L’illusione dell’austerità
Di INTELLETTUALE DISSIDENTE (Claudio Freschi)
Siamo ormai abituati all’idea che il debito pubblico sia la causa di ogni male e che l’unico palliativo possibile alle crisi economiche siano rigidi cicli di austerità. Un dogma, questo, che non supera l’esame della storia: l’austerità non ha funzionato e non funzionerà mai.
Negli ultimi 10 anni la maggioranza delle nazioni europee sono state oggetto di un esperimento volto a dimostrare come paesi in profonda crisi economica fossero in grado di ritrovare la loro prosperità attraverso un programma di austerità, ovvero attraverso tagli alla spesa pubblica. Per i sostenitori del rigore la riduzione dei debiti e del deficit dello Stato avrebbe dovuto aumentare la competitività e portare ad una vagamente definita “fiducia delle imprese”. La riduzione della spesa pubblica avrebbe stimolato l’investimento privato a seguito della diminuzione dell’intervento dello Stato in molti settori dell’economia, e allo stesso modo avrebbe portato ad un abbassamento del debito e ad un miglioramento del bilancio nazionale. In questo modo produttori e consumatori si sarebbero sentiti più fiduciosi, investendo e spendendo di più avrebbero permesso all’economia di crescere di nuovo.
Il risultato di questo esperimento è sotto gli occhi di tutti, l’austerità non ha funzionato, o meglio non ha funzionato per tutti. In molti paesi il Prodotto Interno Lordo non ha ancora raggiunto i livelli precedenti alla crisi del 2008, il debito pubblico è generalmente salito nei paesi più indebitati e tutto questo senza contare il costo sociale delle politiche di austerità, salatissimo in termini di disoccupazione, peggioramento dei servizi di base e in generale di un accrescimento delle diseguaglianze tra persone abbienti e le classi più deboli. Per capire come nonostante i ripetuti fallimenti, l’austerità sia ancora oggi vista come l’unica politica economica da adottare in un sistema liberista occorre fare un piccolo viaggio nel tempo.
Le origini del liberismo
Occorre risalire al 1690 quando il filosofo inglese John Locke nel suo Two treatises of government (1690; trad. it. Due trattati sul governo) arrivò alla conclusione che una certa forma di diseguaglianza sociale fosse una inevitabile conseguenza della creazione della moneta e della proprietà privata. Locke teorizzò quindi che fosse necessario un intervento dello Stato che andasse in qualche modo a moderare le iniquità prodotte dal mercato, ma allo stesso tempo questo intervento poteva diventare una minaccia per la stessa proprietà privata qualora il prelievo fiscale, necessario per finanziare la spesa pubblica, diventasse troppo severo. Si aprì così ufficialmente il dibattito sulla presenza dello Stato in Economia.
Nel 1700 altri due pensatori britannici, David Hume e Adam Smith, si posero il problema di come finanziare lo Stato in maniera meno invasiva rispetto alla semplice imposizione fiscale. Entrambi pensarono alla soluzione del debito pubblico, ma finirono col rigettarla. Lo Stato poteva prendere in prestito denaro offrendo ai privati la possibilità di effettuare investimenti meno rischiosi ma altrettanto redditizi con l’emissione di titoli di debito pubblico. In questo modo si finanziava lo Stato senza ricorrere alla tassazione, ed anzi ottenendo anche un interesse in cambio. Ma Adam Smith giunse alla conclusione che la continua ricerca di compratori per i titoli di debito avrebbe spinto lo Stato ad offrire rendimenti sempre maggiori, distogliendo risorse private altrimenti destinate ad investimenti guidati dalle necessità del mercato. Il processo avrebbe quindi portato ad una minore crescita economica, ad un aumento dei tassi di interesse e ad un indebitamento crescente dello Stato che sarebbe dovuto ricorrere comunque ad una pesante tassazione per ridurlo. Hume e Smith giunsero quindi alla conclusione che il debito pubblico fosse un “veleno” da evitare ad ogni costo, nonostante la sua efficacia nel breve periodo.
Nel 1800 si formarono così due scuole di pensiero. Alcuni economisti come l’inglese David Ricardo mirarono ad eliminare completamente l’intervento dello stato in economia considerandolo controproducente, ponendo una illimitata fiducia nelle capacità del mercato di trovare da solo un equilibrio. Altri come John Stuart Mill teorizzarono un ruolo dello Stato, seppur limitato, tendente a smussare le diseguaglianze sociali. Secondo Mill il mercato non era in grado di riequilibrarsi da solo a causa della volatilità dei cicli economici, della disoccupazione e della crescente povertà, e quindi l’intervento statale diventava imprescindibile.
Nel ventesimo secolo il pensiero liberista continuò a dipanarsi secondo queste due strade. Da una parte i seguaci di Ricardo, come gli austriaci Joseph Schumpeter o Friedrich Hayek, che respinsero ancora più fermamente l’intervento dello Stato ed il ricorso debito pubblico. Dall’altra i sostenitori di Mill come i britannici John Hobson e William Beveridge, fautori di uno stato più attivo e non contrari in linea di principio al suo indebitamento, che spianarono la strada alle teorie di John Maynard Keynes.
La critica di Keynes
La scuola austriaca si trovò negli anni ’20 e 30’ del secolo scorso a dover spiegare come mai nonostante la teorizzata tendenza all’autoregolamentazione, i mercati erano soggetti a veloci e talvolta spettacolari picchi di crescita e a dolorosissime ed improvvise crisi economiche. La colpa, secondo questa scuola di pensiero, era nell’eccessiva quantità di denaro immessa sul mercato, la famosa “trappola della liquidità”. Le banche prestavano troppo denaro, portando così ad una poco efficiente allocazione delle risorse e favorendo investimenti dubbi. Ad un certo punto i soldi per finanziare queste attività inizierebbero a scarseggiare ed i tassi di interesse a crescere, innescando un problema di restituzione del debito e il conseguente processo di fallimenti e bancarotte. Secondo la teoria classica degli austriaci lo Stato dovrebbe ergersi a mero spettatore di questo processo, lasciando fallire le aziende e mettendo le persone in condizione di vivere una vita più morigerata e ad effettuare investimenti più oculati. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna provarono questa politica economica durante la Grande Depressione, ed i risultati furono disastrosi.
Fu solo con l’avvento di John Maynard Keynes e della sua “Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” pubblicata nel 1936 che il dogma dell’austerità iniziò a vacillare. Keynes sosteneva non vi fosse alcuna possibilità che un sistema basato sul libero mercato raggiungesse da solo un nuovo equilibrio, in pratica per l’economista di Cambridge un sistema liberista potrebbe in teoria non recuperare mai da una recessione, ed essere condannato ad avere un tasso di disoccupazione insostenibile in assenza di interventi statali. Per ovviare a questo gli Stati dovrebbero prendere a prestito moneta (ad esempio emettendo titoli del debito pubblico) ed immettere questa moneta in economia attraverso una massiccia opera di investimenti pubblici, che attraverso l’effetto moltiplicatore saranno in grado di far crescere l’economia dei singoli paesi in maniera più che proporzionale rispetto alla spesa pubblica. Solo con la ripresa e la crescita economica gli Stati saranno in grado di ripagare il loro debito.
La grande illusione continua
Ma nonostante gli avvertimenti di Keynes e il fallimento delle politiche di austerità poste in atto dalle maggiori economie mondiali nel primo dopoguerra ed in epoche successive fino ad arrivare ai giorni nostri, l’idea del rigore economico torna, piuttosto inspiegabilmente, sempre di gran moda. In realtà un motivo c’è ed è anche piuttosto scontato. L’idea di austerità diventa seducente per la semplicità del suo concetto principale, ovvero “non si può curare il problema del debito pubblico emettendo altro debito”. Pur essendo un concetto facile ed in qualche modo innegabile dal punto di vista logico, vi sono diversi fattori che suggeriscono come tagliare la spesa pubblica non sia la migliore delle opzioni per le nazioni fortemente indebitate.
Il primo fattore riguarda la distribuzione del reddito in quanto gli effetti dell’austerità ricadono in maniera diversa sulle popolazioni, penalizzando le classi più deboli. Le persone meno abbienti saranno maggiormente danneggiate in quanto più dipendenti da servizi pubblici come sanità e trasporti, e prive di sufficienti riserve di denaro per fare fronte ai tagli.
Il secondo fattore è più complesso e riguarda l’interdipendenza tra le varie nazioni. I fautori del liberismo sostengono che la sobrietà nei conti pubblici sia in grado di promuovere la spesa privata. Ma se la stessa politica di contenimento dei costi è attuata simultaneamente in più nazioni fortemente connesse tra loro, il risultato non potrà che essere quello di ottenere una ulteriore contrazione. Prendiamo ad esempio quello che è avvenuto e sta avvenendo all’intero dell’Eurozona dove tutti gli stati membri sono importanti partner commerciali tra loro. Tagliando la spesa pubblica e lasciando al mercato il compito di guidare gli investimenti si assisterebbe ad una diminuzione dei salari reali di una nazione che, diventando più competitiva sul fronte dei costi, riuscirebbe a produrre beni ad un prezzo più basso. Ma se tutte le nazioni si comportassero allo stesso modo, ed essendo interconnesse tra loro, nessuno sarebbe in grado di effettuare gli acquisti di questi beni facendo ripartire l’economia.
Il terzo ed ultimo fattore è strettamente legato al precedente ed è fondamentalmente basato sulla logica. L’assunzione liberista che il taglio della spesa pubblica porti ad un aumento della fiducia dei consumatori e quindi ad un incremento di spesa ed investimenti è quantomeno dubbio. Secondo questa teoria i consumatori prenderebbero sempre in considerazione le politiche governative nelle loro previsioni di spesa a lungo termine. Nel momento in cui un governo dovesse annunciare un taglio drastico delle spese il privato sarebbe immediatamente portato a pensare che in futuro le tasse diminuiranno e quindi ad aumentare i suoi livelli di spesa, ponendo di fatto fine alla recessione nonostante il collasso economico che lo circonda. Come ha fatto notare tra gli altri il premio Nobel Paul Krugman, l’idea che questo tipo di comportamento venga tenuto da persone finanziariamente ed economicamente incolte, terrorizzate dall’idea di perdere il proprio lavoro nel bel mezzo di una recessione, risulta quantomeno velleitaria.
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