Socialismo e mercato in Corea del Nord
di MARX XXI ( Francesco Alarico della Scala)
In seguito alle dichiarazioni di Andray Abrahamian, riprese dall’Antidiplomatico[1], molti mi hanno chiesto delucidazioni in merito alle prospettive dell’economia nordcoreana: si sta aprendo al capitalismo? Punta sul modello cinese o sull’esempio vietnamita? Oppure si attiene alla pianificazione centralizzata di stampo sovietico?
A scanso di equivoci, premetto subito che non sono pregiudizialmente ostile al socialismo con caratteristiche cinesi, di cui ammiro i grandi successi economici pur prediligendo ovviamente il modello coreano, e che non è mia intenzione distribuire patenti di ortodossia o condannare le scelte degli altri partiti comunisti, ma semplicemente esporre alcuni fatti e documenti che contribuiscano alla conoscenza della realtà coreana.
1. Passato e presente
Abrahamian è l’ex direttore di ricerca della Choson Exchange, un’organizzazione no profit che promuove la conoscenza dei meccanismi del mercato fra i dirigenti aziendali nordcoreani e gli investimenti stranieri nelle zone economiche speciali; pertanto le sue affermazioni mirano anche a rassicurare gli investitori internazionali presentando l’economia coreana come un mercato “normale” e affidabile, in evoluzione rispetto al passato che gli osservatori occidentali inevitabilmente associano al modello sovietico.
«Si tratta di un’economia mista, ormai lontana dall’economia di comando del passato», dice il nostro. Prima di discutere la situazione odierna, sorge un legittimo dubbio iperbolico: è mai esistita una simile “economia di comando” in Corea del Nord? Nel suo discorso del 3 gennaio 1992 sulla caduta dell’Unione Sovietica, contrapponendo il fallimentare esempio dei paesi del Comecon al virtuoso cammino del socialismo coreano, Kim Jong Il affermò: «Gli errori commessi in certi paesi nella direzione unitaria dell’economia socialista, se così possiamo chiamarli, consistono nell’aver fatto ricorso ad ordini amministrativi, incuranti delle leggi obiettive dello sviluppo economico e della realtà concreta, e nell’aver trascurato l’iniziativa delle singole branche ed unità produttive, insistendo soltanto sulla direzione unitaria dell’economia»[2].
Della superiore flessibilità dell’economia socialista nordcoreana si avvede anche la Napoleoni, sia pur in modo assai confuso: «Curiosamente, l’economia juche, una derivazione della dottrina juche, non fu mai formulata o enunciata formalmente, forse perché è impossibile conciliare i sistemi produttivi con un atto di fede. Al contrario, fu spesso improvvisata e consisteva nella reazione al corso imprevedibile degli eventi, senza possedere una pianificazione adeguata… Niente può essere più lontano dalla rigida pianificazione sovietica»[3].
In realtà Kim Jong Il ha elaborato una teoria economica estremamente articolata e precisa nel cogliere la natura una-duplice della società socialista e nel porre al servizio del comunismo anche gli istituti mercantili, come vedremo fra poco. Ma diamo ora uno sguardo panoramico alla struttura dell’economia coreana.
La collettivizzazione dell’agricoltura fu completata nell’agosto 1958, insieme alla trasformazione socialista dell’industria e del commercio privati, grazie alla massiccia adesione volontaria dei contadini alle fattorie cooperative che consentivano di eliminare la frammentazione dei terreni privati, di concentrare la mano d’opera e di meccanizzare il lavoro. All’inizio del 1962 furono istituiti i comitati di direzione delle cooperative di circoscrizione, enti statali che controllano le stazioni di macchine agricole, i servizi di irrigazione, le officine di attrezzatura agricola e le altre aziende al servizio delle campagne, garantendo la direzione della proprietà statale sulla proprietà cooperativa, rinsaldando l’alleanza fra operai e contadini e favorendo l’introduzione dei metodi industriali nelle zone rurali.
Al centralismo nel campo dei rapporti di produzione, superiore a quello sovietico (in origine anche l’URSS disponeva di stazioni di macchine e trattrici statali ma le smantellò nel 1958, vendendo i macchinari ai kolchoz), si accompagnò una notevole flessibilità nella gestione economica: a metà degli anni ’60 fu sperimentato nella fattoria cooperativa di Phochon e poi esteso su scala nazionale il sistema delle sotto-squadre, composte da sole 15-20 persone in quanto «è più conveniente nel campo dell’agricoltura avere un collettivo relativamente piccolo come questo, che è un’unità di lavoro, piuttosto che un grande collettivo».[4] Ancora oggi le sotto-squadre di lavoro, ulteriormente rimpicciolite a seconda delle circostanze locali, costituiscono un potentissimo strumento di razionalizzazione del lavoro agricolo perché, evitando la dispersione burocratica, garantiscono la più scrupolosa osservanza del principio socialista di distribuzione degli utili secondo il lavoro svolto, stimolano il senso di responsabilità dei contadini e fungono da argine all’egualitarismo che periodicamente emerge qua e là[5].
In Corea del Nord non si verifica infatti il pernicioso fenomeno, comune a molti paesi socialisti del passato, dei contadini che trascurano il lavoro nei campi collettivi e si concentrano unicamente sui lotti di terra ad uso personale, perché da un lato questi appezzamenti ausiliari si estendono solo per 20-30 pyong (non più di 100m²), secondo l’art. 13 della Legge agraria del 1977 di cui ad oggi non risultano modifiche[6], e dall’altro i prezzi d’ammasso, che in URSS soprattutto fino al 1953 – onde finanziare lo sviluppo prioritario dell’industria pesante – coprivano a malapena i costi di produzione, sono fissati in modo da garantire ai contadini un potere d’acquisto sufficiente a comprare i prodotti dell’industria leggera, interessandoli materialmente al lavoro ed evitando l’insorgere di una “forbice dei prezzi” fra città e campagna[7].
Inoltre, una volta consegnati gli ammassi obbligatori, il surplus produttivo può essere venduto sul mercato contadino, in coreano Jang o “mercato grigio” nelle perifrasi degli osservatori stranieri, che opera con prezzi di mercato, non pianificati e soggetti alla legge della domanda e dell’offerta, correggendo automaticamente le eventuali lacune del piano statale e incoraggiando la crescita della produzione; non si tratta di capitalismo, perché le merci provengono sempre dalle cooperative socialiste o dai giardini delle famiglie che non sfruttano il lavoro salariato di nessuno, e in ogni caso questi canali commerciali sono destinati a chiudersi spontaneamente, perché meno convenienti, in seguito allo sviluppo dell’agricoltura socialista. Kim Il Sung bocciò le proposte di abolire per decreto il mercato contadino con parole che vanno tenute a mente ogni qualvolta i cosiddetti “esperti” occidentali parlano di chiusura e riapertura dei mercati: «Se si sopprimesse con una legge il mercato contadino, sostenendo che la produzione sussidiaria e il mercato contadino esercitano un’influenza negativa sul lavoro comunitario e stimolano l’egoismo, che cosa accadrebbe? Naturalmente il mercato sarebbe soppresso, ma il mercato nero continuerebbe ad esistere. I contadini andrebbero di cucina in cucina e di vicolo in vicolo a vendere i polli e le uova prodotti nella loro attività sussidiaria. In questo modo i contadini si esporrebbero al pericolo di essere arrestati e condannati ad una multa o alla prigione. La soppressione forzata del mercato contadino dunque non risolverebbe nulla, anzi causerebbe degli inconvenienti al popolo e renderebbe ingiustamente colpevoli davanti alla legge molte persone»[8].
E l’industria? Al termine della ricostruzione postbellica, il grande leader lanciò un movimento di massa perché «ogni località deve costruire coi propri mezzi piccole fabbriche per produrre in grande quantità derrate alimentari e articoli d’uso corrente, valorizzando le proprie risorse e senza che lo Stato vi investa notevoli fondi»[9]. Nel biennio 1958-59 sorsero ben 2.000 imprese di questo tipo: ogni distretto dispone quindi di uno o due grandi stabilimenti (la fabbrica di macchine utensili di Huichon, il complesso siderurgico di Nampo, gli stabilimenti chimici di Hamhung, ecc.) e di una fitta rete di piccole e medie imprese statali destinate a soddisfare i bisogni della popolazione con attività economiche in loco; da questo punto di vista il tessuto produttivo del paese è più vicino all’Italia che non alla Corea del Sud, dominata dai grandi monopoli privati (chaebol). Nel 1980 le aziende locali erano ormai 3.600 e si erano radicate in tutti i settori dell’economia, compresa l’industria bellica, per garantire la continuità della produzione nei distretti anche in tempi di crisi o di guerra[10].
L’autonomia economica distrettuale – caposaldo della strategia economica coreana, cui è significativamente dedicata perfino la tesi di laurea di Kim Jong Il – conobbe un ulteriore slancio nel 1973 con l’introduzione del sistema dei bilanci locali, finanziati non dalle sovvenzioni del centro ma dai profitti dell’industria locale. Commentando l’efficienza del nuovo sistema, che rivoluzionò la contabilità aziendale e permise di combattere al meglio gli sprechi del settore statale, Kim Il Sung fece piazza pulita degli stereotipi borghesi sul socialismo: «Naturalmente noi siamo contro l’estensione eccessiva della rete dei servizi che si osserva nella società capitalistica. La rete dei servizi è sviluppata più del necessario e svuota le tasche del popolo», mentre «uno dei palesi vantaggi della società socialista in rapporto alla società capitalistica è la prevenzione di uno sviluppo smisurato della rete dei servizi»[11]. A proposito: il 21 marzo 1974 l’Assemblea popolare suprema promulgò la storica Legge sulla completa abolizione delle tasse[12], realizzando il sogno proibito dei liberisti che, a ragion veduta, può avverarsi solo grazie al socialismo.
2. Una breve digressione storico-filosofica
I fautori della liberalizzazione provengono perlopiù dagli ambienti imprenditoriali stranieri e pertanto identificano il socialismo con la burocrazia e l’inefficienza della socialdemocrazia occidentale o al massimo con il modello scandinavo. È normale che si trovino in difficoltà ad analizzare un’economia socialista dinamica e flessibile come quella coreana.
Ma c’è un problema gnoseologico a monte: provate a discutere di economia con un qualsiasi adepto della scuola di Chicago e dopo un po’ scoprirete che egli non intende il capitale come un rapporto sociale fondato sullo sfruttamento del lavoro salariato e via dicendo, bensì come una “cosa”, come una semplice somma di denaro che genera utili corrispondenti ai rischi assunti da chi la risparmia e la investe. D’altronde l’imprenditore non ha affatto bisogno di un concetto scientifico del profitto, attorno a cui pure ruota tutta la sua attività, ma solo di una rappresentazione abbastanza nitida per distinguere i ricavi dalle perdite. «Per l’imprenditore è persino dannoso riflettere sulla natura del profitto. Mentre cercherà di capirla, altri affaristi più astuti e più abili nel frattempo intascheranno anche la sua parte di profitto. E non c’è affarista disposto a cedere il profitto reale in cambio del suo concetto»[13].
Questa deformazione professionale tipica degli osservatori borghesi li spinge a considerare astrattamente le categorie del profitto, del commercio, dell’interesse, ecc., estrapolandole dal contesto dei rapporti di produzione, e a presentare il loro uso da parte dei paesi socialisti come un cedimento alle logiche del proprio sistema, col duplice risultato di propagandare le virtù taumaturgiche del libero mercato – cui vengono ascritti i successi economici del socialismo – e di confondere le idee ai comunisti occidentali. I pettegolezzi sull’“apertura” della Corea del Nord non sono certo una novità: la riforma economica sovietica del 1965 ridusse gli indici del piano da 30 a 9, fissando il profitto come indice sintetico dell’efficienza aziendale (che riassume in sé il miglioramento qualitativo e quantitativo della produzione, il risparmio, l’innovazione tecnologica ed altri aspetti del lavoro in precedenza regolati da svariati indici fisici) e introducendo il calcolo economico completo, fermi restando i prezzi pianificati; alcuni economisti americani e tedesco-occidentali s’ingegnarono a descrivere tutto ciò come una restaurazione del capitalismo.
Ecco la penetrante risposta di Ovsij Liberman, principale ispiratore della riforma, a tutti i travisatori passati e futuri: «Questa gente, trovandosi in un pantano, pensa che non esista al mondo nulla di meglio del loro pantano e che tutti debbano aspirare a cadervi dentro. Se essi avessero un orizzonte un po’ più vasto potrebbero accorgersi che il profitto in Unione Sovietica è in grado di misurare l’efficienza della produzione meglio che nel sistema capitalistico. Da noi non si può aumentare il profitto attraverso la speculazione, gli artificiosi aumenti dei prezzi, lo scambio non equivalente con i paesi arretrati e coloniali, la pressione sui livelli salariali. Nel socialismo il profitto – se i prezzi riflettono esattamente i costi medi settoriali di produzione – non è altro che l’espressione in termini monetari dell’aumento della produttività del lavoro sociale. Per questo noi possiamo stimolare l’efficienza della produzione basandoci sulla redditività. Ma incentivo non significa arricchimento! Il profitto da noi non può trasformarsi in capitale, poiché nessuno – né il direttore, né i sindacati, né i singoli individui – possono acquistare a titolo privato mezzi di produzione. Dov’è allora la “iniziativa privata” o la “economia di mercato” che questa gente preannuncia, quando rimane in pieno vigore la pianificazione centralizzata che vogliamo migliorare e consolidare, liberandola dal controllo minuzioso sulle aziende e includendo il principio leninista dell’interessamento materiale nello stesso processo della pianificazione?»[14]
In breve, il profitto non nega il piano, perché sotto il socialismo sono redditizi per le aziende proprio quei beni che lo Stato pianifica di produrre; il piano non scompare ma opera bensì mediante leve economiche che armonizzano gli interessi individuali, collettivi e sociali, anziché attraverso ordini amministrativi che per definizione non riescono a tener conto di tutte le variabili in gioco. Anche i dirigenti coreani hanno elaborato una teoria economica estremamente rigorosa e attenta sia a promuovere la “natura comunista” della società che a riconoscere e valorizzare il suo “carattere transitorio”, ponendo gli incentivi materiali al lavoro e le altre leve economiche (il cui uso è previsto dalla Costituzione del 1998, art. 32 e 33) sotto il controllo dello Stato e al servizio del collettivismo, come si legge in questa esposizione ufficiale del caro leader:
Gli incentivi materiali, riflesso del carattere transitorio della società socialista, costituiscono un importante aspetto del metodo economico e tecnico. Essi implicano l’intervento delle leggi e delle categorie economiche legate al carattere transitorio della società socialista e fungono da leva economica per stimolare un’applicazione migliore del principio collettivista. Queste leggi e categorie risalenti alla vecchia società possono servire ad applicare il principio collettivista o ad incoraggiare le tendenze capitaliste, a seconda di come vengono usate. Gli incentivi materiali prediletti dalla teoria jucheana della gestione economica sono concepiti come una leva economica funzionale all’applicazione del principio collettivista, di qui la necessità di usarli correttamente, accordando l’importanza primordiale al metodo politico.
Nella società socialista l’autofinanziamento e il principio socialista della ripartizione vanno applicati in modo da offrire maggiori benefici e migliori valutazioni ai gruppi o ai produttori che hanno lavorato più degli altri per lo Stato e la società. Ciò non è in contrasto con il principio collettivista che unisce gli interessi della collettività e dell’individuo; al contrario favorisce la sua applicazione ottimale. Perché l’autofinanziamento serva da mezzo economico per applicare questo principio, è opportuno accordare alle imprese un’autonomia relativa e dare alte valutazioni a quelle che fruttano molto allo Stato. Soltanto allora è possibile garantire in misura soddisfacente sia gli interessi dello Stato che quelli dei collettivi di produttori. Affinché la leva economica per concretizzare il principio socialista della distribuzione corrisponda al principio collettivista, il suo utilizzo deve cadere sotto il controllo dello Stato. Allora è possibile distribuire razionalmente ed equamente il reddito nazionale fra lo Stato e produttori e difendere alla perfezione gli interessi degli individui accanto a quelli dello Stato.
Nella società socialista è anche necessario l’uso corretto delle categorie economiche – il costo di produzione, il prezzo, il profitto e la redditività – legate all’azione della legge del valore come mezzi ausiliari per lo sviluppo pianificato ed equilibrato dell’economia nazionale e la gestione razionale delle imprese. Per utilizzare la legge del valore in conformità con la natura collettivista della società socialista è essenziale una scrupolosa osservanza del principio dell’unità dei prezzi. La forma del valore può essere usata correttamente come mezzo ausiliario nella gestione pianificata dell’economia nazionale solo se i prezzi dei prodotti e dei servizi sono fissati sotto il controllo unico dello Stato[15].
In Corea del Nord le imprese autofinanziate sono sempre esistite, specie nell’ambito dell’industria locale, e il sistema del calcolo economico è stato generalizzato a partire dal novembre 1984: «L’autofinanziamento è il modo di gestione pianificato e razionale dell’impresa statale socialista; esso consente alle fabbriche e alle imprese di funzionare in maniera autonoma pur sotto la direzione dello Stato nel quadro del centralismo, di equilibrare le entrate e le spese e di procurare profitti allo Stato. Questo sistema galvanizza l’entusiasmo produttivo dei lavoratori e spinge le fabbriche e le imprese a fare un uso pianificato e razionale, conforme a calcoli rigorosi, delle materie prime, dei materiali, dei fondi e della mano d’opera per superare il piano di produzione e accrescere costantemente la produzione»[16].
I complessi produttivi formati da più imprese operavano in regime di doppio autofinanziamento, a livello sia produttivo che gestionale, e anche nei settori a bilancio fisso (i servizi sociali che operano in passivo, con sovvenzioni statali) furono introdotte forme di semi-autofinanziamento per massimizzare i profitti. «La redditività è uno degli indici qualitativi che sintetizzano i risultati della gestione dell’impresa», dice ancora il caro leader. «La sua crescita serve a consolidare le basi finanziarie del paese, conditio sine qua non della riproduzione allargata e del miglioramento del tenore di vita della popolazione»[17].
Un esempio della razionalità in tal modo impressa all’economia socialista è il movimento per la produzione d’articoli di largo consumo del 3 agosto: in occasione di una fiera a Pyongyang, 46.500 squadre di lavoratori e casalinghe si misero a fabbricare beni di consumo con i materiali di riserva e di recupero degli altri settori industriali; negli anni successivi l’esperienza venne replicata nelle province, aumentando la produzione di 3,5 volte ed innescando una “rivoluzione dell’industria leggera” interrotta solo dalla crisi degli anni ’90 e rilanciata da Kim Jong Un nel suo discorso del 19 marzo 2013 alla conferenza nazionale dei dirigenti di settore. Di qui la prosperità dei ruggenti anni ’80: mentre l’URSS e i paesi dell’Europa orientale sprofondavano nella crisi, in Corea l’economia continuava a crescere malgrado l’embargo tecnologico imperialista, i beni di consumo si moltiplicavano e diversificavano, sorgevano i trenta grandi magazzini Rakwon, si accumulavano preziose esperienze di iniziativa locale che si sarebbero rivelate utili nell’affrontare la crisi del decennio seguente[18].
Perché questo divario rispetto ai paesi che pur attuando riforme simili incorsero nella stagnazione e poi nella caduta del socialismo? La riforma economica del 1965 recò immensi benefici all’URSS la cui produzione industriale nel 1980 arrivava all’80% di quella degli USA, di contro al 55% di vent’anni prima, e stimolò lo sviluppo dell’industria leggera; ma presentava due grandi limiti. Il primo fu individuato da Kim Il Sung mentre le riforme stavano appena entrando in vigore: «Oggi i revisionisti insistono continuamente sul solo interessamento materiale, senza portare avanti l’educazione comunista dei lavoratori. È per questo motivo che la coscienza politica dei lavoratori si abbassa sempre più, mentre essi si lasciano penetrare dall’egoismo che consiste nel porre l’interesse personale al di sopra di quello del paese e del popolo. Nei paesi influenzati dal revisionismo gli speculatori e i ladri si moltiplicano; molte persone si danno alla sregolatezza e non provano più amore per il lavoro. Se tali fenomeni proseguono, lungi dal costruire la società comunista, c’è pericolo che si perdano anche le conquiste del socialismo»[19].
L’inefficacia del lavoro ideologico e la conseguente proliferazione dell’individualismo, dell’arte di arrangiarsi e della corruzione di un’economia in deficit sono temi ampiamente dibattuti nella letteratura nordcoreana e pertanto ci soffermeremo sul secondo limite della riforma, su una problematica specificamente economica: perché gli incentivi materiali non riuscivano a stimolare la produttività e l’innovazione tecnica? Perché il calcolo economico, come rammentato da Kim Jong Il nel passo citato all’inizio del capitolo precedente, non si traduceva in una vera autonomia operativa delle imprese?
All’inizio del 1983 Andropov constatava che «spesso si distribuiscono premi per la realizzazione di un piano ridotto. Si ottiene così, su scala nazionale, uno scarto tra massa di merci in vendita e massa monetaria a disposizione della popolazione… Voi capite che lo Stato non può distribuire più merci di quante ne siano state prodotte. L’aumento dei salari, se non viene coperto da beni necessari e di buona qualità e se il settore terziario zoppica, non può portare a un aumento reale del livello di vita»[20]. Elargire salari elevati era possibile solo in presenza di cospicui profitti, immuni alla riduzione del piano: «Abbiamo subordinato la valutazione dell’attività economica dell’impresa all’indice del profitto, nella convinzione che, nelle condizioni del socialismo, gli unici strumenti di sviluppo fossero un lavoro migliore, l’aumento della produttività e la riduzione dei costi di produzione. È tuttavia risultato che, nelle attuali condizioni di gestione, le imprese possono accrescere il profitto anche per altra via, vale a dire aumentando ingiustificatamente i prezzi e rifiutando le produzioni che, pur necessarie al paese, non siano per loro “vantaggiose”…»[21].
La riforma economica del 1965 aveva delegato la determinazione dei prezzi esclusivamente al piano centrale, nel lodevole intento di prevenire la speculazione, ma dopo gli aumenti del 1966-67 i prezzi all’ingrosso rimasero congelati fino al 1982 e anche gli strumenti ausiliari (controllo della qualità, ecc.) non riuscivano in alcun modo ad assicurare la flessibilità – di cui pure si coglieva l’importanza in linea teorica – necessaria a seguire e stimolare i progressi della rivoluzione tecnico-scientifica. D’altra parte, la posizione monopolistica assunta dai grandi kombinat di aziende e dai consorzi agroindustriali consentiva di alzare i prezzi senza un reale miglioramento del lavoro, e questi profitti si riversavano nelle tasche di dirigenti e lavoratori sotto forma di incentivi materiali non sempre meritati. Sicché i cittadini sovietici si ritrovavano in tasca una notevole somma di rubli che di fatto non potevano spendere legalmente, se non in vodka: ecco le basi finanziarie del mercato nero, che a sua volta si alimentava attraverso il furto della proprietà socialista e si tutelava mediante la corruzione dei funzionari del partito e dello Stato.
Tale era, per sommi capi, il quadro delle contraddizioni dell’economia sovietica. Si noti di passaggio che la “terapia” di ritorno al capitalismo si rivelò peggiore del male che intendeva debellare, perché si limitava a legalizzare il libero gioco dei prezzi sul mercato senza mutare la posizione degli operatori economici e dunque riprodusse il circolo vizioso di cui sopra su scala centuplicata, innescando una spirale inflattiva che nel giro di pochi anni portò alla totale paralisi della vita economica dell’URSS[22]. La Corea del Nord, da parte sua, si è posta al riparo da questi fenomeni istituendo a metà degli anni ’60 un complesso sistema di pianificazione unitaria e dettagliata che armonizzava gli interessi dei produttori con quelli dei pianificatori e ricorrendo, là dove necessario, a speciali “prezzi convenuti” che riflettessero le condizioni di scarsità delle merci[23]. Inoltre le misure del 1º luglio 2002 riorganizzarono il sistema dei prezzi eliminando le transazioni svantaggiose per lo Stato, ma le novità più dirompenti risalgono all’ultimo quinquennio.
3. Dove va Kim Jong Un?
La giovane età del nuovo leader e la mancanza di informazioni attendibili sul suo conto, come c’era da aspettarsi, generarono un vortice di speculazioni, gufate e speranze mal riposte da chi si attendeva un’apertura al capitalismo. Le dicerie furono alimentate anche dalle dichiarazioni di fonti affidabili come Kenji Fujimoto, cuoco di Kim Jong Il dal 1988 al 2001, che parlò dell’interesse suscitato nel successore dalle riforme cinesi e Felix Abt, l’imprenditore svizzero che dal 2002 al 2009 visse e lavorò in Corea del Nord, il quale tracciò un parallelo tra Kim Jong Un e il “riformatore” sovietico Aleksandr Jakovlev come innovatori dalle mente aperta perché vissuti qualche anno all’estero – non si poteva scegliere un paragone più infelice!
Ad ogni modo, il diretto interessato s’incaricò di smentire tutti i presagi nel suo primo grande discorso al Comitato centrale del 6 aprile 2012: «La costruzione di uno Stato socialista prospero e potente si accompagna ad un’aspra lotta di classe per sradicare tutte le pratiche ostili e non socialiste. Le organizzazioni di partito devono condurre gli organi giuridici ad assolvere la nobile missione e il sacro dovere di difendere con fermezza il regime socialista e le conquiste della rivoluzione e proteggere efficacemente la vita, la proprietà e la sicurezza del popolo»[24].
Kim Jong Un si poneva quindi in perfetta continuità con il padre, che nella seconda metà degli anni ’2000 colpì in modo mirato gli speculatori del mercato nero – emersi durante la crisi degli anni ’90 ed attirati in trappola dalle misure del 1º luglio 2002 – per poi decurtarne i risparmi in occasione della riforma valutaria del 2009-10, che peraltro assestò un duro colpo ai falsificatori del won, abolì il doppio cambio con le monete straniere, ridusse i prezzi dei beni di consumo di massa e aumentò quelli dei prodotti di lusso[25].
Tappa saliente di questa lotta di classe contro la malerba del capitalismo fu la distruzione della cricca di Jang Song Thaek, il famigerato “zio sbranato dai cani” che fin dai tardi anni ’80 faceva segretamente incetta di metalli rari e fondi con cui tentò di alimentare un’economia parallela da far emergere dopo un eventuale golpe: «Jang coltivava il folle sogno che, una volta conquistato il potere con vili stratagemmi, il suo vero volto di spregevole “riformista” noto al mondo esterno avrebbe aiutato il suo “nuovo governo” ad ottenere il “riconoscimento” dei paesi stranieri», si legge nel comunicato relativo alla sua esecuzione[26].
Pochi mesi dopo l’epurazione fu convocata l’8ª Conferenza dei lavoratori ideologici del partito, che lanciò una capillare offensiva di propaganda e agitazione contro i rimasugli della frazione sconfitta e le influenze occidentali, entrata a buon diritto negli annali della rivoluzione coreana. «Urge calare una doppia e tripla “zanzariera” per impedire al veleno capitalista tenacemente inoculato dal nemico di attraversare i nostri confini», disse allora il supremo leader, riprendendo una metafora in uso dai tardi anni ’80[27]: la zanzariera simboleggia la condotta selettiva della Corea del Nord nei rapporti con l’estero, per cui le ideologie ostili al socialismo e le mode decadenti vanno tenute alla larga, mentre ben vengano la tecnologia avanzata e gli apporti positivi della cultura straniera.
In questa strategia rientrano le zone economiche speciali aperte agli investitori stranieri. La prima fu istituita a Rason nel 1993, per attutire gli effetti del crollo del mercato socialista, mentre la legge sulle joint venture risale addirittura al 1984, quando il commercio estero del paese risentiva della trappola del debito. Nel 2002 fu avviata la collaborazione con i vicini meridionali nel distretto industriale di Kaesong e nell’area turistica del monte Kumgang, nel 2011 fu la volta diHwanggumphyong e delle Isole Wihwa, al confine con la Cina.
Queste misure vennero portate avanti senza mai abbassare la guardia o perdere di vista la natura di classe dei partner commerciali. «Nessuno al mondo è più avaro di un capitalista», ammoniva il caro leader. «Gli imperialisti e i capitalisti non fanno mai dono di nulla a nessuno. Se ci offrono un regalo, lo fanno con un secondo fine. Per natura costoro causano le malattie e poi vendono le medicine. Non bisogna mai lasciarsi sedurre dalle loro promesse di aiuto finanziario. Occorre vigilanza anche nello scambio di delegazioni scientifiche con i paesi imperialisti»[28].
Rispettare la disciplina del piano ed accettare le transazioni solo se vantaggiose per il paese: queste sono le linee guida fissate da Kim Jong Il nei rapporti economici con l’estero e seguite da Kim Jong Un, che peraltro ha stroncato sul nascere il tentativo di svendere le preziose risorse naturali della Corea agli investitori cinesi messo in atto da Jang Song Thaek. Il nuovo leader non ha istituito nuove zone economiche speciali, situate in precise località a ridosso dei confini, bensì numerosi centri di sviluppo economico aperti ai capitali stranieri sparsi all’interno del paese: 14 furono creati nel 2013, 7 nel 2014, 3 nel 2015, e l’ultimo è stato annunciato nel dicembre 2017. Le leggi che regolano il funzionamento di questi centri, promulgate dall’Assemblea popolare suprema tra il marzo 2013 e il maggio 2014, sono consultabili nella sezione di Economia&Commercio estero del sito Naenara. Si tratta di normative molte severe in materia di protezione dell’ambiente e di tutela dei diritti dei lavoratori, ai cui fondi sociali per la costruzione di scuole e circoli ricreativi sono chiamati a contribuire anche gli investitori stranieri; la violazione di queste leggi, accanto alla multa, comporta la confisca del profitto conseguito illegalmente e talvolta dell’intera proprietà. Chi intende arricchirsi inquinando il territorio e sfruttando la popolazione non è dunque il benvenuto, mentre i partner commerciali onesti sono attirati da un regime fiscale particolarmente favorevole: l’imposta sugli utili è solo del 20%, o addirittura del 10% nei settori ad alta tecnologia, nell’ammodernamento delle infrastrutture e nella ricerca scientifica[29]. Gli stipendi dei lavoratori in questi centri di sviluppo economico non solo contribuiscono alle entrate statali ma, grazie alla summenzionata abolizione del doppio cambio, costituiscono una notevole fonte di reddito per i diretti interessati, che possono comprare beni di lusso in appositi supermercati statali – inquadrati anche nel documentario The Propaganda Game di Alvaro Longoria – che operano in valuta estera, la quale ritorna così nelle casse dello Stato.
Proprio questi sono gli obiettivi: procurarsi valuta forte, apprendere migliori tecniche di business ed acquisire tecnologia avanzata da utilizzare nell’ambito del reverse engineering di cui i nordcoreani si sono rilevati maestri, sia con i missili che con i telefoni cellulari. A questo punto il lettore avrà l’impressione di un epocale cambiamento, di un’apertura più controllata di quella cinese ma non meno vasta e imponente; e invece solo l’1,2% delle entrate nel bilancio statale proviene dalle joint venture, complici i rigori della legge e le sanzioni che periodicamente fanno saltare i contratti con i fornitori[30], e soprattutto perché il fulcro della politica economica del partito è altrove, come specificato da Kim Jong Un allo storico Plenum del marzo 2013, quando annunciò la nuova linea strategica di sviluppo parallelo: «Il nostro metodo, che incarna le idee del Juché, deve attenersi alla proprietà socialista dei mezzi di produzione ed assicurare che tutte le imprese conducano le attività economiche in modo indipendente e creativo sotto la direzione unitaria dello Stato. Dev’essere un metodo socialista che incoraggi le masse dei produttori ad assolvere il ruolo di padroni della produzione e della gestione e ad assumersi le responsabilità che questa funzione comporta»[31].
Oggetto delle riforme non sono quindi i rapporti di produzione socialisti che nessuno si sogna di mettere in discussione, bensì il sistema e il metodo di gestione delle imprese socialiste; occorreva un’armonica combinazione del piano centrale con l’iniziativa delle singole unità economiche, che non è data a priori una volta per tutte ma va studiata ed elaborata per via sperimentale. Gli esperimenti cominciarono nel settore agricolo con le misure del 28 giugno 2012 e poi furono estesi all’industria con un provvedimento del 15 agosto 2013; l’esito favorevole di questi primi tentativi spinse il governo ad elaborare un sistema ancora più avanzato, entrato in vigore su scala nazionale il 30 maggio 2014, al quale Kim Jong Un si è spesso richiamato nei discorsi per il nuovo anno e nel rapporto al congresso: «Il sistema di responsabilità aziendale socialista sarà applicato con giudizio. Le fabbriche, le imprese e le cooperative devono definire strategie gestionali oculate, conformi alle esigenze di questo sistema, e svolgere le attività economiche di propria iniziativa e con spirito creativo, normalizzando ed espandendo la produzione. Lo Stato deve garantire alle imprese le condizioni di lavoro necessarie ad esercitare senza ostacoli i diritti di gestione»[32].
Quali sono precisamente questi diritti? Eccone una sintesi:
Le imprese con il diritto di pianificazione ed organizzazione produttiva creano metodi razionali di organizzazione produttiva per aumentare in modo pianificato la produzione dei beni molto ricercati. In virtù del diritto di riassetto del sistema gestionale e di amministrazione della mano d’opera, esse utilizzano in modo razionale ed efficace la mano d’opera e, rinnovando autonomamente gli indici tecnici ed economici, elevano il livello tecnico e professionale dei lavoratori e aumentano senza posa la produttività.
Esercitando i diritti riguardanti la qualità e il controllo dei prodotti e la gestione dei talenti, esse sviluppano attivamente nuove tecniche e nuovi prodotti conformi alle esigenze dell’epoca dell’economia del sapere e migliorano la qualità dei prodotti, aumentandone così il potenziale competitivo.
Con l’aiuto del diritto al commercio e all’impresa mista, per quanto possibile, esse svolgono positive attività economiche esterne per procurarsi da sole le materie prime, i materiali e le attrezzature necessarie ed ammodernare l’impianto e il processo produttivo; raggruppate in alcune unità aziendali o regionali, esse gettano solide basi produttive per articoli d’esportazione e aumentano la produzione dei beni d’esportazione dotati di competitività internazionale.
Inoltre, in base al diritto di gestione finanziaria, esse preparano attivamente i fondi gestionali e li utilizzano in modo efficace, realizzando così la riproduzione allargata e attività gestionali soddisfacenti; nel quadro definito dallo Stato, esse si avvalgono del diritto di fissare i prezzi e del diritto di vendita per materializzare la circolazione dei prodotti, compensando così i costi produttivi e aumentando senza sosta la produzione[33].
Con quest’ultimo accorgimento i nordcoreani sono venuti a capo del problema che era rimasto insoluto nell’economia sovietica: delegando direttamente alle imprese la determinazione dei prezzi – sempre nei limiti fissati dal piano statale, beninteso – è possibile garantire un’effettiva flessibilità dei prezzi che stimoli la crescita della produzione e la lotta agli sprechi; e, in presenza di una rete di unità produttive molto più piccole, è assai difficile “barare” gonfiando illegalmente i prezzi oltre misura.
La superiorità del nuovo sistema si è palesata in primo luogo nelle campagne, dove le sotto-squadre composte da 3-5 agricoltori operano col “sistema di responsabilità verso i campi”, sperimentato in alcune province già nel 2004 e ora attivo in tutto il paese. «Dall’entrata in vigore del sistema di responsabilità verso i campi, la capacità lavorativa dei contadini è salita al 95%. Il periodo di semina del mais e del riso, che in passato durava 20-30 giorni, si è ridotto a 10-15 giorni. Nella stagione autunnale la trebbiatura del grano, che occupava 50 giorni, adesso ne richiede solo più 10. Questo sta mutando il paesaggio agreste», osservava Chi Myong Su, direttore dell’Istituto di ricerca agraria dell’Accademia delle scienze, intervistato dal settimanale Tongil Sinbo nel pieno della siccità del 2015. «Numerose aziende agricole, dopo un’annata nei campi, hanno ricevuto una distribuzione degna di parecchie decadi. Si moltiplicano le famiglie che con crescente patriottismo aumentano le consegne di grano allo Stato»[34].
Non meno sensibili sono i progressi dell’industria. In un’intervista del maggio 2015 con l’Associated Press il professor Ri Ki Song, economista e decano dall’Accademia di scienze sociali, ha menzionato l’esempio delle operai della fabbrica di cosmetici di Siniju: i loro stipendi mensili sono passati da 3.000 won a 80.000, con picchi di 110.000, grazie a un attento calcolo economico[35]. Chi si attendeva che simili crescite salariali innescassero un’ondata di inflazione sarà deluso perché, a quanto emerge dagli studi di Benjamin Katzeff Silberstein[36], i prezzi sono rimasti stabili anche negli ultimi anni di sanzioni da “maximum pressure” e talora sono perfino diminuiti per iniziativa del sistema di distribuzione pubblica. In altri termini, la massa di denaro entrata in circolo non va a perdersi nel mercato nero, ma alimenta il prodigioso sviluppo dell’industria leggera e dei grandi magazzini statali frequentati da quella che alcuni osservatori stranieri definiscono impropriamente la “nuova classe media”.
«Il principio fondamentale della gestione economica socialista è massimizzare i profitti reali tenendo fermi i princìpi socialisti», scrive un accademico di Pyongyang a proposito di ciò che Abrahamian chiama “economia di mercato” a preponderanza statale. «Garantire il profitto reale nella costruzione economica socialista significa fare un uso efficace delle risorse umane e materiali della società a beneficio della prosperità della nazione e del benessere del popolo»[37]. Senza capitalisti, l’uso – spesso soltanto formale – dei meccanismi di mercato per razionalizzare il funzionamento dell’economia socialista non crea fenomeni di polarizzazione della ricchezza, non sottomette il lavoro al capitale e non riduce le masse a oggetto di sfruttamento, bensì permette di reinvestire l’intero plusprodotto sociale nel miglioramento del tenore di vita della popolazione.
Tuttavia non esiste il pericolo che, con l’autonomia concessa alle imprese, le leggi del mercato finiscano per soppiantare la proprietà socialista? Sì, è un rischio reale, i nordcoreani ne sono perfettamente consapevoli e ne scrivono sulla stampa specializzata: «Se nell’implementare il sistema di gestione a responsabilità aziendale, per delegare alle imprese la gestione pratica, si volesse accantonare l’interesse nazionale e perseguire soltanto quello delle imprese, per quanto venga ribadita la proprietà socialista, comunque s’introdurranno modelli gestionali di tipo capitalistico e gradatamente si avrebbe un cambiamento nella forma di proprietà, generando disordini sociali e fenomeni di natura spontanea. Pertanto non si dovrà pensare che, volendo conferire alle imprese vere e proprie facoltà di gestione, si lascerà che si separi, quanto ai mezzi di produzione, la proprietà dalla gestione»[38].
Proprio per non scindere proprietà e gestione, oltre al calcolo economico completo su base aziendale, il “metodo di gestione economica di stampo coreano” comprende altri due elementi: il sistema di responsabilità e preminenza del Consiglio dei ministri che, sgravato dall’amministrazione microeconomica, può concentrarsi sulla pianificazione strategica del progresso tecnologico e dei ritmi di sviluppo dell’economia; e soprattutto il tradizionale sistema di lavoro Taean, ideato da Kim Il Sung nel dicembre 1961, in virtù del quale la direzione dell’impresa rimane saldamente in pugno al comitato di partito, gli stimoli morali hanno la priorità sugli incentivi materiali, il lavoro di trasformazione ideologica e la mobilitazione politica dei lavoratori precedono ogni altra attività[39]. Prova ne siano le campagne di massa dei 70 e dei 200 giorni lanciate nel 2016, in corrispondenza del congresso del partito.
Non pochi giornalisti stranieri interpretavano l’autogestione delle sotto-squadre nel settore agricolo come un preludio alla privatizzazione della terra e, galvanizzati da provvedimenti di cui non afferrano il significato, si attendevano un graduale ma costante passaggio al capitalismo. Ma col tempo lo stesso Abrahamian ha ammesso che «il ritmo degli esperimenti economici è significativamente rallentato dal 2013», una volta concluso il grosso delle innovazioni gestionali, e che «le iniziative politiche hanno assunto un tono decisamente conservatore dopo il congresso del partito», quando Kim Jong Un rivendicò con orgoglio la scelta del padre che, «forte dello spirito delle armi del Songun, ha respinto il vento della liberalizzazione borghese, della “riforma” e dell’“apertura” che soffiava intorno a noi con la sua aria infetta»[40].
Ulteriori speculazioni si sono susseguite sullo sfondo del processo di pace avviato un anno fa e scambiato da alcuni per un cedimento alle pressioni del nemico che avrebbe finalmente “aperto” il paese al capitalismo. In realtà è sufficiente sfogliare la stampa nordcoreana per sapere cosa ne pensino i diretti interessati. Ci limitiamo, per brevità, a una rassegna dei titoli del Rodong Sinmun dal gennaio al giugno 2018, ossia nella fase più intensa dei contatti diplomatici con Washington e Seul:
L’infiltrazione ideologica e culturale dell’imperialismo dev’essere schiacciata, 22 gennaio.
Le illusioni sull’imperialismo sono un virus letale, 3 febbraio.
Le illusioni sull’“aiuto” degli imperialisti portano alla rovina, 26 febbraio.
Gli imperialisti statunitensi sono acerrimi nemici del popolo coreano, 28 febbraio.
L’aggressione e l’interferenza degli imperialisti devono essere sventate con fermezza, 20 marzo.
La “globalizzazione” è la strategia egemonica mondiale degli imperialisti, 27 marzo.
Contraddizioni e conflitti esacerbati sono l’inevitabile conseguenza del capitalismo, 3 aprile.
La natura reazionaria della democrazia borghese non può essere celata, 6 aprile.
La cultura e le idee imperialiste devono essere respinte, 7 aprile.
L’infiltrazione ideologica e culturale statunitense svolge un ruolo preponderante nell’aggressione, 24 aprile.
I progressisti di tutto il mondo devono cogliere l’assurdità della democrazia di stampo americano, 2 maggio.
Fronteggiamo con decisione la campagna psicologica degli imperialisti, 19 maggio.
Bisogna combattere con fermezza le pratiche arbitrarie degli imperialisti, 28 maggio.
La cultura e le idee imperialiste sono mezzi d’aggressione e dominio, 29 maggio.
Il divario fra ricchi e poveri è il prodotto inevitabile della società capitalistica, 30 maggio.
La corruzione morale dell’uomo è il prodotto inevitabile della società capitalistica, 31 maggio.
La società capitalistica è la più antipopolare e corrotta, 7 giugno.
Il capitalismo non ha futuro, 18 giugno.
Insomma, non sembrano proprio intenzionati a seguire il wishful thinking di avversari dichiarati e falsi amici. Secondo i dati forniti da Ri Ki Song in una nuova intervista all’Associated Press, grazie alle misure di razionalizzazione dell’economia socialista, il Pil della Corea popolare è cresciuto del 18,6% negli anni 2013-17[41], proprio quando – a detta degli stessi osservatori riformisti – le sanzioni rischiavano di provocare una nuova carestia. Sotto Kim Jong Un il paese ha cambiato volto, dai grattacieli dell’avveniristico quartiere Ryomyong nella capitale alle aziende agricole d’avanguardia dotate di computer e macchine ad energia solare, dalle colline rimboschite in tutto il paese agli stabilimenti balneari in costruzione sul litorale di Wonsan-Kalma. Nei prossimi anni l’indebolimento delle sanzioni e il clima internazionale favorevole, la fine della corsa agli armamenti e gli accordi commerciali con la Cina e la Corea del Sud consentiranno di imprimere uno slancio ancora superiore all’economia del paese, senza bisogno di tornare al capitalismo con tutte le sue storture e contraddizioni. «In futuro i mercati non esisteranno più», incalza ancora Ri Ki Song. «La funzione principale dei mercati è vendere gli oggetti che le fabbriche e le altre imprese non riescono a fornire. Tolleriamo i mercati perché al momento il paese non dispone di sufficienti capacità produttive nel campo dei beni di consumo quotidiano»[42].
Nel suo discorso d’inizio 2019 il supremo leader ha ribadito gli indirizzi finora seguiti con grande successo: «Il metodo di gestione va innovato per esercitare in modo soddisfacente la direzione unitaria dello Stato sull’insieme dell’economia e per sprigionare l’entusiasmo volontario e le abilità creative dei lavoratori. Il Consiglio dei ministri e gli altri organi di direzione economica dello Stato devono migliorare la pianificazione, la determinazione dei prezzi, la gestione finanziaria e bancaria in conformità alle leggi dell’economia socialista e assicurarsi che le leve economiche agiscano attivamente per rivitalizzare la produzione e la riproduzione allargata delle imprese. La struttura degli apparati e il sistema di lavoro saranno rivisti in modo da aumentare l’efficienza delle attività economiche e da consentire alle imprese di svolgere con destrezza le attività di gestione».
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