Già ricercatore del Max Planck Institut für Europaische Rechtsgeschichte di Francoforte sul Meno, Alessandro Somma è professore ordinario di diritto comparato presso l’Università di Ferrara. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche nonché di una copiosa saggistica divulgativa per la casa editrice DeriveApprodi: tra i titoli più rinomati ricordiamo “La Dittatura dello spread” (2014), “L’altra faccia della Germania” (2015) e ultimo, in ordine di tempo, “Sovranismi. Stato, popolo e conflitto sociale” (2018). Abbiamo contattato il Professore per un’intervista sul concetto di sovranità all’interno dell’Unione Europea.
Nel suo ultimo lavoro, Sovranismi (DeriveApprodi, 2018), Lei afferma che “il ripristino della democrazia deve necessariamente passare dal recupero della dimensione nazionale” nella necessità di ripristinare quegli spazi giuridici, configurabili esclusivamente nell’ambito dello Stato nazionale, in grado di “redistribuire le armi del conflitto sociale”. Gli ultimi due anni di dibattito politico-economico nel bel paese hanno visto irrompere con forza sulla scena il termine “sovranismo”: alla luce della più recente narrazione mediatica e dello spin conferitogli, Lei ritiene questo concetto nocivo per coloro che, rimanendo nei ranghi della democrazia costituzionale, vorrebbero ripristinare quel sano conflitto sociale ormai sopito da decenni?
Sovranismo non è certo un termine felice, anche se molto in voga nello scontro politico più urlato. Lo si utilizza per lo più come sinonimo di chiusura identitaria incentrata su valori premoderni, come il sangue o la terra, invocati a presidio di un solco incolmabile tra un noi e un loro. Pochi notano però che quei valori sono in realtà buoni solo a sterilizzare i conflitti prodotti dalla modernità capitalista, a produrre pacificazione nel nome di visioni interclassiste dello stare insieme come società.
Da questo punto di vista, tentare una lettura alternativa, che muova dall’idea di sovranità popolare, e a monte di libertà e solidarietà come valori che presuppongono il suo esercizio e che lo Stato deve assicurare, può sembrare velleitario, se non un errore di comunicazione. Tuttavia oramai tutti parlano di sovranismo, sicché questa è l’espressione con cui ci confrontiamo nel dibattito pubblico, e che occorre riempire di altri significati. Penso allora sia utile mostrare che ci sono più sovranismi e adoperarsi per riconoscere le ragioni di un sovranismo in linea con i valori costituzionali (al netto delle riforme neoliberali come l’introduzione dell’equilibrio di bilancio o l’accentuazione dell’autonomia regionale): che non punta alla pacificazione interclassista ma che al contrario alimenta il conflitto sociale in quanto catalizzatore di partecipazione democratica. Non saprei quale altra espressione utilizzare. Almeno fino a quando non se ne troveranno altre capaci di attirare l’attenzione e stimolare il dibattito sulla necessità di tornare alla dimensione nazionale come precondizione per difendere quei valori.
Il termine “sovranismo” sembrerebbe aver circoscritto lo scontro politico tra due sole fazioni, quella dei globalisti e quella appunto dei sovranisti. È una distinzione che rischia di banalizzare un panorama più vasto e ricco di insidie? E soprattutto: c’è il rischio che un sovranismo apparentemente nato in funzione di una contrapposizione tra popolo ed élite si riveli un mero mezzo di sostituzione dell’attuale sistema ordoliberale con un nuovo assetto neoliberale che, seppur all’interno dei confini nazionali, mirerebbe a tutelare un differente nucleo di interessi ben lontani dal perseguimento dell’uguaglianza sostanziale come configurata dai nostri padri costituenti?
Più che un rischio è una certezza, sostenuta da un susseguirsi di fatti politici capaci oramai di comporre un quadro sufficientemente nitido. La banalizzazione dello scontro come conflitto tra sovranisti e globalisti è divenuta la cortina fumogena utilizzata ad arte per occultare che esso si gioca tutto nel campo neoliberale. I sovranisti riscoprono i confini per alimentare una lotta tra Stati volta alla conquista dei mercati internazionali. Si potrebbe dire che sono fautori di un neoliberalismo nazionale, diverso dal neoliberalismo globalista semplicemente perché quest’ultimo affida allo Stato compiti di altro tipo (anche la libera circolazione dei fattori produttivi o la concorrenza hanno bisogno dei pubblici poteri per potersi affermare). In entrambi i casi lo Stato è indispensabile a rendere il capitalismo storicamente possibile, e questo mette in ombra le ragioni di chi vuole un ritorno agli Stati per utilizzarli in una lotta contro i mercati. È però questo lo spazio di quanto ho indicato come sovranismo democratico, funzionale alla difesa dei valori costituzionali.
Nell’ultimo capitolo di “Sovranismi” c’è un passaggio in cui afferma che L’Europa unita in quanto dispositivo neoliberale è irriformabile e che “il recupero della sovranità popolare ben potrebbe consentire di riavvolgere il nastro di questa storia e alimentare «un europeismo costituzionale». In cosa consisterebbe quest’ultimo e per quali tratti si distinguerebbe dall’assetto europeo visto dal post-Maastricht in poi?
Maastricht, inteso come il percorso che porta alla moneta unica e che inizia con l’Atto unico europeo del 1986, è stato uno spartiacque nella storia dell’integrazione europea. Fin dall’inizio i Trattati europei menzionano la stabilità dei prezzi, ovvero la lotta all’inflazione, come finalità delle politiche economiche europee, ma includono tra queste anche la promozione della piena occupazione. È evidente che si tratta di finalità in contrasto tra loro, dal momento che il controllo dell’inflazione richiede una contrazione della spesa pubblica e la moderazione salariale: comportamenti incompatibili con la promozione della piena occupazione, che richiede sostegno della domanda, e con ciò spesa pubblica, e che inoltre aumenta il potere contrattuale dei lavoratori, e con ciò il loro salario.
Per molti anni in Europa si è pensato di giungere a una politica di bilancio e fiscale comune, ovvero incentrata su una gerarchia condivisa tra le finalità che ho appena richiamato (si trattava insomma di capire se essere o meno keynesiani), da utilizzare poi come fondamento per una politica monetaria comune ed eventualmente anche per una moneta comune. Poi è arrivato Jacques Delors, Presidente della Commissione europea tra il 1985 e il 1995, che ha imposto un rovesciamento dell’agenda politica. Con l’Atto unico europeo ha voluto incentivare la libera circolazione dei capitali, che pure veniva menzionata dai Trattati, ma che non era stata attuata (in omaggio al compromesso di Bretton Woods, per cui le merci circolano liberamente ma questo non deve valere per i capitali). In questo modo si è imposto ai governi di ingaggiare un’aspra competizione per attirare capitali, ovvero per beneficiare il mitico investitore internazionale: vera e propria figura quasi antropologica di riferimento per la politica economica, costretta ad abbattere i salari e la pressione fiscale sulle imprese come condizione per non uscire perdenti dalla competizione in atto.
Poi, con Maastricht, si è deciso di rendere la politica monetaria di competenza esclusiva del livello europeo, e ovviamente di incentrarla sul controllo dell’inflazione, con ciò imponendo una linea ben precisa di politica di bilancio e politica fiscale. Queste potevano anche rimanere di competenza degli Stati nazionali, come è a tutt’oggi, tanto i loro spazi di manovra sono annullati: se devono controllare l’inflazione devono tenere debito e deficit sotto controllo, non potendo quindi fare politiche di piena occupazione (nel nostro caso violando un precetto costituzionale).
Nei suoi scritti ricorre spesso l’affermazione che “al principio dell’avventura europeista si parlava non solo di stabilità dei prezzi ma anche di piena occupazione” e che solo a partire dagli anni ‘80 la prima prevalse sulla seconda. Larghissima parte dei padri del federalismo europeo, tra i quali ricordiamo Paul-Henri Spaak, Altiero Spinelli, Walter Lippmann e addirittura Friedrich Von Hayek si scagliarono con veemenza contro ogni tipo di politica economica che osasse allontanarsi dal disegno neoliberale: nel riferirsi all’economia di piano i suddetti non presero a riferimento esclusivamente il bolscevismo ma, in particolare arrivarono a puntare il dito contro il laburismo britannico. Da cosa dobbiamo desumere un’iniziale “purezza” del progetto federalista europeo circa una presunta compatibilità dei modelli economici neoliberali con paradigmi keynesiani, se gli stessi padri del federalismo europeo hanno osteggiato ogni forma di potere nelle mani dei lavoratori?
Diciamo intanto che l’Europa unita nasce nel pieno dei cosiddetti Trenta gloriosi: l’epoca in cui prevaleva il modo keynesiano di concepire la politica economica. Questo clima non poteva non influenzare anche un progetto concepito, come lei giustamente ricorda, per essere un dispositivo neoliberale, tanto più che ci troviamo all’epoca della contrapposizione tra blocchi (epoca in cui il capitalismo doveva mostrarsi con il volto umano per gareggiare al meglio, in termini di attrattiva, con il socialismo, cui molti guardavano con interesse). Occorre tenere conto di tutto questo per comprendere i Trenta gloriosi e la spirale virtuosa che essi hanno generato: un sostegno della domanda capace di incrementare i consumi, alla base della piena occupazione e con ciò di una domanda in costante crescita. Il tutto sostenuto da un welfare corposo, concepito, oltre che come strumento di pacificazione sociale, anche come forma di salario indiretto, a completare quanto è stato definito come compromesso keynesiano.
Certo, questo modello era condannato a non funzionare per l’eternità, se non altro perché non teneva conto delle compatibilità ambientali. Non è però un caso se il suo rovesciamento segue a ruota il crollo del blocco socialista e dunque la sparizione dalla scena dell’unico vero competitore del capitalismo. Di qui la volontà di mettere fine a un effetto indesiderato della spirale virtuosa di cui ho appena parlato: aver attribuito al lavoro salariato un notevole potere contrattuale. E proprio questo doveva essere combattuto con il percorso che ha condotto a Maastricht, che è iniziato con il rovesciamento del compromesso di Bretton Woods e si è concluso con il rovesciamento del compromesso keynesiano.
Dal voto del 4 marzo in poi le opposizioni hanno eretto a baluardo anti-sovranista il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: gesti come quello del famoso “no” a Savona dello scorso maggio minano il ruolo di neutralità e garanzia che il Capo dello Stato dovrebbe mantenere? In virtù dell’interferenza di Mattarella nel dibattito politico degli ultimi mesi, ritiene corretto pensare che una riforma della Costituzione in senso “presidenzialista”, tesa a configurare una forma di responsabilità politica del Presidente della Repubblica nei confronti degli elettori, favorirebbe la strada verso un progressivo avvicinamento a quell’“arena democratica entro cui il conflitto redistributivo si sviluppa in modo equilibrato”?
Per la Costituzione italiana il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri. Questo meccanismo non attribuisce un potere illimitato al Capo dello Stato, che può rifiutare la nomina dei ministri solo in mancanza di requisiti giuridici, ovvero, in massima parte, per questioni attinenti le incompatibilità con la carica. Se così non fosse, il Presidente della Repubblica concorrerebbe a formare l’indirizzo politico generale, e questo contrasterebbe con la massima per cui egli è politicamente irresponsabile, tanto che i suoi atti devono sempre essere controfirmati dai ministri e dal Premier.
Detto questo sono stati numerosi i casi in cui il Presidente della Repubblica ha tentato di influenzare la composizione del governo: a partire da quanto fece Gronchi con la nascita del governo Zoli, sino al rifiuto di Napolitano di nominare Gratteri Ministro della giustizia del governo Renzi. Qui il Capo dello Stato non si è però limitato alla mera moral suasion, per quanto penetrante essa possa essere: qui siamo arrivati allo scontro. Mattarella che blocca la nomina di Savona a Ministro dell’economia è un atto chiaramente fuori dalle sue prerogative. Soprattutto se motivato con le parole che ha scelto, con le quali ha voluto ergersi a Presidente degli investitori stranieri e dei risparmiatori italiani danneggiati da una linea che, sostenne, poteva provocare l’uscita dell’Italia dall’Euro.
Detto questo, con il senno di poi, si sarà accorto che i suoi timori erano infondati: Savona Ministro per gli affari europei si comporta come un pompiere rispetto ai proclami dei Ministri più critici con l’Europa (anche se si tratta di proclami non seguiti da fatti). Quanto al presidenzialismo, a me pare un errore. Il sovranismo che ho in mente è funzionale a ripristinare la sovranità popolare, quindi ad allargare gli spazi della decisione democratica: richiede di favorire e non di penalizzare il parlamento nei rapporti con l’esecutivo.
Torniamo sul “no” a Savona da parte di Mattarella: è evidente che tale “ingerenza” nella formazione del Governo a trazione lega-cinque stelle mirasse a tutelare il cosiddetto rigore di bilancio utile a mantenere in piedi l’eurozona per come congegnata: com’è possibile che la democrazia economica designata dai Costituenti al fine di promuovere e garantire “oltre la rimozione degli ostacoli al pieno sviluppo della persona , anche l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” attraverso l’intervento attivo dello Stato nell’economia sia arrivata a un simile grado di subordinazione nei confronti delle politiche pro-cicliche dettate dall’UE? Possiamo affermare che quelle forze regressive alle quali faceva riferimento Gustavo Ghidini nella seduta dell’Assemblea Costituente dell’8 marzo 1947 abbiano avuto la prevalenza?
Sì, lo possiamo dire, così come possiamo dire che in fin dei conti la fine dei Trenta gloriosi, da cui tutto ebbe inizio, rappresentano una sorta di ritorno alla normalità capitalista. Dico questo per mettere in luce come il capitalismo dal volto umano sia una costruzione estremamente instabile: sottoposta alle opposte sollecitazioni di chi vuole il superamento del capitalismo e di chi invece invoca l’ortodossia neoliberale. Da questo punto di vista hanno ragione i fautori di quest’ultima a vedere nei modelli keynesiani l’anticamera dell’economia pianificata, e infatti adottano con cura ogni espediente per precarizzare e svalutare il lavoro e a monte per spoliticizzare il mercato.
Lelio Basso fu tra i primi intellettuali italiani a sollevare dubbi di costituzionalità circa l’adesione dell’Italia alla Comunità Economica Europea. Tramite le colonne del Corriere della Sera, correva l’anno 1973, criticò il fatto che attraverso regolamenti e direttive il Consiglio d’Europa e la Commissione spogliassero “il popolo dell’esercizio della sovranità in materia di estrema importanza” sfuggendo a “qualsiasi decisione preventiva o controllo successivo di organi elettivi. Basso affermò inoltre che accettare tali cessioni di sovranità sarebbe equivalso a “sovvertire l’ordine costituzionale italiano”, affermazione non troppo distante da quella resa dal Calamandrei durante i lavori della Costituente in relazione alle “oscure previsioni” di Ghidini. È un’interpretazione tutt’oggi condivisibile, alla luce della più recente evoluzione del diritto dell’Unione Europea?
Bassocontestò l’adesione dell’Italia al Consiglio d’Europa anche durante il dibattito parlamentare sulla relativa legge, e con l’occasione pronunciò parole che suonano attualissime. Stigmatizzò il comportamento della borghesia, storicamente espressiva di una coscienza nazionale, che aveva abbandonato il vecchio nazionalismo e assunto come sua bandiera il cosmopolitismo solo per resistere alla pressione delle classi popolari in lotta per i loro diritti. Di qui la conclusione che l’emancipazione delle classi subalterne passa dalla loro capacità di togliere alla nazione il carattere di espressione esclusiva della classe dominate, ma non anche di abbandonarla come terreno di lotta politica. Giacché il riscatto delle classi subalterne passa dall’internazionalismo e non dal cosmopolitismo, dalla nascita di una federazione di popoli liberi. Tutto il contrario della federazione interstatuale promossa da von Hayek per imporre agli Stati il vincolo esterno con cui presidiare l’ortodossia neoliberale: per trasformarli in contenitori di fattori produttivi liberamente saccheggiabili.
Peraltro il cosmopolitismo non era inviso solo alla sinistra di allora, se è vero che la Costituzione ammette le limitazioni della sovranità nazionale solo per promuovere la pace e la giustizia tra le nazioni, e solo in condizioni di reciprocità. Il tutto per legittimare l’adesione alle Nazioni unite, ma non certo all’Europa unita: che è un’organizzazione sovranazionale e non semplicemente internazionale (nei cui confronti si è ceduta e non semplicemente limitata la sovranità), nata per promuovere il mercato unico e all’interno della quale non vi sono certo rapporti equilibrati tra Stati.
La grande corsa verso le elezioni europee di maggio parrebbe essersi aperta sull’idea base di “cambiare l’Europa da dentro”: slogan elettorale che tradotto in termini giuridici significherebbe modificare i trattati. In “Sovranismi” Lei ricorda opportunatamente che per modificare questi ultimi non occorra solo l’unanimità degli Stati ai sensi dell’art. 48 TUE, ma anche un’eventuale modifica alla Legge fondamentale tedesca, qualora la riforma dei trattati arrivi a configurare un’incompatibilità con la stessa Grundgesetz. Alla luce di tutto ciò come valuta la costruzione di una campagna elettorale sull’abbattimento dei costi del Parlamento Europeo o sulla stessa modifica dei trattati? Il “momento Polanyi” da lei richiamato nel primo capitolo di “sovranismi” rischia di mutare bruscamente in un “momento Tsipras”?
Ha ragione: l’idea di cambiare l’Europa da dentro è oramai un mantra trasversale rispetto agli schieramenti. Lo dicono gli europeisti di lungo corso, che comunque non perdono occasione di precisare che la loro Europa è diversa da quella che abbiamo: che per ottenerla occorre intensificare il vincolo esterno, estenderlo alle politiche economiche e sociali. Lo dicono anche i neo-europeisti, ad esempio quelli che fanno capo alla cosiddetta sinistra radicale, convinti che il conflitto sociale e la disobbedienza istituzionale possa restituirci un’Europa dei diritti. È peraltro evidente che più Europa non può che significare più ortodossia neoliberale, e che il conflitto sociale può svilupparsi solo in un contesto democratico, e non certo in un ambiente spoliticizzato come quello presidiato dalla costruzione europea.
Persino i gialloverdi sono diventati europeisti: i verdi perché pensano di diventare l’ago della bilancia e di piegare ai loro programmi il partito popolare europeo, i gialli non si capisce perché. Sicché ha purtroppo ragione il cinico Monti a dire che stiamo vivendo un momento Tsipras: il momento in cui i critici della costruzione europea fanno finalmente i conti con la realtà e abbandonano le posizioni intransigenti degli anni in cui erano all’opposizione. Penso però che non si tratti qui di realismo, ma di un cambiamento di pelle che significa tradimento delle promesse elettorali destinato a non passere inosservato. E che magari ci regalerà ulteriori conferme di quanto abbiano ragione chi considera gli italiani sempre disposti ad acclamare qualcuno dal balcone, salvo poi fargli fare una brutta fine se non mantiene le promesse.
La principale critica che viene mossa ai cosiddetti sovranisti consiste nel fatto che l’Italia sarebbe un Paese eccessivamente piccolo (l’aspetto industriale e infrastrutturale costituiscono sovente lo spunto di critica principale) per poter competere con potenze mondiali “emergenti” come la Cina. È una ragione valida per accettare il vincolo esterno di organizzazioni sovranazionali quali l’Unione Europea, il cui assetto giuridico sarebbe a detta di molti incompatibile con la nostra Costituzione e quindi con il compito inderogabile della Repubblica di perseguire l’uguaglianza in senso sostanziale?
Il sovranismo non è il rifiuto della relazione tra Paesi, incluse quelle pensate per posizionarsi nella competizione internazionale nel rispetto dei valori costituzionali. Detto questo l’Unione europea combatte le potenze emergenti come la Cina con le armi sbagliate: sul fronte dell’abbattimento dei salari e della precarizzazione del lavoro. Non sta invece facendo nulla per prepararsi alla crisi che molti economisti reputano imminente, della quale si iniziano del resto a vedere i primi segnali. In particolare non si sta attrezzando per sostenere la domanda (come sta invece facendo la Cina), e del resto non può farlo: questa soluzione viene impedita dall’architettura neoliberale che tiene prigionieri i popoli europei.
C’è un passaggio nel testo in cui paventa, a mero titolo di esempio, le turbolenze nel settore bancario come potenziale ragione di una più o meno prossima fine della moneta unica. Alla luce dei recenti sviluppi legati a Banca Carige e alle voci che in questo momento si stanno rincorrendo su un possibile dissesto della popolare di Bari, lei ritiene che il nostro sistema creditizio sia oggi sufficientemente al sicuro, anche in virtù di quella che secondo la Costituzione dovrebbe essere la sua funzione sociale (penso al primo capoverso dell’art. 47)? Perché altri Paesi dell’Eurozona hanno beneficiato degli interventi statali di salvataggio che l’Italia oggi non può permettersi a causa della direttiva BRDD? La sovranità passa anche da qui?
In materia di banche si trovano numerosi riscontri di quanto vi siano forti disparità di trattamento tra i Paesi europei. I tedeschi, ad esempio, hanno speso montagne di soldi nel salvataggio delle loro banche, avendo a tal fine predisposto un fondo dotato di ben 480 miliardi di Euro. Solo dopo hanno imposto la direttiva sulla gestione delle crisi: un meccanismo destinato a evitare i salvataggi pubblici in caso di dissesto (il cosiddetto bail in), con ciò rendendo all’Italia più difficile risolvere le recenti crisi bancarie.
Detto questo, il bail in è solo uno dei tre pilastri che compongono l’unione bancaria europea. Un altro è il sistema di vigilanza unica, che però non coinvolge tutte le banche: ad esempio lascia fuori le casse di risparmio tedesche, un insieme di oltre quattrocento istituti di credito in molti casi pieni di titoli inesigibili. Il terzo pilastro è la garanzia europea dei depositi, che non è stato ancora realizzato, manco a dirlo per l’opposizione tedesca. Berlino vuole che prima le banche diminuiscano i rischi, magari valutando come non sicuri i titoli del debito di Paesi in difficoltà (il che rappresenterebbe una sciagura per l’Italia).
Ecco altri esempi di come l’Europa sia una Unione tra Stati a cui si riservano trattamenti diversi, una unione verso la quale si è ceduta sovranità in assenza di reciprocità.
Per concludere: la bibliografia di “Sovranismi” è veramente ricca di spunti e letture utili ad approfondire i molteplici temi affrontati all’interno del suo saggio; oltre alla lettura (vivacemente consigliata dalla redazione) dei suoi saggi richiamati nell’introduzione di questa intervista, c’è qualche titolo in particolare che consiglierebbe ai lettori de L’Intellettuale Dissidente per approfondire il tema dei contrasti tra la Costituzione del 1948 e l’Unione Europea?
È importante la lettura di Vladimiro Giacché, Costituzione italiana contro trattati europei. Il conflitto inevitabile (Imprimatur 2015), davvero interessante perché approfondisce anche le implicazioni di ordine economico del contrasto tra i due ordinamenti. Lo stesso vale per Aldo Barba e Massimo Pivetti, La scomparsa della Sinistra in Europa (Imprimatur 2016), molto utile anche per la ricostruzione storica di lungo periodo delle ragioni dell’incompatibilità tra livello nazionale e livello europeo. Mi permetto di ricordare anche il mio Europa a due velocità. Postpolitica dell’Unione europea (Imprimatur 2017) per approfondimenti dal punto di vista della politica del diritto.
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