Rimango sempre affascinato dai processi mentali e dalla relazione ambigua, a volte incestuosa e distorta tra fatti e credenze, tra paura e valutazione del rischio, tra aspettative e stima delle probabilità: è possibile che questo magma abbia ricoperto un ruolo adattativo nell’evoluzione della specie, di cui non è il caso di discutere qui, ma è certo che in tempi storici esso è stata la chiave del potere, il cemento del’asservimento e insieme la dinamite delle speranze. Proprio in questi giorni possiamo osservare all’opera una gigantesca discrasia fra allarme e realtà che svela anche il suo contrario, ovvero quello fra mancato allarme e realtà. I giornali, le televisioni, le chiacchiere sono piene di coronavirus e dei primi casi italiani, anzi del primo morto italiano, ma in mezzo a queste notizie che annunciano una possibile epidemia dovuta poi a mancanza di adeguati controlli, di menefreghismo di qualche singolo e di oscene paure di sforare il debito, non sappiamo che nelle prime tre settimane di febbraio si sono avuti circa 3 milioni e 800 mila casi di influenza che statisticamente hanno provocato l’1 per mille dei morti in special modo tra le persone anziane che già hanno problemi respiratori, polmonari e cardiaci per le quali le complicanze possono avere un esito infausto. Ogni anno infatti il numero dei morti varia dai 4 mila ai 10 mila solo in Italia. Vi allego il link al documento di Influnet sui casi in questa “stagione virale” se per caso abbiate dei dubbi.
“Ora secondo i dati provenienti dall’Oms il coronavirus cinese, che provoca appunto una sindrome influenzale, ha infettato con certezza meno di 80 mila persone in tutto il mondo e fatto finora 1871 morti. Molti, ma siccome all’inizio di un epidemia non batterica i cui sintomi si confondono con quelli di patologie simili, la stragrande maggioranza dei casi sfugge all’attenzione, è probabile che almeno in Cina gli infettati siano molti di più, secondo un fattore che possiamo stimare in 20 o 30. Questi metodi statistici che ci permettono di ipotizzare con abbastanza certezza che il coronavirus ha una mortalità uguale più probabilmente inferiore a quella dell’influenza, ma con una caratteristica decisiva che lo rende meno pericoloso: al contrario dei ceppi virali influenzali è poco eterogeneo e mutabile, dunque permette di sviluppare immunità. Sulla natura geopolitica e mediatica dell’ allarme epidemia non c’è alcun dubbio, visto che sindromi ben più estese sono passate sotto silenzio (vedi qui) anche se è lapalissiano affermare che meno agenti patogeni ci sono in giro meglio è, ma la sopravvalutazione emotiva dell’epidemia riporta immediatamente l’attenzione sulla sottovalutazione dell’influenza, che non entra significativamente nelle statistiche di morte, semplicemente perché i casi sono segnalati nelle caselle delle varie complicanze che può provocare.
Si può supporre che all’Inps si freghino le mani per la felicità, così come nei caveau dei fondi pensione, negli uffici delle assicurazioni sanitarie e all’Fmi, perché in fondo l’influenza sembra la malattia ideale per il sistema liberista, al punto che potrebbe essere stata messa a punto dai Chicago boys: uccide principalmente in età avanzata e per giunta persone che non soltanto percepiscono (orrore!) la pensione, ma che già richiedono molti trattamenti sanitari; essendo virale non ha una cura vera e propria, ma può essere affrontata con palliativi a basso costo; non sviluppa immunità e quindi permette grandi affari con i vaccini che vanno ripetuti ogni anno a seconda dei ceppi che si diffondono; tuttavia in persone in età giovanile o matura ma in condizioni di salute non compromesse può anche essere considerata un malanno bagatellare per il quale non è il caso di perdere troppi giorni di lavoro e pesare sulla produttività e il profitto del padrone: uno o due bastano o magari nessuno riempiendosi di antipiretici o di quelle medicine mix di stimolanti come la caffeina e antidolorifici che promettono di far “rimanere attivi”come dicono le insistenti pubblicità. In realtà non conosciamo affatto quali possano essere le conseguenze alla lunga di una sindrome virale affrontata in questo modo e parecchie volte nella vita, ma possiamo benissimo vedere come tutto questo si concili alla perfezione nell’allarme angoscioso per il debole coronavirus che si diffonde proprio perché generalmente provoca disturbi lievi o addirittura nulli come è stato nel caso dell’untore italiano e il silenzio sull’influenza che viene ricordata solo quando c’è da smerciare il vaccino. E che dire dei 440 mila bambini soto i cinque anni uccisi ogni anno dal rotavirus o delle 55 mila persone che muoiono ancora di rabbia in assenza di vaccino? Se fossimo perfette macchine razionali non avremmo dubbi su come affrontare questi eventi e su quale concentrarsi, ma così evidentemente non è: siamo troppo umani per evitare le disumanità di fondo.
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