Anche perché la modalità del business non permette – se non in maniera ridotta – di sfruttare le economie di scala: all’aumentare dei clienti, infatti, crescono i costi. “Nel pieno della bolla tech, nel 1999, tantissime compagnie si quotavano in perdita. Venivano valutate sul numero di clienti e sul trend che avevano intercettato” dice Duccio Vitali, amministratore delegato di Alkemy ed ex partner di Bain, che poi aggiunge: “La differenza è nel modello di business. Quello di Amazon e di Facebook, che pure si sono quotate in perdita, era evidente dall’inizio. Sono cresciute senza generare utili per guadagnare quote di mercato e chiudere il terreno ad eventuali concorrenti, poi hanno iniziato a guadagnare appena hanno voluto”.
Insomma che il trend di Uber sia cool è chiaro a chiunque. L’economia della condivisione sta scavalcando quella del possesso, ma come la società abbia intenzione di iniziare a guadagnare resta un mistero. Certo, il gruppo si sta impegnando nella diversificazione dei servizi: dal cibo a domicilio alla logistica, ma il peso delle divisioni è ancora ridotto. In particolare le consegne a casa hanno costi paragonabili a quelle delle corse in in auto e sono in eterna concorrenza con Deliveroo e JustEat.
D’altra parte Uber stessa non nasconde gli enormi rischi che dell’investimento in quotazione. Certo, se poi la società battesse tutti nella corsa alle auto a guida autonoma sarebbe un successo enorme, ma si tratta – appunto – di una scommessa a fronte di rischi reali. “Se non saremo in grado di attrarre o mantenere una massa critica di conducenti, consumatori, ristoranti, spedizionieri e vettori, sia come risultato della concorrenza o altri fattori – si legge ancora nel prospetto -, la nostra piattaforma diventerà meno attraente per gli utenti e i nostri risultati finanziari avrebbero un impatto negativo”.
In questo senso, lo sciopero degli autisti è solo la punta dell’iceberg. Si lamentano delle lunghe ore di lavoro a fronte di salari in calo e nessuna malattia riconosciuta. Un problema che deriva dal fatto che si tratta di lavoratori indipendenti e non dipendenti di Uber. Negli Stati Uniti, Bernie Sanders – candidato alla Casa Bianca – appoggia le proteste degli autisti e spinge per un loro riconoscimenti come lavoratori subordinati, ma Uber sarebbe un disastro: “Qualsiasi riclassificazione di questo tipo ci imporrebbe di modificare radicalmente il nostro modello di business e di conseguenza avrebbe un effetto negativo sulla nostra attività e sulla nostra situazione finanziaria”. Eppure nel mondo fioccano nel cause per ottenere il riconoscimento dello status di dipendenti.
I problemi di Uber però non si limitano ai driver. A preoccupare azionisti e investitori è la situazione internazionale: la società opera in 63 Paesi e il 74% delle corse è effettuato al di fuori degli Stati Uniti, ma in Stati chiave come Argentina, Germania, Italia, Giappone, Corea del Sud e Spagna la società sta incontrando problemi e restrizioni che mettono in difficoltà la crescita dei conti. In India, Uber ha investito molto, ma i concorrenti “in particolare Ola, Swiggy e Zomato, sono ben capitalizzati e hanno esperienza operativa locale” a differenza del colosso americano. Di conseguenza alcuni investimenti – avverte il prospetto “potrebbero non avere successo e influire negativamente sui nostri risultati operativi”
La stessa società ammette che i tassi di crescita sono rallentanti e continueranno a farlo, soprattutto se aumenteranno le restrizioni: basti pensare che il 15% delle corse mondiali parte o arriva all’aeroporto, ma fuori dagli Stati Uniti la tendenza è proprio quella di vietare il ridesharing negli scali aerei.
Fonte:https://it.businessinsider.com/la-folle-corsa-di-uber-ha-perso-10-miliardi-e-i-margini-continuano-calare-ma-per-wall-street-vale-1-000-dollari-a-cliente/
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