L’epoca delle ideologie non è finita col crollo dell’Unione Sovietica e con la sconfitta dei fascismi; sembra infatti essere in corso una nuova battaglia, ideologica, politica e culturale, tra due nuove visioni del mondo, il cui esito determinerà non solo il futuro dell’Occidente, ma delle stesse relazioni internazionali: si tratta dello scontro tra sovranisti e globalisti.

Il sovranismo è un’ideologia mirante alla ricostruzione della legittimità e del potere dei decadenti stati nazionali, ridotti a degli attori marginali nello scacchiere internazionale dall’emergere delle grandi corporazioni multinazionali, dei gruppi finanziari, delle organizzazioni internazionali e non governative, mentre il globalismo rappresenta una degenerazione dell’internazionalismo e del cosmopolitismo liberale otto-novecentesco, avente come obiettivo la costruzione di un nuovo ordine mondiale guidato dai mercati, dalla globalizzazione e dalle strutture anazionali e sovranazionali. Il fronte sovranista è rappresentato essenzialmente dai cosiddetti partiti del populismo di destra e di sinistra, sebbene in realtà non si tratti di un blocco monolitico come sovente dipinto, mentre quello globalista è guidato dai grandi e piccoli, vecchi e nuovi partiti di ispirazione progressista, centrista e liberaldemocratica.

In realtà, sovranismo e globalismo sono due facce della stessa medaglia, due cavalli di battaglia magistralmente utilizzati per mascherare la vera natura di questo conflitto: un gigantesco conflitto geopolitico che vede da una parte coinvolti gli Stati Uniti e dall’altra tutti gli ostacoli per l’egemonia americana nel nuovo millennio – Cina, Russia e l’asse francotedesco in primis. La vittoria di Trump non ha segnato l’inizio del crollo della globalizzazione liberale, del progressismo e del marxismo culturale, sebbene così sia stata (e sia ancora) pubblicizzata e propagandata dalle destre populiste di tutto l’Occidente, ma semplicemente il ritorno in scena (ben mascherato) del mai defunto “Progetto per un nuovo secolo americano”.

Per i non addetti ai lavori, si tratta di un ambizioso progetto disegnato negli anni ’90 da un prestigioso think tank formato, tra gli altri, da Robert Kagan, John Bolton (l’attuale consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Trump), Dick Cheney, ed altri influenti analisti, strateghi e pensatori di formazione reaganiana, wilsoniana e neoconservatrice. L’obiettivo era il rafforzamento della presenza statunitense nel mondo in aree tradizionalmente instabili e sfuggevoli, come il mondo arabo-islamico e l’Asia orientale, ma vitali ai fini dell’egemonia sul cuore della terra tanto caro a sir Halford Mackinder e Zbigniew Brzezinski.

Gli insuccessi dell’amministrazione Obama e della gestione Dem degli affari statunitensi nel mondo – Europa, Cina e Medio Oriente su tutti – hanno dato nuova linfa vitale all’ala messianica ed eccezionalista dello Stato profondo, rendendo possibile la proliferazione di sentimenti reazionari in Occidente, ostili alla visione del mondo sorretta dai liberal americani e quindi potenzialmente sfruttabili.

In Europa, i populisti di destra hanno semplicemente sfruttato le gravi mancanze in termini di leadership e capacità di gestione dei problemi dei partiti centristi e di sinistra, rompendo un’egemonia politico-culturale più che decennale, vedendo nella recessione economica, nella crisi dei rifugiati, nei mali della modernità e nello spaventapasseri dell’islamizzazione gli eventi ideali con i quali catalizzare i consensi di un’opinione pubblica stanca, demoralizzata e sfiduciata. Un’Europa egemonizzata dai populisti di destra sarà (forse) liberata dalla morsa della dittatura burocratica di Bruxelles imposta dall’asse francotedesco, ma di certo cadrà completamente tra le braccia degli Stati Uniti, più intenzionati che mai a recuperare il declino di potere nel mondo sperimentato dal dopo-Bush Jr.

La caduta di Saddam Hussein era stata promossa con forza dagli ideologi del nuovo secolo americano, i quali formarono un importante gruppo di pressione durante l’epoca Bush Jr, nella speranza di giungere a dei cambi di regime anche in Siria, Libia e Iran.

Non è un caso che, per quanto il sovranismo si erga a protettore dell’interesse e della sovranità nazionali, sia strenuo difensore della nuova linea di politica estera statunitense costruita sulla paura gialla, l’euroscetticismo, l’iranofobia, e l’immancabile appoggio ad Israele.

No, Trump e Putin non sono segretamente alleati, e Trump non sta combattendo contro alcuno Stato profondo, sta semplicemente realizzando, in maniera egregia e fulminea, i sogni dei neocon di dar luogo ad un’egemonia statunitense duratura e realmente proiettata globalmente. Le simpatie filorusse seguono uno scopo preciso: allontanare Mosca da Pechino, evitando la caduta della Russia nell’orbita dell’emergente superpotenza cinese.

Il vero obiettivo degli Stati Uniti, oggi e nel prossimo futuro, sarà infatti il contenimento di Pechino, le cui ambizioni egemoniche planetarie si sono oramai manifestate con il lancio della cosiddetta Nuova via della seta. Se questo ambizioso progetto infrastrutturale e geostrategico dovesse realizzarsi, la Cina avrebbe il dominio economico (e quindi politico) su quasi l’intera Eurasia e parte dell’Africa.

Alcuni eventi, a questo proposito, sono molto emblematici e non hanno bisogno di ulteriori spiegazioni: la chiamata presidenziale di Trump diretta all’omologo taiwanese e il dietrofront sulla politica kissingeriana della “una sola Cina”, le dichiarazioni del ministro dell’interno italiano Matteo Salvini sul pericolo cinese, la diffusione in sede europea di report allarmanti sui rischi della nuova via della seta per l’indipendenza economica dell’Ue, e la generale diffidenza dei populisti europei verso l’espansionismo cinese.

No, l’ondata populista non è una rivolta di popolo contro l’élite, come dichiarato dall’ideologo della nuova destra americana Steve Bannon, una delle eminenze grigie che suggeriscono Trump, ma l’ennesimo tentativo statunitense di impedire la rinascita di un’Europa forte e indipendente. Ma la colpa di tutto ciò non è imputabile solamente agli Stati Uniti: sono stati gli statisti europei, miopi e carenti di ogni qualità necessaria per svolgere funzioni di guida, a creare il terreno fertile per il tramonto del sogno europeo, alimentando il relativismo culturale e la distruzione delle identità locali e nazionali, ponendo interessi lobbistici al di sopra di quelli popolari e preferendo gli egoismi nazionali al solidarismo comunitario.

Steve Bannon

Oggi l’Europa è spaccata a metà: mentre le forze laiche, liberali ed europeiste perdono terreno giorno dopo giorno, anche nelle loro storiche roccaforti, nuovi e vecchi partiti e movimenti euroscettici e conservatori avanzano e si organizzano in vista delle elezioni parlamentari europee di maggio, che si prospettano essere un banco di prova per saggiare l’efficacia della strategia americana per il Vecchio continente. Ma lo scontro sovranisti-globalisti diretto dagli Stati Uniti non sta plasmando solo l’Europa in chiave antirussa e anticinese, perché la finta rivoluzione popolare sta dilaniando anche l’America Latinacortile di casa di Washington per antonomasia sin dall’epoca della dottrina Monroe.

Ogni tentativo rivoluzionario nel subcontinente è stato storicamente represso nel sangue, attraverso l’instaurazione di dittature militari favorevoli agli interessi statunitensi sin dalla fine del 1800, ma l’ascesa della cosiddetta nuova sinistra bolivariana a partire dagli anni ’90 aveva temporaneamente bloccato i piani egemonici di Washington nell’area.

Oggi, la situazione è radicalmente cambiata, merito di una strategia georeligiosa estremamente lungimirante, mirante alla protestantizzazione dei latinoamericani e all’utilizzo di questa nuova ed imponente massa popolare per fini politici e culturali. Nicaragua, Honduras, Costarica, El Salvador, Messico, Brasile: le roccaforti del cattolicesimo ispanoamericano si sono rapidamente trasformate in bastioni dell’evangelicalismo più settario e fondamentalista, erodendo la carica d’attrazione esercitata dalla nuova sinistra e dal cattolicesimo.

Molte sono le caratteristiche che accomunano le decine di denominazioni di ispirazione evangelica che dominano il nuovo scenario religioso latinoamericano: il monopolio dell’informazione attraverso l’acquisto di media tradizionali e nuovi, il sionismo cristiano (e quindi l’abbandono del tradizionale solidarismo latino verso la causa palestinese e il terzomondismo), la convinzione che gli Stati Uniti siano il punto di riferimento morale della civiltà occidentale, il feroce anticattolicesimo, l’anticomunismo.

Benjamin Netanyahu è un grande protagonista della svolta sionista dei populisti di destra e sovranisti europei, oggi i più grandi sostenitori di Israele in sede comunitaria

È proprio attraverso la religione che gli Stati Uniti hanno conquistato l’America Latina, penetrandone l’anima e cambiandola, riuscendo a far emergere una nuova destra, religiosa, conservatrice e filoamericana, voluta dal popolo. Non è un caso che i primi paesi a seguire la decisione di Trump nel riconoscimento di Gerusalemme quale capitale unica di Israele, con il conseguente spostamento dell’ambasciata, siano stati proprio quelli latinoamericani, guidati da amministrazioni giunte al potere con i voti degli evangelici: Guatemala, Honduras, Paraguay. L’ultimo paese ad annunciare il proprio supporto in toto alla linea trumpiana è stato il Brasile di Jair Bolsonaro, alla cui cerimonia d’insediamento presidenziale era presente in veste di ospite d’onore BenJamin Netanyahu, il carismatico primo ministro israeliano co-autore, insieme ai neocon statunitensi, della svolta sionista dei populisti-sovranisti d’Occidente.

Il discorso di Netanyahu al popolo brasiliano è stato largamente ignorato, ma in realtà è altamente significativo, perché prova l’esistenza di un forte legame tra l’evangelicalismo ed il sionismo, confermando la tesi della religione utilizzata a fini politico-culturali. Uno dei passaggi fondamentali è infatti il seguente:

Noi [israeliani] non abbiamo amici migliori al mondo della comunità evangelica, e la comunità evangelica non ha un amico migliore nel mondo dello stato di Israele […] Sapete che il primo nome del presidente Bolsonaro in ebraico è Yair, che è anche il nome di nostro figlio, ma Yair significa qualcosa in ebraico: colui che porta luce. E io credo che oggi abbiamo un’opportunità insieme di portare un po’ di luce al popolo del Brasile e al popolo di Israele. Questa è un’alleanza di fratelli.

Se il populismo europeo è stato alimentato a scopo anti-iraniano, antirusso e anticinese, quello latinoamericano non è stato motivato soltanto da fini anticattolici e filosionisti, ma anche per dare il colpo di grazia a quel che rimane della nuova sinistra, oramai rappresentata da regimi (forse) prossimi alla caduta: Nicaragua e Venezuela.

Jair Bolsonaro è il neopresidente del Brasile e ha promesso l’inizio di una nuova era per il colosso latinoamericano: forte alleanza con Stati Uniti ed Israele, allontanamento dai Brics, scontro con l’asse del male latinoamericano rappresentato da Cuba e Venezuela, annichilimento delle forze di sinistra

Insomma, il sovranismo non è altro che uno strumento utilizzato da Stati Uniti ed Israele per portare avanti una specifica agenda di politica estera mirante al contenimento russo, cinese, iraniano ed europeo, promossa e retta da un’efficace propaganda che vorrebbe far passare questa rivoluzione come una guerra culturale tra buoni (cristiani, conservatori, filosionisti, antiliberali) e cattivi (fedeli a papa Francesco, europeisti, filopalestinesi, liberali). Anche l’accanimento mediatico contro Francesco I e lo scoppio di scandali ad orologeria coinvolgenti il clero vaticano, casualmente provenienti dagli Stati Uniti, sono da inquadrare nel contesto di questo scontro geopolitico, perché l’attuale pontificato è stato sin dalle origini in prima fila nella denuncia del pericolo populista. La rivoluzione sovranista-populista è una truffa e siamo stati tutti ingannati