Vecchi e nuovi repubblicani
di IL TASCABILE (Paolo Mossetti)
Gli Stati Uniti di Trump non sono una mutazione imprevista, ma il risultato di generazioni di cattiva politica.
Quando, nel 1955, il corpo del quattordicenne Emmett Till fu ritrovato in un fiume, maciullato di botte da tre uomini che non gli avevano perdonato di aver rivolto parola ad una donna bianca, la madre decise di esporlo così come lei l’aveva riavuto indietro. Gonfio, sfigurato, senza trucchi cosmetici, in una bara senza coperchio. I milioni di occhi che si posarono su quel corpo, tramite le migliaia di passanti che si fermarono in quella casa di pompe funebri di Chicago, e innumerevoli riviste di cronaca – guardarono in faccia la brutalità del sistema castale americano. Soprattutto presero parte – anche se in quel momento non lo sapevano – a un evento epocale, che avrebbe catalizzato le lotte per i diritti civili per tutto il decennio a venire.
La tradizione politica e letteraria occidentale è punteggiata di cambi di paradigma avvenuti attorno a una salma: basti pensare al Marc’Antonio di Shakespeare, che incitava i romani a vendicare l’assassinio di Cesare, oppure agli antichi greci. Un classico modello per le orazioni funebri ci arriva da Pericle, uomo di stato ateniese, durante la guerra tra la sua città e Sparta. Le ceneri dei soldati morti nel primo anno di conflitto erano collocate in un feretro di legno cosparso di alloro; straziata da una pestilenza, Atene era vestita a lutto, mentre il popolo spargeva incenso per le strade: Pericle fu scelto per convincerlo che altre truppe di volontari erano necessarie. Lo fece con un discorso che restò memorabile: “Il nostro sistema politico non si propone di imitare le leggi di altri popoli: noi non copiamo nessuno, piuttosto siamo noi a costituire un modello per gli altri. Si chiama democrazia, poiché nell’amministrare si qualifica non rispetto ai pochi, ma alla maggioranza”.
John McCain, il senatore repubblicano scomparso due mesi fa per una forma aggressiva di cancro al cervello, aveva un debole per le citazioni di Pericle. Proprio come il capo di stato ateniese, i suoi amici e la sua famiglia hanno pensato di rendergli omaggio, durante una cerimonia pubblica alla National Cathedral di Washington, ricordandone il coraggio e il patriottismo della sua vita pubblica, lui che era diventato un martire nazionale nel 1973 dopo essere riemerso da cinque anni di brutale prigionia in Vietnam – e nemmeno un commilitone tradito nonostante le torture.
Questo pedigree non era bastato a risparmiare all’ex militare uno dei più famigerati colpi bassi della campagna elettorale del 2016. Sì, avrà anche preso botte senza fare mai la spia, aveva spiegato l’allora candidato Donald Trump, ma McCain “non è un eroe di guerra”. È semplicemente considerato tale “perché fu catturato. A me piacciono quelli che non sono stati catturati”. Parole pronunciate davanti una platea di tremila cristiani conservatori che provocarono una vera bufera all’interno del Gop, mentre i commenti razzisti sui messicani avevano provocato reazioni molto più blande. Come ha twittato l’autrice teatrale inglese Lucy Prebble, “è raro per un funerale avere una nemesi”. Eppure questo è quello che è successo nella cerimonia dell’addio a McCain: i figli del senatore scomparso, il discorso di Obama, i Clinton inquadrati che si scambiavano dolcezze con i Bush: tutto sembrava assumere la forma di una frecciata al Grande Assente, al Nemico Numero Uno.
Da un lato c’è l’apoteosi delle tradizioni repubblicane dei conservatori e dei progressisti; dall’altro lo squallore del presente attuale.
Da un lato, dunque, l’apoteosi delle tradizioni repubblicane – quasi eurocentriche nella loro algidità – dei conservatori e dei progressisti per bene; dall’altro, sembrava intravedersi lo squallore del presente, di colui che incarna la corruzione della vita pubblica americana: il presidente bancarottiero e renitente alla leva, mai stato in guerra, che mai ha imbracciato un fucile. All’opposto, McCain: un galantuomo che, nel 2008, mentre correva per la Casa Bianca, aveva messo a tacere un’anziana signora che dal pubblico gli chiedeva delle presunte origini arabe di Obama. Ovvio che il suo commiato diventasse, per innumerevoli opinionisti, l’occasione per un triste confronto tra due mondi.
Ma parlando di McCain parliamo pur sempre di un ex militare che per bombardare Hanoi, in una guerra persa disastrosamente, era partito volontario; che era tornato a casa sì fortemente menomato, ma che aveva iniziato la sua carriera politica anche grazie un matrimonio con una ereditiera milionaria. Un feroce anticomunista che ancora nel 2010 chiedeva di completare “quel dannato muro”, riferendosi ovviamente al Wall col Messico, che Trump oggi vuole costruire anche a costo di tenere in ostaggio l’intera Capitol Hill. Si capiva durante quel funerale – e si capisce tuttora – il bisogno di ritrovare in politica la civiltà dimenticata. Eppure, non è anche su queste ipocrisie che prosperano i nazional-populisti?
Uno dei commenti più lucidi in questo senso ce lo fornisce Jeet Heer, opinionista di The New Republic, in un lungo thread su Twitter. Heer spiega come questa messa in scena, il contrasto tra il vecchio establishment – incarnato da due opposti apparenti, Bush e Obama – e il nuovo – rappresentato da Trump che durante i funerali gioca a golf – sia una “falsa dicotomia”. Perché, scrive Heer, è “proprio il vecchio establishment ad aver creato Trump”. “Trump non è stato creato da un’immacolata concezione ma è il vero erede di generazioni di cattiva politica, a cominciare dalla southern strategy del Gop che faceva appello ai temi razziali”. Heer si riferisce alla svolta epocale del 1964, quando per la prima volta dalla Guerra Civile tutti gli Stati del Sud Est americano passarono ai Repubblicani, dopo essersi sentiti traditi dai Democratici che avevano allargato i diritti civili ai neri. Ma si pensi, anche, “a tutte le scelte dell’élite che hanno portato a Trump: le bugie della guerra irachena, l’islamofobia normalizzata, l’economia dell’azzardo che ha portato al collasso nel 2008, il fallimento di Obama nel perseguire i banchieri”.
Gli Stati Uniti di Trump non sono una mutazione genetica imprevista, ma il frutto di una classe dirigente che per decenni ha fatto l’occhiolino al razzismo, promosso l’anti-intellettualismo, creduto nei negazionisti climatici. Sembra lontano anni luce il tempo in cui una delle voci più ascoltate della destra era un giornalista come William Buckley, il cui linguaggio, la cui erudizione risultano improponibili oggi, al tempo degli Youtuber dell’alt-right. E c’è anche il discorso sulla corruzione, con la tolleranza delle élite per la spregiudicatezza dei suoi uomini. “Figure come Paul Manafort hanno flirtato con l’illegalità per decenni, e sono state benvenute da persone come Reagan e Dole”, scrive Heer. “Ci sorprende davvero che avrebbero compiuto il passo successivo, e fatto eleggere Trump con l’aiuto di una potenza straniera?”
La politica di “competenti” è un Ancien Régime in via di estinzione, mentre il populismo trae la sua forza dalla continua erosione delle vecchie norme liberali.
Questo sta rischiando di diventare, dunque, il funerale delle democrazie liberali: un evento che vorrebbe essere commovente, coinvolgente ed epocale; l’occasione per sorvegliare un’eredità che rischia di essere cancellata dalla Storia, e rivendicare un patrimonio politico messo a repentaglio dalla rivolta delle destre. In realtà, è un cerimoniale che sta mostrando tutta la debolezza della politica dei “competenti”, di “quelli bravi” delle due coste dell’Atlantico: un Ancien Régime in via di estinzione, proprio mentre il populismo trae la sua forza dalla continua erosione delle vecchie norme liberali.
Susan Glasser, firma del New Yorker, aveva definito la commemorazione del pluridecorato McCain “il più grande raduno della Resistenza fino a questo momento”. Dopo avervi partecipato, scriveva: “Mi sono imbattuta in Jeff Flake, senatore dell’Arizona proprio come McCain, e come McCain uno dei pochi repubblicani di Capitol Hill rimasti che criticano apertamente il presidente. ‘La febbre passerà’, ha detto Flake. ‘Deve passare’. Una cosa stranamente ottimista da dire a un funerale”.
Il problema è che questo lo aveva detto anche Obama, nel 2012 e per tutti gli anni successivi, convinto che l’ascesa del Tea Party si sarebbe esaurita dopo la sua rielezione. E invece la frangia più reazionaria del conservatorismo non solo non è morta ma è diventata addirittura egemonica, prendendosi tutto o quasi il Partito Repubblicano. Secondo il politologo Geoffrey Kabaservice, lo spirito del Tea Party ce l’avrebbe fatta in una maniera non dissimile da quella adoperata dai bolscevichi russi contro il governo provvisorio, nel 1917, vale a dire martellando i moderati ai fianchi, evitando ogni dialogo, con un’energia inesauribile e moltissima disciplina.
Lo scorso agosto The Atlantic aveva pubblicato un articolo in cui l’ex speechwriter di George Bush figlio, David Frum, prendeva di mira la parabola di Dinesh D’Souza, passato dall’essere un rispettato polemista a un complottista pro-Trump fuori di testa, amato da moltissimi repubblicani. “Sono davvero loro a essere cambiati”, si domandava, riferendosi ai nuovi alleati di Trump, “oppure sono cambiato io?” Frum faceva capire non solo di sentirsi a disagio davanti all’involuzione di D’Souza, ma anche di non riconoscere più i suoi colleghi di partito. Una delle risposte più lucide a questo sfogo proviene da Seth Cotlar, un professore di Storia americana alla Willamette University, che ha affrontato la questione posta da Frum in una lunga e articolata discussione su Twitter. Cotlar spiega che, in realtà, è proprio Frum ad essere cambiato, poiché per almeno due decenni il Partito Repubblicano e la sua classe dirigente hanno gettato le basi per una sorta di proto-trumpismo, che si è evoluto oggi nella sua forma più aggressiva, ma anche più autentica.
È la tesi centrale nei Never Trumpers – i conservatori che preferirebbero addirittura un democratico alla Casa Bianca piuttosto che l’imprenditore e star di The Apprentice – a non funzionare: vale a dire l’idea che il conservatorismo oggi non sia altro che una versione imbastardita, volgare, oscena di ciò che era nei bei tempi andati. Per Cotlar, bisogna invece fare qualche passo indietro, ricordarsi cos’è stata davvero la destra americana anni Novanta, un tempo in cui i Never Trumper di oggi avevano tutte le leve del potere in mano ed erano molto più sfacciati. Un tempo in cui un giovane membro del Congresso della Georgia, Newt Gingrich – un novellino politico con un dottorato in Storia – portava il mantello del “leader conservatore dalle grandi idee”.
Il Partito Repubblicano ha gettato le basi per una sorta di proto-trumpismo, che si è evoluto oggi nella sua forma più aggressiva, ma anche più autentica.
Presentava, l’allora speaker del Congresso, astro nascente del partito repubblicano, architetto della trionfale vittoria alle elezioni di Midterm, quel “Contratto con l’America” che prevedeva sussidi pro-natalità in cambio di tagli brutali all’istruzione, repressione poliziesca ovunque, il ritiro delle truppe americane dall’Onu, revisione di tutti i trattati commerciali. Una formula, quella del contratto con il popolo, che avrebbe ispirato più in là anche Silvio Berlusconi in Italia, ma che nel caso di Gingrich era guidata dall’assecondamento delle paure e dei desideri più gretti dell’America, fuori da ogni regime ideologico o criterio scientifico. Seth Cotlar ricorda anche le “lezioni” di Gingrich, in storia, sociologia e scienze politiche indirizzate al Gop e alla nazione, che “suonano come trascrizioni dei comizi di Trump, con la differenza che sono scritte col vocabolario di un liceale piuttosto che di uno delle elementari […], un flusso di coscienza incomprensibile. […] Nessuno che abbia una rudimentale conoscenza di storia americana o di scienze sociali potrebbe prenderlo sul serio”.
Così come non esiste davvero la distinzione tra il rispettabile D’Souza e il D’Souza sciroccato, spiega Cotlar, così non esiste una distinzione tra il Partito Repubblicano degenerato di Trump e quello che abbiamo conosciuto nei decenni precedenti. Anche allora si ritrovavano, nei testi diffusi da alcuni degli intellettuali più in voga a destra fra molti repubblicani di prim’ordine, battute e luoghi comuni grossolani contro le minoranze e la cultura liberale. Anche durante il reaganismo apparvero trovate da cabaret politico che non avrebbero sfigurato nell’epoca della cialtroneria populista: la Curva di Laffer disegnata su un tovagliolo per giustificare la Flat tax; Ollie North, il marine riciclatosi prima in trafficante in Nicaragua, poi in star della tv; James Watt, il direttore dell’Environmental Protection Agency che credeva che non bisognava proteggere l’ambiente perché l’Avvento di Cristo e la fine del mondo erano imminenti. E come non ricordare che Cheney e altri conservatori “seri” avevano sostenuto fino all’ultimo momento l’apartheid in Sudafrica, mentre Reagan era a dir poco tollerante con dittatori come Pinochet? Era già lì l’embrione del trumpismo, e già allora gli intellettuali critici venivano scaricati come sinistrorsi isterici.
Qual è la differenza tra l’American greatness di McCain e il Make America Great Again di Trump, dunque? Sono chiaramente dottrine sorelle, entrambe varianti del nazionalismo. Quella di McCain era, almeno a parole, una che guardava avanti, inclusiva e antirazzista. Come spesso è accaduto le parole di McCain sono state tradite dalle suo scelte politiche: nel 2008 sceglieva come vicepresidente Sarah Palin, una religiosa radicale, un prodotto del Tea Party, una versione in fieri della fanatica trumpiana. Al contrario, il nazionalismo reazionario di Trump e del suo sodale Steve Bannon è alimentato a secchiate di vendetta; gli immigrati servono solo come esche per esacerbare l’odio della folla; la politica estera gli serve solo per placare il risentimento razziale, e la sensazione che il paese più armato e ricco della Terra sia stato fregato per troppi anni. McCain, dunque, non è la stessa cosa di Trump. Ma pochi saprebbero definire in che modo, senza che la spiegazione sembri come una pura questione formale, un occultamento di mostruosi compromessi.
Qual è la differenza tra l’American greatness di McCain e il Make America Great Again di Trump, dunque?
In fondo, lo stesso David Frum rappresentava tutte le ragioni e limiti del vecchio regime: era stato uno degli ideatori della formula “asse del male” che aveva definito la politica post 11 settembre di Bush, ma dopo aver fatto da consulente al senatore McCain, in campagna presidenziale, aveva mollato pur di non delegittimare l’avversario Barack Obama. Frum era stato, nel 2010, uno dei promotori dell’iniziativa No Labels, che nasceva per superare gli opposti estremismi e metteva insieme senatori democratici e repubblicani, il sindaco di New York Mike Bloomberg, professori della liberale Columbia University, altri reduci dell’era clintoniana e bushiana. Tutto ciò che si proponeva quel raggruppamento è fallito: destra e sinistra in Occidente sono sempre più confusi nel dibattito pubblico, ma mai come adesso sembrano lacerati i valori fondamentali, mai come adesso una parte del Paese odia l’altra, mai come adesso sono saltati tutti i codici etici nei dibattiti, il fair play, le mediazioni, i compromessi.
L’elezione inaspettata di Trump ha aperto una crisi generale di legittimità nel vecchio ordine liberale, che in breve tempo è collassato in mezzo occidente, aprendosi su una a vera e propria crisi organica delle democrazie contemporanee. E così ci ritroviamo editoriali anonimi come quello del mese scorso sul Times che fanno esplicitamente riferimento a una guerra intestina, allo “Stato nello Stato”, al pan per focaccia delle character assassination degli avversari, a colpi di insinuazioni, accuse, partigianerie. La crisi nasce dal fatto che non sono più tollerate le finzioni.
Trump è un potere che si palesa in tutta la sua mostruosità, mentre l’opposizione crede di potersi rifugiare dietro antichi rituali e consunti formalismi. Il messaggio del funerale è stato: l’élite che un tempo occupava tutti i ruoli chiave, oggi, all’unanimità, prova disprezzo per il nuovo volto del potere. Il problema è che manca qualsiasi senso di responsabilità per averlo legittimato. Forse, più che analisi stucchevoli su quanto autoritaria e razzista sia diventata la politica contemporanea, sarebbe interessante leggere qualche presa d’atto degli errori che l’hanno portata là dov’è; un racconto che non inquadri questa distruzione delle norme come un cigno nero, come un’invasione aliena, ma come la naturale e inquietante evoluzione di un corpo politico senza bussola.
“Toglimi una curiosità: se le regole che hai seguito ti hanno portato fino a questo punto, a che servivano quelle regole?”, dice Anton Chigurh, il killer psicopatico di Non è un paese per vecchi. Il liberalismo bipartisan vorrebbe far credere che, quando l’ondata populista sarà passata, gli adulti nella stanza prenderanno di nuovo il comando. Ma le regole seguite da quel consenso bipartisan sono saltate, e probabilmente non torneranno neppure quando Trump salterà. Gli adulti hanno avuto la loro chance, e l’hanno sprecata. E non si può uscire da una crisi di legittimità politica con i retweet dei direttori di riviste, o scambiando convenevoli e sorrisi a un funerale.
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