Il Libro Insostenibile: Breve difesa di La Distruzione della ragione
Di LE PAROLE E LE COSE (Mimmo Cangiano)
tende a questo fine: dedurre dalla gnoseologia
l’«eternità» della società capitalistica
György Lukács
Esiste un motivo centrale e ricorrente, un topos spesso ignorato, che attraversa la letteratura, il cinema, e più in generale un gran numero delle più svariate macchine narrative tardo-ottocentesche e novecentesche. Si manifesta quando, durante la lettura o la visione, all’improvviso l’autore ci svela che le azioni di un personaggio, fatte per ragioni dichiarate come ideologiche, etiche o connesse a una sfera comunque idealistica, collegate soprattutto a motivazioni storiche, collettive, sono in realtà eseguite per puri scopi e motivi personali (siano questi abietti o nobili ora non è importante). È un momento fondante nella ricezione di un plot. È il momento in cui il personaggio si abbassa al livello del fruitore, e il fruitore può riconoscere nel personaggio se stesso. Qui il lettore liberale sorride tranquillizzato, rassicurato nella sua coscienza che niente di collettivo sia realmente possibile, che dietro le grandi narrazioni, dietro i punti di vista totalizzanti, e finanche dietro la Storia, non vi sia altro che l’individuo, coi suoi obiettivi, bisogni e desideri: inevitabilmente separato dai suoi simili. Quel sorriso, per dirla con Gramsci, è il ghigno di Gwynplaine, perché è il momento in cui l’alienazione del lettore dai suoi simili trova conforto, tristissimo conforto, nell’alienazione del personaggio, elevato a simbolo di una condizione che al nostro immaginato lettore liberale neanche appare più storica, ma quasi naturale: questi siamo, “questo schifo qui”, dice se è in fase pessimista o se ha digerito male, il resto è ideologia.
Lukács ha lottato per tutta la vita contro la naturalizzazione di ciò che con Marx definiva, di questo si tratta, atomizzazione (un grande rimosso dal dibattito politico corrente). Ha lottato contro la controparte culturale di questa, che ha scorto in opere letterarie (i suoi concetti di “tipico” e “realismo” nascono in questa lotta), in tradizioni filosofiche e nei sintomi della vita quotidiana. E in quel libro che “non possiamo prendere sul serio” (Susan Sontag) ha creduto di poter inchiodare sulla pagina circa due secoli di difesa culturale dell’atomizzazione, in una tradizione che ha definito, creando numerose incomprensioni, “irrazionalismo”. Si trattava, secondo lui, di tutti quei tentativi culturali fatti al fine di rinchiudere il movimento storico all’interno della coscienza soggettiva.
Perché parlare di un libro pubblicato nel 1954? Un testo che, come ogni studioso dabbene sa, è emerso dalle ombre sinistre dell’ultima fase staliniana ed è lontano non solo dal tanto amato giovane Lukács, ma anche dal fiero “tribuno del popolo” della rivoluzione di Béla Kun, dal libero hegelo-marxista di Storia e coscienza di classe (1922)? Potrei evitare problemi e dire che dobbiamo parlarne perché ha inciso in maniera determinate su alcuni sviluppi culturali del secondo ‘900 (e sulla nostra critica letteraria), ma credo ci sia di più. Credo che la domanda e la risposta che Lukács scrive all’inizio del lungo volume parli ancora di noi. La domanda era “Perché a un certo punto la gnoseologia, la teoria della conoscenza, diventa la forma filosofica dominante?” La risposta (circa 800 pagine) aveva appunto a che fare con l’intento ideologico della borghesia di soggettivizzare la Storia al fine di immobilizzarla.
Partiamo però da casa nostra. Se aprite un libro italiano di critica letteraria scritto fra la fine degli anni’ 50 e l’inizio degli anni ’90, è altamente probabile che vi imbattiate nella parola “irrazionalismo”. Numerosi studiosi hanno spesso fatto riferimento a tale concetto per definire tanto l’attività culturale quanto la produzione artistica di un numero elevatissimo di intellettuali, italiani e non. Negli ultimi vent’anni circa, invece, col tramonto dell’egemonia marxista all’interno della cultura di sinistra, si è verificato qualcosa di totalmente differente: in quegli stessi intellettuali (Pirandello ne è ad esempio uno dei casi limite) si sono cominciati a esaltare quegli aspetti che, pertinenti alla sfera dell’esistenzialismo, del nichilismo e della filosofia della vita, riferiscono all’entrata in crisi della Metafisica, del logos, della ragione sistematizzante e della stessa idea di oggettività. Gli elementi pertinenti ad una prospettiva grosso modo scettico-relativista sono stati celebrati quali corrosivi di quelle prospettive universalizzanti che concentrano in sé le valenze dei discorsi di Potere. Le stesse filosofie della crisi, col loro porsi a difesa del “particolare” sotto attacco da parte di una metafisica ancora platonizzante e di una inglobante dialettica, sono spesso state esaltate a campione di una pluralistica, aperta, corrosiva critica. Lukács ha perso la sua battaglia, e quelli che per lui erano i sintomi cardine dell’irrazionalismo, sono addirittura diventati elementi politicamente e culturalmente progressivi.
L’emergere di tale prospettiva è però in parte ascrivibile proprio al lavoro della precedente generazione marxista, la quale ha utilizzato il concetto lukácsiano di “irrazionalismo” in modo indiscriminato e superficiale[1], riducendolo spesso a un vago misticismo, a uno spiritualismo mal chiarito, a propositi estetizzanti, banalmente anti-democratici o banalmente superomistici, sovrapponendolo all’irrazionalismo crociano o addirittura equiparandolo a quello dell’ultima generazione ottocentesca.
L’irrazionalismo, secondo Lukács, consiste invece nel respingere ogni pretesa di conoscibilità razionale della realtà oggettiva, secondo un modello che non concerne assolutamente solo la scienza (come poteva ancora essere per gli intellettuali tardo-ottocenteschi), ma che ingloba nell’aporia conoscitiva tanto l’arte quanto la religione e, naturalmente, la filosofia, salvo naturalmente quella filosofia proiettata a rivelare tale verità – a rivelare, cioè, l’impossibilità dell’approdo all’oggettività, e dunque destinata a rimodularsi come garante di uno strano e nuovo tipo di oggettività, che è ciò che Lukács definiva “il principio formale ordinatore del materiale”, cioè il busto teoretico delle prospettive nichiliste e para-nichiliste:
Questa artificiosa trasformazione della pretesta insolubilità in una soluzione, questa pretesa che nel ritirarsi e nello scantonare di fronte a una soluzione, in questa fuga di fronte ad essa, sia contenuta una soluzione positiva, un «vero» raggiungimento della realtà, è il contrassegno decisivo dell’irrazionalismo.
Per Lukács l’irrazionalismo, che ha “come intento principale […] la radicale soggettivizzazione della storia”, trova piena espressione fra gli ultimi anni dell’800 e i primi del ‘900 attraverso “la riduzione della gnoseologia kantiana alla gnoseologia di Berkeley”, così come prima sviluppata nell’ambito dell’epistemologia scientifica da autori quali Mach e Avenarius. La pretesa inconoscibilità della realtà oggettiva trasferisce l’oggettività medesima all’interno della soggettività, e questa è presentata dalla gnoseologia come soggetta alle oscillazioni della psicologia, le quali necessariamente inficiano (la psicologia di un soggetto è ovviamente mobile) ogni possibile e stabile approdo conoscitivo: “il cancellare i confini fra gnoseologica e psicologia fa parte delle caratteristiche essenziali dell’irrazionalismo moderno”.
Sbilanciato il rapporto fra soggetto e realtà a favore del primo termine, ogni approdo conoscitivo si riduce a pseudo-oggettività, a ciò che Mach definisce “economia di pensiero” o “elemento”. Attraverso autori quali Nietzsche, W. James, Bergson, tali presupposti esulano poi dal campo dell’epistemologia scientifica e si trasferiscono su un più generale piano filosofico, presentando il continuo fallimento dell’elaborazione concettuale tanto come espressione dello stadio ultimo della gnoseologia, quanto come caratteristica ineludibile dell’esistenza in generale (non di un fase storica di questa). L’immobilizzazione del progresso storico (necessità del pensiero borghese contro l’avanzare del proletariato e della sua ideologia dialettica e materialista) non passa più ora, secondo Lukács, dalla proposizione di valori immutabili e assoluti (è anzi proprio la borghesia, nella sua fase rivoluzionaria, che distrugge i vecchi valori assoluti), ma viene a basarsi proprio sul presupposto di un divenire continuo – di una mobilità inarrestabile e preclusa a ogni calcificazione – che però esclude il movimento in avanti. Non lo esclude, naturalmente, sul piano dell’utilità reale (la scienza deve ad esempio avanzare in quanto necessaria alla produzione), ma lo esclude sul piano generalizzato della teoria filosofica, dove l’intellettuale si fa custode e rivelatore della nuova gnoseologia; colui che, avendo “capito il giuoco”, riconduce i presupposti scettici della gnoseologia sul piano di una legge generale (il busto teoretico). Questa legge abbassa ogni progresso conoscitivo al livello di apparenza, illusione, o metafisica, e riconduce i movimenti sociali che seguono differenti modelli conoscitivi (come ad esempio il materialismo) ad attardati difensori di sistemi di pensiero che la moderna gnoseologia avrebbe già mostrato vani. La mobilità estrema che l’intreccio fra psicologia e gnoseologia farebbe presupporre è così in realtà del tutto immobile perché viene a corrispondere alla realtà antropologica (sovrastorica) dell’uomo stesso.
In gioco non è più, per Lukács, il classico contrasto fra fenomeno ed essenza, ma solo perché la nuova dominante culturale passa a identificare nella ‘contraddizione’, contraddizione fra le nostre capacità conoscitive e il reale, l’unico carattere concreto (vero) della natura stessa. Si tratta cioè di un relativismo che tende a fare eterno il proprio limite. Ma allora non siamo poi così lontani da Storia e coscienza di classe:
Ogni relativismo […] che rende «eterno» il limite da esso fissato, introduce, involontariamente, proprio per via di questa concezione del relativismo, l’assoluto, il principio «atemporale» del pensiero.
La dissoluzione del reale ad opera dell’irrazionalismo consiste nella dissoluzione ‘soggettiva’ di un’oggettività che però passa a essere considerata sulla base delle istanze soggettivistiche, dove appunto i modi di conoscenza del reale del soggetto (gnoseologia) precedono gli effetti che dal reale ricadono sul soggetto medesimo. Sono tali istanze soggettivistiche che, affermando la vanità di ogni cosa concreta quando questa è in relazione con la psicologia mobile dell’individuo che la conosce, risolvono la realtà in gioco rappresentativo, dove nessuna ‘possibilità’ ha più valore dell’altra, tutte si presentano come convertibili, ma anche tutte si rapportano alla teoria gnoseologica che le astrae vanificandole. La conoscenza non è più intesa come oggettività teoretico/culturale che è espressione e approssimazione di determinati rapporti storico-sociali, ma meramente come comprensione dell’eterna (non-storica) impossibilità stessa di una reale conoscenza.
L’oggetto che la rappresentazione gnoseologica (anche in campo artistico) porta in scena, non è allora un momento (come pure è stato scritto) dell’allegoria benjaminiana che alla perduta autenticità allude per contrasto, ma il primo step di una liberazione soggettiva che altera il rapporto soggetto-oggetto assegnando a quest’ultimo i ‘sintomi’ (storici) del primo. Vuole cioè mettere in scacco l’oggettività del reale al fine di teorizzare l’opposizione agonistica fra chi ha visto la realtà del mondo (che è eterno e sempre inarrestabile movimento) e chi persiste nell’accecamento essenzialistico/sostanzialistico.
È chiaro che a questo punto la risposta, per Lukács, non risiede più nelle postulate e intere certezze della sua gioventù, ma questo proprio perché il relativismo dominante non è il contropolo delle antiche metafisiche, delle antiche Verità, ma la loro versione corrente (anche i miti nazi-fascisti sorgono del resto per Lukács dall’ipostatizzazione della gnoseologia). Ciò che li accomuna è il rifiuto di quel rapporto dialettico fra teoria e prassi (cioè la Storia) che impedisce a qualsiasi limite dato storicamente di ritenersi eterno. E siamo ancora con Storia e coscienza di classe: “Nel momento in cui si è giunti ad unificare la teoria con la praxis è divenuta possibile la modificazione della realtà, l’assoluto ed il suo contropolo relativistico hanno esaurito nello stesso tempo il loro ruolo storico”. Il pensiero dominante (egemonico) nel ‘900 non si barrica più per Lukács, se non in rari e subalterni casi, dietro una presunta atemporalità, ma naturalizza – immobilizza – il principio stesso del movimento che i comunisti gli contrappongono. La frammentazione sociale è solo superata nelle modalità di un intero che non include né la prospettiva storica né quella prammatica, e che quindi ripropone lo stesso desiderio di staticità che è alla base del modo di funzionamento del sociale. Il pensiero borghese non riesce ad uscire dalle modalità del corrente funzionamento di un società che ha anzitutto il desiderio di evitare qualsiasi trasformazione sul piano della prassi. Si trova in ogni caso costretto a formalizzare un’idea di staticità, e la critica del possibile valore collettivo di idee e scopi è appunto l’esaltazione di un’atomizzazione che si vuole eterna, dove il movimento è solo l’altra faccia dell’accordo impossibile fra essere umani. E tale modello di staticità veicola appunto l’idea di una non-trasformabilità del mondo in cui viviamo, cioè del sistema capitalistico.
Lo scopo dell’irrazionalismo non è veicolare passate forme statiche di misticismo e lontane verità ultramontane, il suo scopo, per Lukács, è immortalare nella stasi, come in una fotografia, le immagini dialettiche del movimento e della contraddizione, del plurale e del molteplice: “dietro la seducente apparenza di una viva mobilità restaura proprio la statica conservatrice e reazionaria”. Dall’altro lato vi è ovviamente la coscienza dialettica secondo cui i portati della gnoseologia contemporanea (e la stessa egemonia di questa) sono dettati da modificazioni avvenute sul piano della prassi sociale e collettiva, e possono dunque essere modificati, storicamente, modificando quella. Ciò vuol dire (ed è anche per questo che La distruzione della ragione mi pare parlarci ancora) che la corrente battaglia ideologico-culturale contro il concetto stesso di oggettività (oggettività storica, per carità) potrebbe nascondere (e non lo nasconde effettivamente quando si proclama direttamente “prassi”? quando pensa di cambiare la realtà per via culturalista?) lo stesso nucleo di quel gigantesco apparato culturale che Lukács ha definito “irrazionalismo”.
[1] Lo ha così utilizzato, crediamo, perché nel momento di una piena egemonia culturale marxista quel concetto risultava in fondo inutile, dal momento che attaccava un avversario al tempo non così potente. La sua fondamentale utilità è tornata chiara solo recentemente.
Fonte: http://www.leparoleelecose.it/?p=37473
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