La chiusura della mente americana
Nel corso di un dibattito sui mali della nostra società, al termine dell’intervento di chi scrive, un ascoltatore che aveva dato ampi segni di approvazione delle tesi esposte, non si trattenne e urlò: è tutta colpa dei comunisti. Il riflesso condizionato di chi è di destra è l’attribuzione di ogni male al lupo rosso. Non è così: l’infezione proviene dalle culture di matrice americana. I marxisti hanno fatto la loro parte nell’assecondare il processo di dissoluzione civile e culturale; le loro responsabilità, per quanto gravi, sono tuttavia inferiori a quelle dell’americanismo, da essi hanno ammirato in segreto per anni, eletto come modello dopo la caduta del comunismo reale. Chi va con lo zoppo, impara a zoppicare. Come disse Re Lear, sciagurati i tempi in cui i pazzi guidano i ciechi.
Dall’America è partito e si è propagato l’incendio, lì è l’origine dei veleni che hanno intossicato le nostre società. La chiusura della mente americana è il titolo di un saggio dirompente di Allan Bloom, convinto che la cultura Usa – e per contagio dell’Europa occidentale – vive dagli anni sessanta una crisi profonda, dietro l’apparenza di liberazione e creatività. Dalle università americane è partito l’attacco che ha scardinato sistemi secolari. Il mondo culturale non è un luogo di libertà, ma il magazzino delle influenze più nocive, prime fra tutte il relativismo e un malinteso senso dell’uguaglianza (il multiculturalismo), uniti in un’intenzione morale. Le merci avariate sono rapidamente giunte in Europa, scalzando l’intero edificio della nostra tradizione, estenuatadopo la prima guerra mondiale, la guerra civile intra europea vinta dalle potenze che chiamarono sul campo l’America.
In base al vento americano, la verità non esiste; crederci non è un errore, bensì un segno di intolleranza. Il relativismo, porta spalancata sul nichilismo, è, agli occhi dell’americanismo culturale, il nutrimento di una mente “aperta”, riflesso della società aperta teorizzata da Karl Popper. Tutte le culture sono equivalenti, le religioni sono opinioni senza rapporto con la conoscenza. La presunzione di “apertura” si risolve nel contrario: chiusura intollerante al sapere, ai principi, alle differenze, ai fatti.
Dall’università di Berkeley venne, già nel 1950, il primo siluro, La personalità autoritaria, opera a più mani coordinata da Theodor W. Adorno, ebreo tedesco che portò in America la Scuola di Francoforte. Attraverso gli strumenti critici del marxismo, essa elaborò una decostruzione della famiglia, delle strutture gerarchiche, dell’estetica, formulando altresì il concetto di cultura di massa. I francofortesi esercitarono una gigantesca influenza, utilizzando categorie della psicanalisi e di una sociologia nuova che condussero allo sviluppo della cosiddetta controcultura, affermatasi nel tempo come paradigma del pensiero occidentale sino a diventare la voce ufficiale dell’ultimo mezzo secolo.
A Berkeley e negli altri grandi atenei americani nacquero il pacifismo, il femminismo e si svilupparono le culture alternative nella musica, nell’arte, nelle lotte per il multiculturalismo, nei primi movimenti omosessuali. Si diffuse la rivoluzione sessuale, vissuta nel mito del “trip”, il viaggio psichedelico alla ricerca di esperienze estreme attraverso il potenziamento delle facoltà fisiche e intellettuali indotte dalle droghe. Le sostanze, a cominciare dal popolarissimo LSD – acido lisergico- furono sintetizzate in laboratori finanziati dagli apparati di sicurezza americani. Alcuni movimenti d’avanguardia, come l’espressionismo astratto nella pittura, furono impostidalle strutture riservate del potere americano per contrastare il “realismo socialista” sovietico, forma d’arte retorica, ridondante e propagandistica, che almeno richiedeva agli artisti di padroneggiare le tecniche, conoscere i materiali e rappresentare la realtà.
L’America impressiona per il gigantismo, ma non seduce per la sua bellezza. Scriveva il filosofo francese Rougier negli anni Trenta del secolo scorso: “la civiltà americana, così ricca di beni materiali, è profondamente inestetica. Delle sue origini ebree e puritane ha mantenuto l’indifferenza alla bellezza. In tre secoli, l’America non è riuscita a fondare una scuola d’arte originale. Ha ricalcato, ingrandendoli con il pantografo, i modelli che le proponeva la vecchia Europa“. Le cose sono cambiate in peggio. L’architettura si è ridotta alla ricerca dell’immenso e del più alto, senza riguardo per la forma, l’ordine e la bellezza, estremizzando i messaggi della Secessione viennese e di Bauhaus con l’aggiunta della strumentalità. I committenti sono i nuovi ricchi d’Oltreoceano, industriali e banchieri, spesso incolti, desiderosi di stupire, gareggiare nelle dimensioni di edifici sedi delle loro fabbriche, uffici e residenze private.
Per la prima volta, in ossequio al modo di pensare americano, l’architettura lavora per il presente e non per lasciare una duratura impronta nel tempo. Sua forma è lo smisurato, la geometria sino al prefabbricato da montarsi rapidamente ovunque. New York, Filadelfia o Berlino diventano simili, indistinguibili, come centri commerciali ed aeroporti, non-luoghi, templi atei del materialismo misurabile in denaro. Gli americani sono grandi frequentatori di musei e sale di esposizione – anch’essi aziende da cui trarre profitti, attratti da ciò che è più recente – il nuovo metafora del progresso – oltreché dalle opere dal prezzo più elevato sul mercato.
L’agenda culturale è stata a lungo dettata da europei attirati negli Usa da favorevoli opportunità economiche. Gli stessi francofortesi hanno dominato il panorama filosofico dalle cattedre offerte dall’università americana. Poiché tutto laggiù dipende dalla volontà dei privati, cioè dal loro denaro, è evidente che i temi e le idee diffuse dai laboratori di pensiero universitari sono gradite alle oligarchie economiche statunitensi, padrone della politica, proprietarie dell’enorme macchina di spettacolo e intrattenimento made in Usa, suggeritrici delle onnipotenti agenzie riservate del cosiddetto “stato profondo” a cui assicurano i finanziamenti e il coordinamento con l’apparato industriale e tecnologico.
La controcultura di ieri è diventata pensiero ufficiale per volontà e scelta dell’establishment, in ossequio al progetto di nuovo ordine mondiale globalista distillato nei raffinati pensatoi (think tank) del sistema. Mode, tendenze, comportamenti, modi di vita, suggestioni culturali e artistiche, propagati nel mondo come epidemie sono sempre espressioni delle oligarchie statunitensi. L’esito è la preferenza per ciò che è vistoso, superficiale, la predilezione per il pratico rispetto all’elegante, il colore alla sfumatura. Impressiona la fascinazione per chi è famoso.
Andy Warhol, icona della pop art, omosessuale praticante cattolico, rappresenta il tipico intellettuale americano. La sua frase più celebreè il distillato dell’americanismo: nel futuro ognuno sarà famoso in tutto il mondo per quindici minuti. L’opera di Warhol è incomprensibile. La sua indifferenza a quanto essa rappresenta la spoglia di qualsiasi intento comunicativo. Che cosa può significare il barattolo di conserve Campbell riprodotto centinaia di volte? Inutile cercare di rintracciare un valore estetico o un senso etico. Non vi è critica all’omogeneizzazione della società che impone alimenti preconfezionati uguali per tutti, giacché egli attribuiva valore positivo alla società americana per il suo livellamento. Il bello degli americani, disse, è che mangiamo tutti le stesse cose, dal presidente al barbone.
Evidente è l’adesione al mito dell’american way of life”, la favola di Cenerentola, paradiso dei vincenti, il cui obiettivo è l’attimo di fama e il conseguente successo economico, unico parametro di distinzione ammesso. L’intento era di accogliere le tendenze dissacratorie del dadaismo e di Marcel Duchamp, i cui “ready made” sono oggetti qualunque di cui il cosiddetto artista si appropria privandoli della funzione specifica, aggiungendo un titolo o una didascalia. Opera su di essi una manipolazione: esposti, conferisce loro statuto di opera d’arte. Follia, prestidigitazione, inganno collettivo: è la storia, molto americana, di gran parte dell’artecontemporanea dalle patate fritte e dai sedili di gabinetto di Claes Oldenburg alle lampadine elettriche colate nel bronzo di Jasper Johns. Il visivo ha definitivamente sostituito l’estetico.
Nella musica, le forme autenticamente americane sono il jazz e i generi espressi dalla popolazione di colore. La musica pop e rock è divenuta fenomeno mondiale in America dopo essere partita dalla Gran Bretagna nei primi anni 60. Si è trasformata in pilastro della cultura giovanile a partire dal celebre raduno di Woodstock del 1970, i tre giorni di “pace, amore e musica” (e acido lisergico) che hanno cambiato la percezione del mondo dei giovani occidentali. Riconvertita in mercato, è il più potente fenomeno di omogeneizzazione globale dell’ultimo mezzo secolo. Ha distruttogli altri generi musicali, livellato verso il basso la qualità dei prodotti e il gusto di massa, orientato al ritmo, alla percussione, talora al rumore fine a se stesso, allo scatenamento della sfera istintuale.
Tipicamente americano è il fumetto, facile da leggere, immediato, dai colori stridenti e con protagonisti i cui sentimenti sono ridotti a “frasi scheletro”, fortemente caratterizzati nel bene e nel male. Ne è simbolo Walt Disney con i suoi eroi, Topolino, il buon americano tutto legge e ordine, Paperino moderatamente trasgressivo, e poi Superman, Batman, gli eroi muscolosi e mascherati dalla doppia identità. Più recentemente i Peanuts, le strisce psicanalitiche dei bambini simbolo delle manie americane, Linuscon la coperta, l’oggetto “transizionale” degli psicologi, Charlie Brown tendente alla sconfitta, innamorato mai dichiarato dell’invisibile ragazzina dai capelli rossi, il bracchetto Snoopy, cane saggio dai pensieri umani. Una cultura ridotta all’osso, che non impegna l’intelletto, ma lo indirizza verso la volontà del potere, lo spirito gregario, l’accumulazione, nega le sfumaturee rifiuta ogni approfondimento. All’introspezione pensa il lettino dell’analista e, per i meno abbienti, l’infinita manualistica che spiega alle masse come diventare ricchi, famosi e felici.
La lingua inglese americanizzata è un simbolo di involuzione culturale. Superata, per le esigenze di immigrati delle più disparate aree linguistiche, la distanza tra lingua scritta e parlata, è diventata presto il riflesso dei ceti più numerosi, meno istruiti, assumendo come modello la lingua della strada. La familiarità si è curvata in volgarità, adesione al credo che rifiuta le gerarchie. L’idioma angloamericano è una tecnica di comunicazione disseccata e semplificata. La lingua è il riflesso della mentalità di chi l’ha prodotta. L’umanità non è composta da individui simili che parlano lingue diverse, ma da persone che si esprimono in idiomi distinti poiché sono diversi. Ciò è incomprensibile all’americano, che chiede alla lingua semplicità e poche regole, riflesso della povertà del suo animo.
L’inglese americano è ottimo per discipline descrittive, tecniche, ma è inadatto al pensiero concettuale, che rifiuta con fastidio. Oltre alla polisemia, figlia dei molteplici apporti, mostra la tendenza ad atrofizzarsi attraverso sigle, acronimi e monosillabi (pic per picture, Baltie per Baltimora, una città con il diminutivo, L.A. per Los Angeles), la grafia tende a riprodurre una pronuncia standardizzata. Diventato lingua franca dell’economia sovrana del mondo, si sfarina in grugnito globale, lontano dalla ricchezza e dall’armonia di Shakespeare ma anche della letteratura statunitense del secolo XIX.
L’esteriorità semplificatrice americana spiega anche il successo della teoria psicologica diventata categoria interpretativa del mondo, il comportamentismo (behaviorism). Ogni condotta umana è ricondotta a reazioni a stimoli esterni. L’essere umano è una tabula rasa, nulla è innato o spontaneo. Base di tutto sono la ricompensa, ovvero il guadagno, e la frustrazione, la sua mancanza. Il behaviorismo finisce per negare l’esistenza stessa della coscienza. La psicologia è ridotta allo studio dei movimenti, cioè alle forme esterne del comportamento. John B. Watson, il fondatore, sostenne che avrebbe potuto “produrre”qualsiasi tipo di individuo opportunamente indirizzato dall’età evolutiva.
E’ un principio terribile, che giustifica ogni manipolazione, tende all’assoggettamento senza limiti delle forze della natura, totalitario e sottilmente ideologico. Gli uomini, per gli americani, sono simili a piante da trapiantare e innestare al fine di perfezionarle. L’uguaglianza culturale è perseguita accanitamente nella corsa verso il basso, insieme con uno sguardo interamente centrato sul presente, un’odiernità che cristallizza l’aggettivo moderno (al modo odierno). L’America ha inventato una nuova classe sociale, quella degli esperti, diversi dagli uomini colti, il cui sapere è considerato una perdita di tempo. Gli esperti iperspecializzati, specie nelle discipline tecnoscientifiche, sanno tutto su un pezzetto microscopico dello scibile umano, ma esercitano un potere che rende la società intera sempre più strumentale, intellettualmente chiusa, arida, disinteressata a ogni domanda di senso, paga del “come si fa”, avida di consumo.
Dal punto di vista filosofico, l’apporto americano è il pragmatismo, che attribuisce valore all’azione come unico criterio di verità. Riduce la ricerca all’interesse pratico volto alla realizzazione di obiettivi dati. Non crede nell’esistenza della verità: è sufficiente la decisione. Per William James, “ciascuno deve agire come crede meglio; se ha torto, peggio per lui”. American way of philosophy. Quanto alle credenze, non valgono nulla, se non come segno della “volontà di credere”. A concezioni di questo tipo non poteva sfuggire il diritto. Il positivismo giuridico di Hans Kelsen, praghese emigrato in America, ha soppiantato le ideeche postulano l’esistenza di principi eterni iscritti nel cuore dell’uomo. Per i giuspositivisti, il diritto è solo il prodotto della volontà storica. La sua validità dipende esclusivamente dal fatto di essere posto attraverso procedure “legali”. Separa quindi la legalità dalla legittimità, ovvero dalla dimensione etica, divenendo, in sostanza, pura forza.
La minaccia americana è metaculturale, rafforzata dal dominio che esercitano gli Usa e dal carattere messianico della sua visione del mondo. La forma più perniciosa è il mondialismo, misto di egalitarismo, universalismo e paradossale suprematismo oligarchico. Il mondialismo conduce all’americanizzazione della parte di mondo, detta impropriamente Occidente, sottomessa, volente o nolente, all’egemonia degli Stati Uniti. Per l’Europa è una prospettiva che significa la morte collettiva, la fine della sua civiltà. Il mondialismo livellatore nella forma dell’americanizzazione forzata è una minaccia che fa tremare. Al di là delle recriminazioni, deve far meditare, indurre a prendere le distanze da chi ci invade con i suoi modi di vita, la sua lingua, le false idee uscite dalle università, il politicamente corretto, il femminismo rivendicativo, l’omosessualismo, la disgustosa menzogna della teorie di genere, il multiculturalismo relativista, il mercato misura di tutte le cose, la riduzione dell’uomo a macchina desiderante, il nuovo schiavismo, il controllo sociale per via tecnologica e presto biochimica.
Non dobbiamo morire americani. I popoli che smarriscono l’identità non sono in grado di difendere la propria sopravvivenza fisica, statuale e culturale. Colonizzati, isteriliti, muoiono di vecchiaia. Delle due l’una: o ritroveremo noi stessi, o il mondo andrà avanti senza di noi.L’America non è il destino. Troveremo, da questo lato del mare, chi riaprirà le nostre menti chiuse, americanizzate, prigioniere di menzogne, e pronuncerà, come Fichte due secoli or sono alla nazione tedesca, parole di riscossa, risveglio, rinascita?
Fonte: https://www.qelsi.it/2019/la-chiusura-della-mente-americana/
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