Quando si conquistavano i diritti: come nacque lo Statuto
di Carlo Clericetti
A dieci anni dalla scomparsa di Gino Giugni, avvenuta il 4 ottobre del 2009, vari convegni ricordano la figura dello studioso e politico il cui nome è legato a quella tappa fondamentale nel diritto del lavoro che è lo Statuto dei lavoratori. Di come nacque quella legge si è parlato in un recente convegno della Fondazione Nenni, in cui, oltre che di Giugni, si è parlato del ruolo fondamentale che ebbe l’allora ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini, che morì prima di vedere approvate quelle norme che aveva voluto con tanta forza. E di colui che portò al traguardo la legge, il suo successore Carlo Donat Cattin. Socialisti i primi due, democristiano il terzo, ma tutti e tre decisi a “far entrare la Costituzione nelle fabbriche”, come disse Brodolini.
La genesi dello Statuto è stata ricostruita dalla testimonianza di Giuseppe De Rita, che fece parte della commissione costituita da Brodolini a quello scopo, con a capo Giugni. Il testo che Giugni consegnò al ministro, ha ricordato De Rita, era mirato soprattutto sul ruolo delle organizzazioni di rappresentanza, sindacali e padronali. Nella concezione di Giugni i diritti individuali sarebbero stati poi contrattati dalle parti, invece che definiti nella legge. Brodolini, invece, fece virare nettamente il testo nel senso dell’attribuzione dei diritti personali.
Come ha spiegato Giuliano Amato in un altro convegno al Senato, “Gino era per l’autonomia dell’ordinamento sindacale, che fondamentalmente significa che il mondo del lavoro si dà le sue regole. Gino è stato tra i socialisti più vicini alla Cisl che alla Cgil. La Cisl è sempre stata la più diffidente verso l’intervento della legge nelle questioni del lavoro, accettandolo magari come recepimento di un processo avvenuto tra le parti; la Cgil era un po’ più propensa ad utilizzare la legge”.
De Rita, sostenitore dell’importanza fondamentale dei corpi intermedi, era contrario a quella svolta, ma Giugni dopo qualche tentennamento l’accettò, e quindi andò avanti il testo rivisto da Brodolini. Che, come detto, poco dopo venne a mancare. Ma il suo successore Donat Cattin sosteneva la legge con altrettanta convinzione. Anzi, secondo il segretario della Fondazione, Carlo Fiordaliso, si deve a lui la stesura di quello che sarebbe divenuto il simbolo e la disposizione più contestata della legge, l’articolo 18, che stabiliva l’obbligo di reintegrare nel posto di lavoro chi fosse stato licenziato senza una giusta causa. In particolare sul quell’articolo ci fu una dura opposizione non solo della Confindustria, ma anche dell’ala più moderata della Dc. Alla fine si giunse a un compromesso: l’articolo 18 non sarebbe stato applicato nelle aziende con meno di 15 dipendenti. E fu quello il motivo principale, è stato osservato, per cui il Pci negò il voto favorevole alla legge, decidendo per l’astensione.
Dice Antonio Lettieri, che allora ricopriva incarichi di primo piano nella Cgil e interagiva con i protagonisti di questa vicenda: “Non c’è dubbio che fu Brodolini a volere lo Statuto. Affidò la sua elaborazione al più importante tra i giuslavoristi, qual era appunto Gino Giugni, ma gli diede la sua impronta. Morì poco dopo, e il percorso fu completato dallo stesso Giugni e da Donat Cattin, che lo difese dai pesanti attacchi politici. Se fu quest’ulultimo l’estensore dell’articolo 18? Non credo: i ministri danno gli imput politici, poi la stesura materiale viene affidata a chi possiede le competenze tecnico-giuridiche adeguate, come appunto Giugni”. In fondo, un dettaglio di non grande rilievo. La paternità politica dello Statuto è di certo di Brodolini, e Giugni e Donat Cattin lo portarono al traguardo.
Tutte interessanti le relazioni (qui l’elenco), tra cui una testimonianza del popolare giornalista Giovanni Floris, che entrò in contatto con il mondo sindacale per preparare la sua tesi sulle relazioni industriali e stabilì con Giugni un rapporto di collaborazione destinato a durare nel tempo.
Tra qualche mese lo Statuto compirà 50 anni (la legge porta la data del 20 maggio 1970). Rimane il simbolo di una stagione in cui il termine “riforme” aveva il significato di un miglioramento delle condizioni dei lavoratori, mentre oggi solo sentir pronunciare quella parola provoca qualche brivido e molti timori, e si usa a sproposito il concetto di “populismo” per mescolare in un solo calderone le false promesse delle destre con le richieste di chi vorrebbe più giustizia sociale. Distinguere le une dalle altre è il passaggio necessario per poter sperare in un futuro migliore.
Fonte :http://clericetti.blogautore.repubblica.it/
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