Il grande paradosso: il liberismo distrugge l’economia di mercato – parte seconda
di VOCI DALL’ESTERO (Carmenthesister)
Nella seconda parte della sua approfondita e documentata analisi, Flassbeck mostra come solo la politica della domanda può procurare all’economia di mercato una dinamica tale da raggiungere obiettivi di piena occupazione. Gli USA e il Giappone sembrano averlo capito. L’Unione europea, ancorata al dogma di una “sana” politica fiscale, ha abbandonato da anni il club dei governi dotati di ragionevolezza.
del Prof. Heiner Flassbeck, Makroskop, 19 e 22 luglio 2019
[ Traduzione di Beppe Vandai ]
Parte Seconda
Il capitalismo viene festeggiato come una storia di successo. Ma da quando i liberisti sono al potere ha enormemente perso di attrattività. Non esiste proprio una politica giusta se la teoria è sbagliata.
Il nesso decisivo
Tempo fa ho mostrato e spiegato in breve (qui) il nesso empirico decisivo. Negli USA il rapporto tra tasso di interesse e tasso di crescita (entrambi in termini nominali) dei primi trent’anni della seconda metà del ‘900 fu esattamente l’inverso di quello dei trent’anni seguenti. Nel primo trentennio gli interessi furono quasi sempre più bassi del tasso di crescita (il quale si può interpretare anche come una sorta di rendita macroeconomica degli investimenti). Nel trentennio seguente, invece, sono stati quasi sempre più alti.
GRAFICO 1
USA: Tasso di crescita nominale e tasso di interesse su titoli di stato statunitensi (decennali a tasso fisso, dati Fed). Il tasso di crescita nominale del PIL è calcolato rispetto all’anno precedente. “BIP” = “PIL”. “Zins” = “Interesse.
Questo quadro vale, in modo simile, per tutte le economie nazionali occidentali – con l’eccezione della Gran Bretagna, che ai tempi di Bretton Woods non ebbe un miracolo economico e fu perciò considerata il “malato d’Europa”.
Ai tempi di Bretton Woods ci furono dunque condizioni favorevoli agli investimenti, poi di nuovo… solo dopo la grande crisi finanziaria del 2008/2009. Però il ritorno ad un rapporto normale – in un contesto di bassa inflazione e bassa crescita – evidentemente non ha più avuto lo stesso effetto di prima.
Se dividiamo i decenni in modo corrispondente, il risultato per la Germania è chiaro (vedi Grafico 2). Escludendo gli anni delle recessioni (1966/1967 e 1974/1975) vale sempre la regola che il tasso di interesse della prima fase fu sempre nettamente inferiore al tasso di crescita.
GRAFICO 2
Germania: 1956 – 1979: crescita del PIL nominale rispetto all’anno precedente; tasso d’interesse su titoli di stato tedeschi (decennali a tasso fisso), dati dell’ufficio federale di statistica.
Nei decenni successivi il rapporto si è invertito. Si può anche affermare che i rapporti che dovrebbero regnare in un’economia di mercato siano stati messi a testa ingiù (vedi Grafico 3).
GRAFICO 3
Germania: 1980 – 2009: crescita del PIL nominale rispetto all’anno precedente; tasso d’interesse su titoli di stato tedeschi (decennali a tasso fisso), dati dell’ufficio di statistica federale.
A parte gli anni 1990 e 1991, quelli dell’unificazione tedesca, e un breve episodio nel 2006/2007, il tasso d’interesse fu sempre superiore a quello di crescita, e dunque – misurato con il metro di “razionali rapporti economici da economia di mercato” – fu sempre troppo alto. Esattamente in questa fase vale la stessa cosa anche per la Francia e l’Italia (vedi Grafici 4, 5, 6 e 7).
GRAFICO 4
Francia: 1960 – 1979: crescita del PIL nominale rispetto all’anno precedente (fonte AMECO); tasso d’interesse su titoli di stato francesi (decennali a tasso fisso), fonte: FRED
GRAFICO 5
Francia: 1980 – 2009: crescita del PIL nominale rispetto all’anno precedente (fonte AMECO); tasso d’interesse su titoli di stato francesi (decennali a tasso fisso), fonte: FRED.
GRAFICO 6
Italia: 1960 – 1979: crescita del PIL nominale rispetto all’anno precedente; tasso d’interesse su titoli di stato italiani (decennali a tasso fisso).
GRAFICO 7
Italia: 1980 – 2009: crescita del PIL nominale rispetto all’anno precedente; tasso d’interesse su titoli di stato italiani (decennali a tasso fisso).
Particolarmente degno di nota è il caso italiano, in cui nel primo periodo non c’è alcun punto di contatto tra le due curve, nel secondo ci furono solo tre brevi fasi in cui il tasso d’interesse non fu più alto del tasso di crescita, in cui si ebbero punti di contatto.
(…) Avevo già fatto notare che la rivoluzione neo-liberale successiva al 1980, in Germania, non fu affatto una storia di successo (vedi grafico 8). Il risultato sarebbe stato ancora peggiore senza gli enormi effetti sulla domanda aggregata, esercitati dallo Stato per via dell’unificazione tedesca, i quali comportarono per alcuni anni tassi di crescita assai elevati.
GRAFICO 8
Germania: tasso di crescita reale del PIL (fonte: Bundesbank).
Dopo l’avvio della moneta unica europea ci furono anche gli effetti positivi del dumping salariale tedesco, che impedirono un indebolimento ancor maggiore nella crescita della performance economia.
In Francia non si ebbero questi due effetti positivi e perciò l’affievolimento fu decisamente maggiore. Dopo la grande recessione del 2008/2009 l’economia non si è più ripresa e la disoccupazione è rimasta elevata.
GRAFICO 9
Francia: tasso di crescita reale del PIL (fonte: AMECO; il 2018 è per ora solo stimato).
Una debole dinamica degli investimenti
In Francia la quota degli investimenti (l’insieme degli investimenti lordi) [valore che comprende anche l’attività dell’edilizia privata, ndt] è caduta (vedi Grafico 10) e da allora non si è più ripresa. Si deve dedurre che gli investimenti delle imprese si siano sviluppati ancora peggio; nel merito, non disponiamo però, purtroppo, di dati affidabili.
GRAFICO 10
Francia: quota investimenti lordi (in % sul PIL). Fonte: AMECO.
L’Italia soffre ancor più massicciamente che la Francia della preminenza del neoliberismo, nella sua variante europea. Poiché l’Italia porta con sé un alto indebitamento, le regole assurde del Fiscal compact costringono il Paese a praticare, contro ogni forma di ragionevolezza, l’austerità. Questo significa che, nonostante l’assenza di una dinamica degli investimenti trainata dall’indebitamento dei privati – e questo a tassi d’interesse vicini allo zero! – l’Italia deve rinunciare allo stimolo dello Stato. L’esito (vedi Grafico 11) è catastrofico.
GRAFICO 11
Italia: tasso di crescita reale del PIL (fonte: AMECO; 2018 2019 per ora solo tassi stimati).
La quota degli investimenti ha raggiunto in Italia un livello storicamente infimo (vedi Grafico 12). E questo in un Paese che nel passato era caratterizzato come nessun altro da un’attività negli investimenti assai dinamica, soprattutto nel settore industriale.
GRAFICO 12
Italia: quota investimenti lordi (in % sul PIL). Fonte: AMECO.
Un Paese che non corrisponde dallo schema descritto sopra è il Giappone. Qui il boom durò ben più a lungo, cioè fino alla fine degli anni ’80, fu però scatenato da una grandiosa e irrazionale bolla immobiliare. Poi la crescita collassò e non si riprese più fino ad oggi (vedi Grafico 13). Tassi di crescita dell’ordine dell’1% poterono essere raggiunti solo con massicci interventi dello Stato. Contemporaneamente la situazione occupazionale del Paese è però migliore che nei Paesi industrializzati occidentali.
GRAFICO 13
Giappone: tasso di crescita reale del PIL (fonte: AMECO; 2018 tasso per ora solo stimato).
La quota investimenti, che ancora negli anni ’60 e ’80 aveva raggiunto un livello enorme, oltre il 30%, oggi come oggi si è stabilizzata su un livello normale per i Paesi occidentali industrializzati e, dopo il 2010, quasi non è cresciuta (vedi Grafico 14).
GRAFICO 14
Giappone: quota investimenti lordi (in % sul PIL). Fonte: AMECO.
Ma dipende tutto dalla tecnologia?
Orbene, molti argomentano così: nei Paesi ad economia matura l’indebolimento della crescita sarebbe meno da ascrivere ad una politica economica sbagliata che ad una generale tendenza ad una minore dinamica nell’innovazione; nessun Paese potrebbe sottrarvisi. Una pezza d’appoggio sarebbe da vedere nei tassi di crescita della produttività del lavoro calanti. Lo si può affermare, ma certamente non dimostrare.
Quanto osserviamo in termini di infiacchimento dei tassi di crescita nella produttività del lavoro è sempre una miscela di innovazioni tecnologiche e del ritmo con cui queste innovazioni si impongono, cioè si traducono in attività di investimento. Una debole attività negli investimenti impedisce un forte progresso nella produttività anche quando i ritmi di sviluppo nell’innovazione tecnologica sono elevati.
La grande eccezione
Per confutare quell’argomento dovremmo avere un “cigno nero”, cioè un Paese in cui la situazione è peggiorata assai meno. E in effetti, il Paese esiste. L’unico grosso Paese del mondo occidentale che ha potuto in buona parte sottrarsi al trend negativo sono gli USA. Invero anche qui la dinamica nella crescita si è indebolita, però molto meno che negli altri Paesi occidentali (vedi Grafico 15).
GRAFICO 15
USA: tasso di crescita reale del PIL (fonte: FRED).
La quota degli investimenti negli USA tendenzialmente non è calata, al contrario, dopo il 2008/2009 si è ripresa enormemente (vedi Grafico 16). Invero il grande aumento degli anni 2000 va anche qui chiaramente ascritto ad una irrazionale bolla immobiliare, ma per la ripresa, da allora, non c’è una spiegazione tanto facile.
GRAFICO 16
Usa: quota investimenti lordi (in % sul PIL). Fonte: AMECO.
Se aggiungiamo che agli USA è riuscita anche in questo ciclo la riduzione della disoccupazione ad un livello che si può chiamare di “piena occupazione”, ci si deve seriamente chiedere che cosa gli USA abbiano fatto di diverso dagli altri Paesi. La risposta è: nel voler portare la disoccupazione in ogni fase di crescita al livello che chiamiamo di piena occupazione, gli USA hanno praticato una politica economica molto pragmatica.
Finché la dinamica privata, proveniente dall’economia di mercato – trainata da una politica monetaria espansiva – era sufficiente, lo Stato è stato a guardare. Però già a metà degli anni settanta questa fase era finita. In seguito, solo una volta, ci fu un ritorno alla piena occupazione senza massicci impulsi provenienti dalla politica fiscale. Solo nella fase della cosiddetta bolla dot.com – nella seconda metà degli anni ’90 – le famiglie aumentarono talmente le loro uscite così da creare un indebitamento netto, anno dopo anno. Perciò lo Stato riuscì a cavarsela ancora una volta senza aggiungere un proprio indebitamento (vedi Grafico 17).
GRAFICO 17
USA: saldi finanziari settoriali (fonte AMECO) in % sul PIL nominale. Valori negativi della posizione “estero” significano un indebitamento dell’estero. Ausland = estero; private Haushalte = famiglie; Unternehmen = imprese; Staat = Stato. [Il fatto che la posizione “estero” sia sempre in zona positiva segnala un deficit commerciale-finanziario statunitense con l’estero. Le famiglie sono quasi sempre (tranne che nel 2000 etra il 2004 ed il 2008) in zona positiva, cioè risparmiano. Lo Stato è sempre in deficit (tranne che nel 2001). Le imprese in certe fasi si indebitano in termini netti, in altre accumulano risparmi netti, ndt]
Subito dopo le imprese tornarono a risparmiare, ovvero, a spendere meno di quanto incassavano. A questo punto non c’era più altra possibilità per lo Stato della più grande economia mondiale di affidarsi alle forze del mercato. Lo scarto tra entrate ed uscite statali aumentò sempre di più [generando sempre deficit, ndt]. Perfino adesso, con la piena occupazione, lo Stato aumenta i suoi deficit ancora una volta. Nello sorso anno fiscale si trattò (solo a livello federale) del 3,9% del PIL, ovvero 700 Miliardi di $. Secondo le stime più recenti, la somma totale in questo anno fiscale (che termina al 30 settembre) si aggirerà attorno ai 1.000 Miliardi di $.
GRAFICO 18
USA: quota dell’indebitamento totale dello Stato e dell’indebitamento annuo. 1) Debito pubblico in % sul PIL, anno per anno, depurato stagionalmente. Dati disponibili solo dal 1966. 2) Surplus o deficit annuo dello Stato in % sul PIL. La linea viola (debito pubblico totale) va letta sulla scala di sinistra. La linea arancione (deficit annuo) su quella di destra.
L’indebitamento totale sale (in percentuale sul PIL, anche se si non tratta del metro appropriato), salirà certamente verso il 110%. Una cifra in realtà non problematica – a differenza di quanto pensano liberisti e neo-liberisti – che mostra però come senza un impegno finanziario duraturo e rilevante dello Stato non esista uno sviluppo economico ragionevole.
Quali conseguenze?
In un mondo in cui – grazie al monetarismo e alla politica neoliberista del mercato del lavoro (“flessibilità del mercato del lavoro”) – la dinamica della domanda è sistematicamente inibita, solo lo Stato può agire in senso contrario. Mediante una propria aggressiva politica della domanda può procurare al sistema dell’economia di mercato una dinamica sufficientemente grande da raggiungere obiettivi occupazionali ambiziosi. Gli USA lo hanno capito e hanno sviluppato – aldilà delle differenze di partito – un pragmatismo impressionante quanto all’indebitamento statale. Anche in Giappone lo Stato ha compreso che imprese che risparmiano creano una situazione completamente nuova e obbligano lo Stato a intervenire direttamente nella gestione della domanda aggregata.
Con il dogma di una “sana” politica fiscale la Commissione europea e il Consiglio europeo hanno abbandonato da anni il club dei governi dotati di ragionevolezza – principalmente per la spinta tedesca. Il risultato: alta e cronica disoccupazione. Una nuova Commissione avrebbe potuto offrire una chance per cambiare le cose. Ma già la prima decisione, la scelta del presidente della Commissione, porta nella direzione sbagliata. È perciò inevitabile che i problemi economici e sociali metteranno in forse l’intero progetto europeo, visto che i “Populisti” potranno puntare l’indice su un grandioso fallimento di politica economica.
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