La strage delle illusioni: il pensiero politico leopardiano contro la modernità
Di INTELLETTUALE DISSIDENTE (Massimiliano Vino)
La via leopardiana alla politica è una via d’imperfezione congenita e di ricerca forsennata della felicità, che non ha in sé nulla della ricerca spasmodica ed egoistica del piacere materiale, predominante nella moderna civiltà occidentale. Da conoscitore sottile ed instancabile della vita e delle forme umane, Leopardi critica un’umanità protesa verso la continua perfettibilità, inconsapevole del destino ineluttabile di Morte e di Nulla che inevitabilmente seguirà ad ogni azione o pensiero.
l 26 marzo del 1820 è la data indicata per il primo dei pensieri di Giacomo Leopardi, curati da Mario Andrea Rigoni, e raccolti nella prima vera antologia sul pensiero politico leopardiano edito Adelphi: La strage delle illusioni. Appena ventiduenne, un Giacomo Leopardi uscito dai suoi sette anni di studio matto e disperatissimo, scriveva nello Zibaldone:
Per le grandi azioni che la maggior parte non possono provenire se non da illusione, non basta ordinariamente l’inganno della fantasia come sarebbe quello di un filosofo, e come lo sono le illusioni de’ nostri giorni tanto scarsi di grandi fatti, ma si richiede l’inganno della ragione, come presso gli antichi.
La raccolta si apre dunque con un monito del poeta recanatese a tutta la grande politica europea: le azioni e le imprese gloriose possono provenire solo ingannandosi ed illudendosi. Un ammonimento spietato, figlio di un’idea aspramente critica nei confronti del progresso e della modernità. La Natura rappresenta l’unico elemento in grado di salvaguardare gli uomini e le più complesse costruzioni umane, vale a dire le nazioni e gli stati, da un altrimenti inevitabile declino. Inutile a tal proposito viene invece giudicato da Leopardi il contributo della filosofia e dei filosofi in generale («Un popolo di filosofi sarebbe il più piccolo e codardo del mondo»), giacché la Natura sarà sempre infinitamente superiore alla ragione e occorre riavvicinarsi alla Natura, anziché allontanarsene come auspicato da tutta la filosofia positivista del periodo. La Natura spingerebbe le nazioni al predominio rispetto alle altre.
Nel secolo di Leopardi, agli inizi del XIX secolo, le nazioni erano sospinte invece all’imitazione, specialmente, di un modello politico per eccellenza: quello parlamentare britannico. Un atteggiamento che trovava riscontri anche a livello culturale e di costumi e che anticipava clamorosamente una certa tendenza all’omologazione inizialmente a stelle e strisce e poi globale che oggi, a sua volta, predomina nel Vecchio Continente:
A che scopo, a che grandezza a che incremento può portare questa bella gara? Anche l’imitare è una tendenza naturale, ma ella giova, quando ci porta a cercar la somiglianza coi grandi e cogli ottimi. Ma chi cerca di somigliare a tutti? […] Quando saremo tutti uguali, lascio stare che bellezza che varietà troveremo nel mondo, ma domando io che utile ce ne verrà?
Riferimento ideale e termine di paragone resta poi, in Leopardi, l’antichità. Anche Roma divenne secondo il poeta una «specie di colonia greca in fatto di costumi e letteratura» rendendosi però anche sostanzialmente una civiltà di servi al pari dei greci. Dall’esempio antico emerge anche la critica del cosmopolitismo, ultimo stadio del progressivo allontanamento dell’uomo dallo stato di Natura. Il cosmopolitismo non sarebbe in grado, secondo Leopardi, di sostituire con valori altrettanto efficaci l’amor di patria:
Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che Cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo: l’amore patrio di Roma divenuto cosmopolita, divenne indifferente, inattivo e nullo: e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu più patria di nessuno, e i cittadini Romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto.
Se una sostanziale negazione dell’allargamento incondizionato del concetto di patria risulta funzionale all’amore per quest’ultima e ad una vita realmente attiva a sostegno della propria comunità, ad essere messa in discussione nella concezione politica leopardiana, come già accennato, è anche l’ampliamento degli strumenti razionali e della conoscenza filosofica. Una “mezza filosofia”, madre di numerosi errori, risulterebbe comunque più «compatibile coll’azione». La “mezza filosofia” risulta, nel pensiero politico del poeta recanatese, molto più vicina alle sempre benefiche illusioni naturali, che «diriggono l’egoismo e l’amor proprio, appunto a non voler nulla più degli altri, a sacrificarsi al comune, a mantenersi nell’uguaglianza». Conseguenza dell’incivilimento è invece l’allontanamento dalle grandi azioni dal mantenimento di una comunità. Saper fare, anche con errore, ha sempre un impatto maggiore sulla società immaginata da Leopardi, che non il saper pensare:
Vuol dire che il fare non è proprio né facoltà che della natura, e non della ragione; e siccome quegli che fa è sempre signore di chi solamente pensa, così i popoli o naturali o barbari che si vogliano chiamare, saranno sempre signori dei civili, per qualunque motivo e scopo agiscano.
Destino delle nazioni civili è quello di soccombere dinanzi a popoli “barbari”, o a nazioni nutrite ancora di grandi e pieni ideali. Destino delle nazioni civili è la progressiva frammentazione interna, la dissoluzione del concetto di patria nella solitudine di migliaia di individui («L’individuo solo, forma tutta la sua società.»). In Leopardi sembrano così riecheggiare, quasi profeticamente, la frammentazione e la parcellizzazione sociale figlie della corsa sfrenata allo sviluppo del capitalismo neo-liberista, lo smantellamento del concetto di classe e la demolizione di qualsiasi aggregazione sociale, nazionale o ideologica, cui consegue il trionfo dell’isolamento e dell’individualismo senza regole. Al trionfo di un egoismo individualista («Non si hanno più nemici nazionali? Ma si hanno nemici privati»), Leopardi oppone l’idea di un egoismo nazionale o di società, che è l’unico antidoto alla sua disgregazione. Quegli odi e quelle invidie concentrati su un nemico esterno finiscono, in sua assenza, per rivolgersi contro un nemico interno, ovvero contro i vicini. L’amor patrio, figlio di una illusione, può sussistere solamente grazie al pregiudizio, non certo secondo ragione. Ancora una volta la filosofia, secondo Giacomo Leopardi, essendo basata sulla ragione come strumento conoscitivo, risulta sostanzialmente in contraddizione con la sopravvivenza di una comunità e di una patria:
Come l’individuo, così le nazioni non faranno mai nulla se non saranno piene di se stesse, di amor proprio, ambizione, opinione di se, confidenza in se stesse.
Il parallelismo tra individuo e nazione nel pensiero politico-filosofico leopardiano viene perciò sintetizzato nella comune resistenza alla realtà, grazie alle illusioni e all’amor proprio: due strumenti indispensabili alla sopravvivenza dell’uomo. L’allontanamento dalle illusioni rappresenta l’ultimo stadio di un allontanamento irreparabile dell’uomo della natura, a cui non può sostituirsi nulla di altrettanto efficace a livello etico o politico. Profonda è anche l’ironia del poeta marchigiano nei confronti dell’«inutilità quasi perfetta degli studi fatti dall’età di Solone in poi per ottenere la perfezione degli Stati civili e la felicità dei popoli […] di questo furore di calcoli e di arzigogoli politici e legislativi». Cuore del pensiero politico di Giacomo Leopardi è in effetti la ricerca forsennata e disperata di felicità, giacché non si può dare la felicità dei popoli «senza la felicità degli individui». Sul finire degli anni venti, Leopardi iniziò a soffermarsi ulteriormente sulle imperfezioni caotiche presenti nelle singole comunità, frutto della naturale propensione umana all’errore: si tratta di uno straordinario proclama che un intellettuale titanico ed instancabile, radicalmente critico nei confronti dello spirito del proprio tempo, ebbe il coraggio di rivolgere contro ogni costrutto filosofico e contro ogni pretesa di perfettibilità futura dell’uomo, sul solco di un mitico ed indefinito progresso tecnico e scientifico:
Io tengo che la società umana abbia principii ingeniti e necessari d’imperfezione, e che i suoi stati sieno cattivi più o meno, ma nessuno possa esser buono.
Negli ultimi anni della sua vita, si assiste perciò al distacco di Leopardi dal pensiero e dalla discussione politica in generale in favore di una via contemplativa e di una lettura vagamente ironica degli errori del suo tempo. A rappresentare la conclusione ideale della raccolta di pensieri politici leopardiani è pertanto una lettera indirizzata a Fanny Targioni Tozzetti, datata 5 dicembre 1831:
Sapete che io abbomino la politica, perché credo, anzi vedo che gli individui sono infelici sotto ogni forma di governo, colpa della natura che ha fatto gli uomini all’infelicità; e rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice composta di individui non felici.
La via leopardiana alla politica è una via d’imperfezione congenita e di ricerca forsennata della felicità, che non ha in sé nulla della ricerca spasmodica ed egoistica del piacere materiale, predominante nella moderna civiltà occidentale. Da conoscitore sottile ed instancabile della vita e delle forme umane, Leopardi critica un’umanità protesa verso la continua perfettibilità, inconsapevole del destino ineluttabile di Morte e di Nulla che inevitabilmente seguirà ad ogni azione o pensiero. La vita delle illusioni e dei pregiudizi, dell’attività e della ricerca del bello e dell’utile, come anche delle azioni eroiche, rappresentano altrettanti strumenti di resistenza e di sopravvivenza, di titanica opposizione che l’umanità frappone tra sé e il Nulla. Consapevoli della sconfitta, che pure arriverà, gli uomini di ogni popolo e nazione sono dunque come il fiore della Ginestra alle pendici del Vesuvio: una resistenza all’ineluttabile, senza eccessi di orgoglio e senza arrendevole codardia:
Meno inferma dell’uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.
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