Amin inquadra i limiti dello sforzo riformista delle scienze regionali sottolineando che non si tratta di “ritardo” di sviluppo, ma di dominazione. Seguendo la scuola di Perroux, Amin sottolinea come lo spazio sia il risultato di una tensione di forze capaci di determinare attrazioni e repulsioni e quindi “poli di crescita” nei quali si addensano attori economici, capitali, strutture produttive, dominando e costringendo altri attori, altri capitali ed altre strutture in una posizione subalterna in quella che in economia si chiama “catena del valore”. Questo è il meccanismo di base utilizzato per spiegare lo ‘sviluppo ineguale’ che affligge il sud del mondo. Si genera, insomma, una ‘causazione circolare cumulativa’ (Hisrchmann, Gunnar Myrdal) e la ‘teoria della polarizzazione’. Questa linea di ricerca viene ripresa da Immanuel Wallerstein e Giovanni Arrighi. La critica di Amin, in questo pienamente marxista, è che il calcolo economico incorporato nel capitalismo è “irrazionale dal punto di vista sociale”, in quanto resiste alla necessità che il livello di sviluppo delle forze produttive (enormemente elevato) sia posto a servizio dell’intera società. Si colloca a questo livello della critica la questione dello sperpero delle risorse umane, delle ricchezze naturali, e del futuro: si colloca, insomma, la questione ambientale. Un diverso calcolo economico deve quindi prendere ad orizzonte il tempo lungo, deve ricercare sistematicamente le soluzioni che riducono al minimo il tempo di lavoro socialmente necessario ed essere orientato alla produzione utile per i bisogni della società. Il fine del sistema non deve essere più la massimizzazione del plusvalore, ma del prodotto effettivamente utile e tale da conservare le risorse sociali e naturali (SI, p.67). Venticinque anni dopo, in “Oltre la mondializzazione”, Amin sosterrà ancora che l’obiettivo deve essere di “irregimentare il mercato e metterlo al servizio di una riproduzione sociale che assicuri il massimo progresso sociale” (OM, p. 238). E che per farlo, nelle condizioni date, è necessario lavorare per una nuova regionalizzazione sul piano di indipendenza e parziale disconnessione. Di giungere ad avere, insomma, un mondo nel quale non ci sia una sola potenza egemone (ed i suoi capitali ed aziende libere di muoversi predando ovunque) ma una quindicina di regioni organizzate attorno a poteri egemonici su scala locale forti abbastanza da promuovere e difendere al loro interno efficaci compromessi sociali e stabilità. Per ottenere questo è necessario un “fronte nazionale, popolare e democratico” che avvii un processo fondato sulla autodeterminazione su tre arene: la subordinazione dei lavoratori, lo scontro tra la logica del calcolo economico a breve termine a servizio dei pochi e l’interesse sociale e politico dei molti, il contrasto strategico tra centri e periferie. Seguirà nel 2006 “Per un mondo multipolare”, e “La crisi”, del 2009 nel quale tra l’altro torna su una netta e decisa differenza tra ‘internazionalismo’ e ‘cosmopolitismo’.
[15] – Il quale, ad esempio, in “Altri mondi, altre menti”, nello sforzo di modellizzare quella che chiama “società vernacolare”, o informale, inquadra l’oikonomia neoclanica (in opposizione alla crematistica, recuperando il linguaggio aristotelico) che è soddisfazione di bisogni senza ‘traffici’ ma appoggiandosi a strutture sociali delle reciprocità molto forti. Si determina una sorta di economico reincorporato nel sociale (l’esempio viene da una grande città di sradicamento come Dakar, nella quale le relazioni tradizionali, immerse e invisibili ma operanti nei villaggi tradizionali sono reinventate). L’economia è “reincoporata” nel senso di Polanyi (cit, p. 72) e spesso lo è anche in città “informali”, ai margini degli Stati-nazione, che nelle periferie funzionano male, per ‘naufraghi dello sviluppo’. Si veda anche, ”Il pianeta dei naufraghi”, e “L’altra Africa”.
[16] – Si veda Henri Lefebvre, “Il diritto alla città”, 1968, e Henri Lefebvre, “Spazio e politica”, 1972.
[17] – Il citato 4% di chi si muove (che però sconta i grandi numeri del continente).
[18] – Tuttavia il controllo del proprio ambiente, e quindi delle proprie frontiere, è un diritto di autodeterminazione di ogni comunità politica.
[19] – Un tema che avevo posto, a partire dagli effetti di corruzione, insieme individuali e sociali, del microcredito insieme alla dinamica delle rimesse connesse con l’emigrazione, in questo post.
[20] – Tendenza a tradurre ogni aspetto della vita e della realtà in termini quantitativi.
[21] -Si veda anche “Migranti o Espulsi?” di Fabrizio Marchi.
[22] – Si veda anche questo inquadramento.
[23] – Kemi Seba è un attivista ed antimperialista originario del Senegal (anche se è nato a Strasburgo) attivo dall’età di quindici anni con la Nation of Islam (l’ex organizzazione, guidata da Elijah Muhammad, dalla quale si separò Malcom X) e nelNew Black Panthers Party, istituita a Dallas nel 1989 da Khalid Abdul Muhammad, ex leader, poi defenestrato da Louis Farrakhan (il responsabile morale, per sua ammissione, se non mandante dell’omicidio di Malcom) della stessa Nation of Islam.
[24] – Mohamed Konare è il leader del movimento panafricanista in Italia.
[25] – La prospettiva degli Stati Uniti d’Africa, promossa da W.E.B. Dubois all’inizio del secolo scorso e poi portata avanti durante gli anni sessanta, attraverso numerosi congressi, da Kwame Nkrumah del Ghana, fu osteggiata e si arenò nello scontro tra le posizioni radicali del Gruppo di Casablanca e quelle di leader ‘conservatori’ gelosi della loro raggiunta indipendenza e delle relazioni ‘speciali’ con i paesi ex colonizzatori. Si finisce nel 1963 per ripiegare sulla Organizzazione dell’Unità Africana, fondata ad Adis Abeba con 31 stati africani. Si impegno nel panafricanismo, fino alla data della morte il Presidente del Burkina Faso Thomas Sankara. Nel 2000, dopo due congressi nel 1974 e nel 1994, fu creata l’Unione Africana, con sede ad Addis Abeba, che dal 2002 ha lo status di Osservatore all’Assemblea generale dell’ONU. Si tratta di una giovane organizzazione, ancora piuttosto debole ma ambiziosa, disegnata per certi versi sul modello dell’Unione Europea.
Fonte: https://tempofertile.blogspot.com/2018/10/felwine-sarr-e-mbambe-postcolonialismi.html
Commenti recenti