L’incubo del presidente Macron, che in questi giorni ha convocato l’ambasciatore francese in Algeria per riferire con urgenza al ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian. Una bomba ad orologeria. Pronta a detonare per l’innesco provocato dalla farsa elettorale che l’Algeria sarebbe sul punto di mettere in scena il prossimo 18 aprile. Una farsa non più tollerabile da una parte della popolazione, quella più giovane, acculturata, emancipata, quella che vive nei maggiori centri urbani e frequenta i social media, che in queste ore appaiono in fermento. E mentre migliaia di studenti scendono in piazza in decine città algerine, pronti a protestare contro il quinto mandato di Abdelaziz Bouteflika (sfidando la legge che vieta gli assembramenti), anche i giornalisti di Entv, la televisione pubblica, rivendicano il diritto di esercitare il proprio mestiere: informare, finalmente liberi da censure.
Domenica prossima il raìs Abdelaziz Bouteflika, il presidente saldamente al potere dal 1999, annuncerà ufficialmente la sua quinta candidatura alla guida del Paese. Molti, tra i giovani scesi in strada in queste ore, non hanno conosciuto altro presidente fuori di lui: nel 2018, secondo l’Ufficio nazionale di statistica, il 45% della popolazione ha meno di 25 anni. Bouteflika ora è a Ginevra (dove è già stato in esilio politico tra 1981 et 1987 per versamenti di denaro pubblico su conti privati, risalenti al periodo in cui era ministro degli Esteri), ricoverato in una prestigiosa clinica in grado di garantirgli la riservatezza necessaria: dal 2014, quando è stato colto da un ictus fortemente invalidante, praticamente non pronuncia discorsi pubblici, evita incontri con ospiti internazionali, si lascia sostituire da gigantografie in occasione di messaggi televisivi o di manifestazioni pubbliche. Ha 81 anni, eppure non cede: nei giorni scorsi, il suo ministro dell’interno ha riportato alla popolazione le indicazioni di voto, “un segnale forte di continuità” con il passato.
E secondo il sociologo algerino Nacer Djabi, professore dell’Università di Algeri, una vittoria di Bouteflika è certa sin dal primo turno, garantita dal solito voto bulgaro confezionato ad arte. Non solo per brogli sistematici, ma anche per una propaganda sempre più sintonizzata sulle paure covate a livello internazionale. Lo spauracchio “della Libia, della Siria, dell’Egitto (…) Hanno sfruttato molto il pericolo del terrorismo, presentando il presidente come un argine irrinunciabile contro l’integralismo.” Boutef, come è soprannominato in Algeria, il piccolo (di statura) uomo dal pugno di ferro, ha incarnato per 13 anni il capo della diplomazia internazionale, è stato deputato e ministro della Gioventù e dello Sport. Ad appena 19 anni ha abbracciato la causa dell’Aln (Armée de libération nationale), ed è proprio durante gli anni sanguinosi della lotta per l’indipendenza algerina che, nel 1958, ha incontrato il futuro presidente Boumedienne, di cui è diventato segretario particolare, avviando una luminosa carriera politica. Nel 1974 è stato eletto presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, portando la causa indipendentista del Fln ad una consacrazione internazionale.
Bouteflika ha passato indenne anche il processo per i 60 milioni di dinari (circa 600mila euro), che avrebbe intascato da ministro degli Esteri, la gogna dell’allontanamento dalla vita politica, fino alla vittoria alle presidenziali del 1999, che l’ha inchiodato a capo del Paese sino ad oggi. Bouteflika da decenni rappresenta una pedina troppo grossa nello scacchiere nordafricano per non turbare i sonni europei, oggi con il mix esplosivo dell’età avanzata, della forte concentrazione del potere, dell’assenza di un meccanismo di ricambio generazionale.
Secondo indiscrezioni del giornalista Mohamed Sifaoui, riportate da Le Parisien, il presidente Macron avrebbe dato, prudentemente, il semaforo verde alla rielezione, senza nascondere le “angosce” (come titola Le Nouvel Obs), con cui dall’epoca coloniale il governo francese osserva, più o meno in silenzio, le vicende algerine. Da un aumento delle pressioni terroristiche al confine con il Mali, ai rischi per le forniture di gas (il 10% delle importazioni francesi), fino alla catastrofe umanitaria che potrebbe prodursi per effetto di una frammentazione del potere centrale, come insegna l’esempio della Libia. Esodi di massa, con mezzi di fortuna, ma anche per vie legali. “Tra le due rive del Mediterraneo, tra Francia e Algeria, contiamo circa un milione e mezzo di persone con doppia nazionalità, francese e algerina” ricorda Sifaoui. Cifra che potrebbe salire moltissimo, se il calcolo di quanti potrebbero, a vario titolo, chiedere rifugio in Francia si allarga alla sfera familiare. Dai sanguinosi anni Novanta, funestati dalla guerra civile che ha provocato quasi 200mila morti, l’esercito algerino rappresenta ormai un solido partner della Francia sul piano della sicurezza. L’Algeria è tra i più grandi Paesi africani, con 42 milioni di abitanti, è una delle prime potenze militari del continente e gli intrecci economici con l’ex Paese colonizzatore sono incalcolabili.
Un Paese destabilizzato, o peggio ancora un regime ostile, rappresenterebbe una grave minaccia non solo per la Francia, ma anche per l’Europa, su cui incombe, a fine maggio, il verdetto delle elezioni. Certo è che, se non saranno le prossime elezioni politiche, il naturale decesso dell’ottuagenario presidente, in pessime condizioni di salute, potrebbe mettere fine a breve termine ad uno status quo ventennale. E allora una strategia per il futuro dell’Algeria non sarà più rinviabile. Intanto giova ricordare che lo scorso 25 febbraio anche a Parigi erano in tanti a sfilare in Place de la République contro il quinto mandato di Bouteflika. Questa volta non erano i “soliti” gilets jeunes, ma francesi, algerini, franco-algerini. Poco importa. Certo è che ancora una volta le voci della protesta venivano dalla pancia del Paese.
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