obsbawn definì gli anni dal 1973 al 1991 “The Landslide”, La frana. In quella frana nacque la “seconda globalizzazione”, iniziata con l’abbandono del Gold Exchange Standard. È proprio il superamento degli accordi di Bretton Woods, e con lo Smithsonian Agreement che si inaugura un’era di sconvolgimenti finanziari, pressoché inesistenti tra il ’48 e il ’73, “The golden age”. Il nuovo regime valutario e la crisi petrolifera fanno collassare il debito dei paesi del “terzo mondo”. Da allora due certezze si impongono: la crescita del commercio internazionale e del PIL globale e la volubilità dei mercati finanziari. In due parole: l’economia globalizzata, che è un’economia fatta di crisi.
E nonostante le severe ripercussioni sull’economia reale, il processo di integrazione globale ha sempre viaggiato a ritmi serrati. D’altronde anche la “prima globalizzazione” seguì alla “Grande depressione” del 1873. La grande accumulazione di capitale dovuta allo sfruttamento della rivoluzione industriale (dal punto di vista economico) insieme alla messa a frutto del dominio britannico sul mare (dal punto di vista giuridico-politico) crearono le condizioni per lo sviluppo della prima economia globalmente integrata. E le grandi crisi possono verificarsi solo in tali contesti.
Ma rispetto al ventennio della “Frana” il successivo è sostanzialmente differente. Se la globalizzazione post-età dell’oro è figlia della conquista del mare da parte degli Stati Uniti – «chi domina il mare domina il commercio del mondo», secondo l’assioma dell’ammiraglio Mahan, che nel 1890 proponeva la riunificazione di U.S.A. e U.K. in nome del dominio marittimo – quella vissuta tra il 1990 ed il 2010 ha rappresentato l’aspirazione più grande, ed ambiziosa, di una classe politica uscita vittoriosa dal secolo breve. Risalgono infatti agli anni Novanta le previsioni da fine-storia di chi – ottimisticamente come Fukuyama, o meno seppur subendone il fascino, come Negri – vedeva nel futuro prossimo l’irreversibile integrazione economica, politica e culturale del globo, con la definitiva scomparsa di Stati nazionali e delle loro peculiarità in un magma liberale e liberista governato da soft power e istituzioni internazionali che definiremo, per semplicità, Impero.
In europa, nel frattempo, avveniva “Maastricht”, con Maastricht veniva l’Euro e nel 2007 Lisbona. In nome del mercato unico si dissolvevano le catene produttive nazionali ed i rapporti industriali storici che avevano sostenuto gli Stati negli anni della ricostruzione e del boom. Nella città dell’Alde Caerte il vecchio continente consumava l’ubriacatura postsovietica, lanciando la sfida al dollaro. La tenuta valutaria dell’Europa, quale sia il credito che si vuole dare alla teoria delle Aree Valutarie Omogenee od al ciclo di Frenkel, veniva ancorata a quei parametri sulla cui origine tanto si è discusso
Abbiamo stabilito la cifra del 3 per cento in meno di un’ora. È nata su un tavolo, senza alcuna riflessione teorica. Mitterrand aveva bisogno di una regola facile da opporre ai ministri che si presentavano nel suo ufficio a chiedere denaro.
L’altra faccia della pace terrificante seguita al crollo del muro è rappresentata dal bombardamento di Sarajevo, dall’invasione di Iraq e Afghanistan. Il bellum justum rientrava dalla finestra nel diritto internazionale in sostituzione della guerra come soluzione delle controversie internazionali mascherandosi da “guerra preventiva”, talvolta sotto l’ombrello dell’O.N.U., talvolta sotto l’egida nordatlantica. Erano – e sono – guerre di conquista, di ingerenza economica e politica. Questo per dire che quella che noi conosciamo come globalizzazione non è mai stata un destino ineluttabile, quanto il risultato di una puntuale agenda politica di egemonia territoriale e commerciale – «l’espansione territoriale non è che la conseguenza dell’espansione del commercio» – seguita alla rivoluzione spaziale che ha proiettato prima Gran Bretagna e poi gli U.S.A. nella dimensione oceanica e che ha procurato la frana del Behemoth sovietico.
La costruzione di questo sistema, rimosso l’ostacolo socialista, si imperniava sull’idea di una governance globale da attuare mediante la World Trade Organization e sotto la direzione delle vecchie istituzioni finanziarie nate a Bretton Woods: International Monetary Fund e World Bank Group. Presa di possesso dei mercati – nehmen – divisione ed organizzazione degli stessi mediante la W.T.O. – teilen – e infine il “pascolo”, la valorizzazione del terreno, weiden. Che la si voglia vedere come un unipolarismo o come un piano liscio, piatto, à la Friedman, la globalizzazione pre-2010 era onnicomprensiva; aveva cioè la pretesa di rendere partecipe anche chi, fino a pochi anni prima, era in antagonismo con il mondo liberale. Questa fase culmina con l’entrata della Cina Comunista nella W.T.O.
E difatti le tre direttrici dello sviluppo della globalizzazione post ’89 – investimenti cost oriented, abbassamento costante dei costi di trasporto, global value chains – avevano nel mercato interno cinese un protagonista rampante.
Nell’ultimo decennio i fattori che hanno determinato la globalizzazione moderna sembrano, tuttavia, rallentare e nel 2009, complice la crisi finanziaria, il PIL globale è calato del 2,9% (per la prima volta dal secondo conflitto mondiale) ed il commercio internazionale del 12%. Entrambi i dati sono rimbalzati violentemente nel 2010, dopati dalle politiche monetarie espansive. Ma l’indicatore principale (il Trade to GDP ratio) della globalizzazione, in crescita perenne nell’ultimo secolo – secondo le stime della Banca Mondiale – è fermo ormai da diversi anni ai livelli pre-crisi, con un trend negativo mai registrato nella storia economica moderna.
Possiamo seguire le cause di questa “Slowbalization”, come titolato dal The Economist, secondo due direttrici, l’una economica e l’altra politica (ovviamente intrecciate).
Quanto all’economia reale: da una parte il costo dei trasporti, che tanto aveva influito sulla delocalizzazione, dai primi anni duemila ha smesso di diminuire; dall’altra oggi solamente il 18% dei «goods trade is based on labor-cost arbitrage», stando ad uno studio pubblicato da McKinsey. Le stesse Value chains stanno tornando regionali e meno globali, a causa anche della valorizzazione dell’automazione rispetto ai vantaggi della manifattura a basso costo che genera un ritorno degli investimenti dei paesi tecnologicamente avanzati nelle mura “domestiche”.
Stesso meccanismo, ma in senso contrario, è stato generato dalla crescita della classe media nelle economie “emergenti”, con le conseguenti mutazioni in termini di offerta di lavoro e domanda di beni che hanno comportato l’internalizzazione di processi produttivi ad alto contenuto tecnologico in precedenza deviati verso le economie più “sviluppate”. Secondo alcuni recenti report – il già citato McKinsey ma anche un recente studio di PwC – uno dei pochi dati in crescita, negli scambi internazionali, è quello del mercato dei servizi, rispetto al quale però il mercato dei beni rimane preminente.
Quanto all’aspetto finanziario, che domina il dibattito ormai da un decennio, non vi sono certezze tali da generare un clima favorevole agli investimenti esteri, vero motore della globalizzazione, incidendo così su quel rimodellamento produttivo prima descritto. Anzi, il ciclo del credito sembra ormai aver reso l’instabilità finanziaria caratteristica dominante della nostra economia. Che la globalizzazione rechi con sé crisi finanziarie e bolle speculative è noto – la «periodica vertigine» – e tra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei primi duemila se ne sono susseguite diverse: le crisi valutarie di sud est asiatico e Russia dovute alle aggressioni speculative (cui anche l’Italia fu sottoposta), il default argentino, il fallimento della new economy. Crescendo, allora, il PIL la bilancia pendeva comunque a favore della globalizzazione. In più, fuori dalla logica dei blocchi i vantaggi degli investimenti cost oriented nei paesi in via di sviluppo facevano impennare il saggio del profitto. La finanziarizzazione selvaggia figlia di quella stagione ha creato, invece, oggi, una situazione di non facile soluzione. Basti pensare che, sempre secondo McKinsey, rispetto al 1980, anno in cui il valore complessivo degli asset finanziari a livello mondiale era simile al PIL globale, a fine 2007 il world financial depth, (la proporzione tra i due dati) pendeva del 365% a sfavore del PIL, con la conseguenza di esporre maggiormente l’economia reale alle fluttuazioni dei mercati.
Nell’ultimo decennio si è quindi fatta strada la prospettiva per cui gli stati potrebbero non essere più in grado di gestire crisi di proporzioni simili a quelle del 2010, dato che il debito globale non ha fatto altro che crescere, ed è ancora tutto lì.
L’altra direttrice, quella politica, del fenomeno che chiamiamo oggi timidamente deglobalizzazione, ma che avanza da oltre un decennio, si muove secondo una involuzione spaziale: una nuova potenza sfida il Leviathan.
Sebbene la Russia sia tornata a condurre una politica estera in contrapposizione al blocco atlantico reclamando quello che era il suo spazio di influenza, è oggi il dragone a lanciare una sfida globale. Maturata nel ventennio di cui si è parlato, durante il quale la Repubblica Popolare sembrava addomesticata, prona alla cultura mercatista ed ormai rinunciataria rispetto a qualsiasi utopia socialista, la supremazia pechinese è figlia soprattutto di quegli investimenti e di quella integrazione globale delle catene del valore che avevano nella manodopera cinese e nell’esportazione verso la Cina un tassello irrinunciabile.
Nel frattempo Deng Xiaoping lanciava una locomotiva sfrenata verso la supremazia tecnologica e industriale. Ed oggi che i rapporti di forza sono irrimediabilmente mutati ci si è accorti che integrando la Cina nei processi industriali globali esponeva ad un imperialismo di ritorno. Intento, questo, dichiarato nel 2013, con laBelt & Road initiative, la quale ha sancito l’inizio di una fase espansiva delle relazioni cinesi, di un ritorno dello spirito terrestre contro la supremazia del dominatore oceanico. La guerra commerciale ne è solo una conseguenza, come difesa di guarentigie cui la nazione egemone dell’ultimo quarto di secolo non vuole rinunziare, e non a caso ha riguardato primariamente settori emblematici della potenza industriale di una nazione: acciaio e tecnologia. Ugualmente l’attacco alla World Trade Organization e l’accantonamento del relativo meccanismo di risoluzione delle controversie da parte degli U.S.A. mostrano una volontà, da parte del maggior azionista della governance globale, di ritirarsi da un sistema nel quale il nuovo avversario sembra trovarsi perfettamente a proprio agio.
Arriviamo quindi alla crisi odierna.
L’economia globale, comunque vadano “fase 2” e seguenti, registrerà una battuta d’arresto che potrebbe apporre la definitiva pietra tombale sull’utopia globalista. La fine della storia, la diffusione del modello liberal-democratico e la definitiva strutturazione dell’Impero, con la fine degli imperialismi, sembrano teorizzazioni prossime alla soffitta. La stagnazione economica seguita alla crisi dei sub-prime e la conseguente crisi dei debiti sovrani europei, che hanno messo in crisi la governance di I.M.F.e W. B.snudando la fragilità del mercato finanziario globale, ed il ritorno di fiamma di scelte politiche contrarie ai dogmi post ’89 (mercato unico europeo e libera circolazione dei beni) quali sono Brexit ed il “protezionismo” dell’amministrazione Trump hanno provocato un ulteriore rallentamento nel già provato mercato globale.
Il SARS-CoV-2 è un anfetaminico per il processo di deglobalizzazione, che getta una colata di cemento vivo nello stagno economico europeo e mondiale. I due indicatori simbolo della globalizzazione, commercio internazionale e PIL globale, sono inesorabilmente fermi. Da ultimo l’immobilismo forzato dettato dalla pandemia ha colpito il greggio, l’oro nero per cui tanto sangue si è sparso e che, già oltraggiato dalle beghe tra Mosca e Riyad, subisce oggi l’umiliazione di venire scambiato, nei contratti futures di West Texas Intermediate in scadenza a maggio, al prezzo record (negativo) di -37,63 dollari al barile. Della ripresa si faranno carico – nuovamente – gli stati nazionali (cui non sono bastate le numerose messe funebri, e continuano a dibattersi violentemente); basti pensare alle dichiarazioni di Trump che non intende “lasciar sola” l’industria petrolifera americana.
Mutatis mutandis, ed operante il descritto meccanismo di ricollocamento strategico-economico-politico, risulterebbe ancor più fumosa l’ipotesi imperiale negriana o egemonica à la Fukuyama, mentre sembrerebbero delinearsi scenari huntingtoniani (che non a caso prefigurava uno scontro sino-statunitense) perlomeno riguardo al posizionamento strategico dei singoli stati. E nel mezzo sta l’Unione Europea, vacillante più che mai, guidata idealmente da una Germania che non s’è mai voluta fare leader politico, contentandosi del ruolo di ragioniere dell’eurozona. Un’unione privata tuttavia della vecchia potenza oceanica, della roccaforte galleggiante d’Albione, e che nel riposizionamento dei blocchi non tiene una condotta lineare. Perché una linea non c’è.
Non essendosi mai strutturata quale comunità politica ma solo come camera di compensazione all’interno della quale far prevalere i propri interessi particolari, all’interno del libero movimento di beni, capitali e persone, all’UE manca del tutto lo spessore politico per affacciarsi a scenari internazionali.
Se dal punto di vista economico la possibile regionalizzazione dell’economia potrebbe avvantaggiare un sistema già “collaudato” – perlomeno dal punto di vista giuridico – come il mercato unico, dal punto di vista politico le istituzioni UE, che non riescono ad essere egemoni neanche tra i membri dell’Unione stessa, tanto da far crollare, specialmente negli ultimi anni, la fiducia nella stessa, si ritroveranno ad essere luogo di scontro per le altrui aree di influenza.
Con un potere esecutivo privo di qualsiasi legittimazione democratica – un organo di individui – ed un rappresentante politico che per scelta deliberata, dal 2009, viene selezionato tra le personalità di minor spicco e carisma (il Presidente del Consiglio Europeo); con un ministro degli esteri – il commissario per la P.E.S.C. – che nelle crisi internazionali (come quella Ucraina), viene, ben che vada, ignorato, in primis dai suoi omologhi nazionali; con un Governatore della Banca Centrale che agisce in rapporto disorganico rispetto alle altre istituzioni europee ed infine con una camera dei rappresentanti che non è legata da alcun rapporto di fiducia al potere esecutivo, l’Unione Europea non è politicamente attrezzata per farsi potenza regionale, per portare avanti, ad esempio, una propria politica talassica mediterranea e baltica. E questa debolezza istituzionale, tuttavia, non le impedisce di stroncare od influenzare le iniziative nazionali sulle medesime questioni. L’Europa, alla prova della deglobalizzazione, rischia di essere nuovamente terra di conquista.
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