La fine codificata dell’impresa italiana? Osservazioni sul nuovo Codice della crisi d’impresa
di NICOLETTA CAROTTI (FSI-Riconquistare l’Italia Genova)
Con decreto adottato lo scorso aprile il Governo ha differito a settembre dell’anno prossimo l’entrata in vigore del nuovo “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza” (d.lgs. 12/01/2019 n. 14). Si tratta di una buona notizia per migliaia di imprese e lavoratori. Recependo le sollecitazioni provenienti dall’Unione Europea (Regolamento UE 2015/848 e la Raccomandazione 2014/135/UE), il Codice detta una riforma organica della materia della crisi e dell’insolvenza e delle procedure concorsuali che andrà a sostituire la legge fallimentare del 1942.
La riforma introduce strumenti di ‘diagnosi precoce’ della crisi delle imprese, prima che si trasformi in una situazione di insolvenza irreversibile (1), così da adottare tempestivamente misure di risanamento e favorire soluzioni, anche e soprattutto stragiudiziali, di risoluzione della crisi che assicurino la continuità aziendale, pure con un diverso imprenditore. Con la riforma della crisi delle imprese l’insolvenza diventa una “evenienza fisiologica nel ciclo vitale di un’impresa, da prevenire ed eventualmente regolare al meglio” perdendo la connotazione negativa, di stigma sociale, che nella nostra cultura avvolge il fallimento inteso come morte civile dell’imprenditore.
Coerentemente, nel Codice il termine ‘fallimento’ è sostituito con l’espressione edulcorata ‘liquidazione giudiziale’. Le parole, si sa, sono importanti. E’ tutto oro quello che luccica? Non è il caso di chiedersi, specie in questo momento, quali potrebbero essere, al di là delle nobili dichiarazioni di intenti del legislatore nazionale ed europeo, gli effetti ‘collaterali’ di una riforma di questo tipo?
Per intercettare le prime avvisaglie della crisi dell’impresa il Codice introduce gli strumenti di allerta e la procedura stragiudiziale di composizione assistita della crisi. Gli strumenti di allerta si traducono in obblighi organizzativi in capo all’imprenditore e obblighi di segnalazione degli indizi di crisi a carico degli organi controllo dell’impresa stessa (sindaci e revisori) e di creditori ‘qualificati’ (Agenzia delle Entrate, INPS, Agente della riscossione).
Ogni imprenditore, a prescindere dalla dimensione o natura dell’impresa (individuale, collettiva), ha l’obbligo di munirsi di misure organizzative idonee a rilevare tempestivamente il proprio stato di crisi e di assumere le iniziative del caso per porvi rimedio (art. 3 Codice); persino, l’imprenditore agricolo è soggetto a questi gravosi e costosi obblighi.
E qui iniziano i guai per l’imprenditore. Sia gli organi di controllo che i creditori qualificati (Agenzia delle Entrate, INPS etc.) sono obbligati a segnalare immediatamente agli amministratori dell’impresa gli indizi di crisi. Degli indizi della crisi dovrà essere informato, in seconda battuta, anche l’OCRI (Organismo di composizione della crisi d’impresa istituito presso ogni Camera di Commercio) per individuare le misure da attuare per superare la crisi. Se l’imprenditore si rifiuta, gli organi di controllo possono addirittura presentare istanza di liquidazione giudiziale (la vecchia istanza di fallimento).
A prescindere dai meccanismi di allerta, l’imprenditore può ricorrere autonomamente alla procedura di composizione assistita per trovare un accordo con i creditori con la mediazione dell’Organismo (OCRI). Se però l’accordo non è raggiunto, l’imprenditore deve presentare istanza per una delle procedure concorsuali giudiziali e, se non lo fa, l’Organismo informa dell’insolvenza dell’impresa il pubblico ministero, che può presentare d’ufficio istanza di liquidazione giudiziale.
Per spingere sindaci, revisori e creditori qualificati a segnalare gli indizi di crisi mettendo così in moto il meccanismo di ‘risanamento’ dell’impresa, si prevede che i primi siano esonerati dalla responsabilità per i danni causati dagli amministratori dopo la segnalazione, mentre i secondi conserveranno il diritto di prelazione sul loro credito, che altrimenti perderebbero. Insomma alle prime avvisaglie della crisi, se l’imprenditore non riesce a trovare un accordo con i creditori (se, cioè, non troverà banche che gli prestano soldi per pagarli) si arriverà inevitabilmente a una procedura concorsuale giudiziale.
E qui il nuovo Codice predilige la “continuità aziendale”. Nel concordato preventivo, ad esempio, la liquidazione dei beni dell’impresa è possibile esclusivamente se c’è apporto, oltre certe soglie, di risorse finanziarie esterne; se l’imprenditore non riesce a trovare queste risorse, è possibile soltanto il concordato in continuità aziendale, anche “indiretta”, ossia con il subentro di un nuovo imprenditore al vecchio.
Queste sono, in estrema sintesi, le novità che è facile prevedere avranno effetti dirompenti sulla peculiare realtà imprenditoriale italiana.
Gli obblighi organizzativi per la diagnosi precoce della crisi imporranno a tutte le imprese – soprattutto a quelle medie e piccole – una radicale trasformazione organizzativa e gestionale. Il che, mi pare, è preoccupante non solo per i costi aggiuntivi, allo stato assolutamente insostenibili, o per il maggior carico burocratico che comporterà, ma anche per l’impreparazione di molte imprese di modeste dimensioni, la cui realtà è ben distante dagli schemi adottati dal legislatore, e che incontreranno difficoltà non solo economiche ad adeguarsi.
Colpisce per i suoi innumerevoli risvolti soprattutto l’imposizione per legge di un modello per così dire ‘aziendalistico’ di impresa, che è estraneo alla tradizione italiana delle piccole e medie imprese, di stampo familiaristico e in cui l’aspetto della persona e delle capacità dell’imprenditore è fondamentale. È come se il legislatore avesse detto: bisogna insegnare agli italiani a fare impresa, perché come l’hanno fatta fino ad oggi non va bene. Ma il costo per le piccole e medie imprese, centrali per la nostra economia, sarà altissimo, perché non hanno scelta: o si trasformeranno fino a snaturarsi, o cesseranno. In ogni caso, però, scompariranno. Sono destinate a scomparire. Per legge. E con esse secoli di storia e cultura. Di ingegno italiano.
E verso lo stesso esito sembrano direzionarsi altri istituti. Le nuove regole sono tarate su un modello che non corrisponde al tessuto produttivo, industriale e commerciale italiano, caratterizzato appunto da tante imprese di piccole e medie dimensioni. Basti pensare agli ‘indici di allerta’, tra cui il patrimonio netto negativo e i flussi di cassa prospettici nei 6 mesi (il c.d. DSCR-Debt service coverage ratio) Per capirci, tutte le imprese che in questo modesto arco temporale presentino uno squilibrio finanziario tra entrate e uscite, dovuto a crediti certi ma inesigibili nel periodo (una condizione frequente per molte imprese; il classico ritardo nei pagamenti del servizio già eseguito) risulteranno ‘positive’ all’allerta e gli organi di controllo saranno obbligati ad attivare le relative procedure; e c’è da aspettarsi una certa solerzia nelle segnalazioni di sindaci e revisori, perché la tentazione di salvarsi dalla responsabilità sarà irresistibile.
Ancora, si pensi all’obbligo di segnalazione dell’Agenzia delle Entrate: tutte le imprese con volume di affari annuo inferiore a 2 milioni di euro, che abbiano un debito IVA non versato nel trimestre di almeno 25.000 euro e pari al 30% del volume d’affari nel medesimo periodo, saranno obbligatoriamente segnalate dall’Agenzia dinanzi agli organismi di composizione. Ed anche in questo caso è verosimile aspettarsi segnalazioni a tappeto, per evitare la perdita del diritto alla prelazione del credito erariale. Senza contare l’ulteriore effetto distorsivo che discenderà dal fatto che gli imprenditori in crisi di liquidità, per non incorrere nella segnalazione, saranno indotti a pagare i debiti erariali e previdenziali a scapito dei fornitori, dei finanziatori e dei lavoratori stessi, implementando un circolo vizioso a cascata di penuria di liquidità nel sistema.
Insomma, con queste regole molte realtà risulteranno ‘patologiche’ e per esse si innescherà inesorabilmente il meccanismo dell’allerta. Già prima dell’emergenza Covid-19, del resto, i numeri non erano incoraggianti: secondo il rapporto CERVED sui bilanci 2018, circa 60 mila società di capitali (l’8,4%) erano a rischio allerta; rischio, peraltro, crescente al diminuire delle dimensioni aziendali (fonte Il sole 24 Ore:); ma oggi lo scenario si profila catastrofico.
Si potrebbe obiettare che, anche una volta attivata l’allerta, il sistema prevede, e anzi predilige, soluzioni di composizione della crisi che favoriscono la continuità aziendale, proprio per conservare l’impresa. Ma questo, in concreto, che vuol dire? Quali mai potranno essere, nella realtà, soluzioni di continuità se non la cessione dell’attività, nelle più svariate forme, dal precedente imprenditore ad un altro, più competitivo, e cioè più solido patrimonialmente e finanziariamente, e cioè più grande?
Di fatto, la continuità aziendale si tradurrà il più delle volte, inevitabilmente, nell’acquisizione delle piccole e medie imprese in crisi da parte delle grandi, peraltro a costi stracciati (o, per parlar forbito, in moneta concorsuale), con uno spostamento di risorse e ricchezza che avrà un’unica direzione, e una direzione sbagliata: dal piccolo, che scomparirà, al grande, che diventerà sempre più grande. E allora forse, a voler pensar bene, la riforma, con una sorta di eterogenesi dei fini, non ha centrato i pur nobili obiettivi che si prefiggeva: non si salveranno le imprese, le nostre piccole e medie imprese qui ed ora, ma si aiuteranno le grandi, che il legislatore ha deciso di ritenere più competitive.
Il che, a voler invece pensare male, mi pare disveli la vera filosofia di fondo: l’insolvenza non è solo e tanto una “evenienza fisiologica nel ciclo vitale di un’impresa, da prevenire ed eventualmente regolare al meglio”, ma è soprattutto funzionale al buon funzionamento del mercato in cui c’è libera circolazione dei capitali, delle merci e delle persone. Sembra emergere, insomma, una decisa scelta di liquidazione di una gloriosa tradizione, di voltare pagina, abbandonarsi al fascino della pretesa efficienza della grande impresa. Ennesimo saccheggio delle nostre ricchezze, comprate a due lire dai soliti noti, ennesimo sfregio alla nostra cultura, al nostro modo di fare, di lavorare. Ennesimo esempio di dominazione. Materiale e spirituale.
E la domanda a cui non possiamo sfuggire oggi è: possiamo permettercelo in questo momento e nei tempi che verranno?
E, prima ancora: lo vogliamo?
Note
- La crisi viene definita come “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate” (art. 2, lett. a, Codice). La definizione di insolvenza ricalca quella tradizionale della legge fallimentare: “lo stato del debitore, che si manifesta con inadempimenti o altro fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni” (art. 2, lett. b, Codice).
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