In Nagorno-Karabakh un anticipo delle guerre del XXI secolo
di ANALISI DIFESA (Giorgio Battisti)
Gli aspri combattimenti che hanno recentemente coinvolto l’Azerbaijan e l’Armenia per la contesa enclave del Nagorno-Karabakh (27 settembre – 9 novembre 2020), a differenza degli scontri avvenuti in precedenza, hanno assunto un’inedita centralità trasformandosi da confronto a bassa intensità, eredità dell’implosione dell’URSS nel 1991 ma con origini risalenti alla 1a Guerra Mondiale, a teatro d’interesse (a vario titolo) delle tre potenze regionali quali Russia, Turchia e Iran, senza dimenticare Israele.
Il conflitto, al quale i Paesi occidentali hanno assistito con disinteresse, ha segnato un’evoluzione degli equilibri nel Caucaso, regione di frontiera meridionale della Russia (in Armenia è dislocato un suo contingente), ed ha evidenziato nuove dinamiche che potrebbero influenzare la condotta delle operazioni militari.
Innanzitutto, è emersa ancora una volta l’irrilevanza delle organizzazioni internazionali (Nazioni Unite, Unione Europea, OSCE) nella gestione delle crisi quando si tratta di assicurare la pace e, come accaduto in Siria e Libia, le iniziative unilaterali sono quelle risolutive.
Il Cremlino, come nei decenni precedenti, ha creato le condizioni per conseguire il “cessate il fuoco”, impedendo in tal modo una vittoria completa da parte azera, ed ha schierato rapidamente una forza d’interposizione di 2.000 “peacekeeper” senza nessuna risoluzione del Consiglio di Sicurezza.
Con questo accordo Mosca ha mantenuto il ruolo di arbitro nel Caucaso Meridionale, come dimostrato dalle successive iniziative trilaterali (Russia, Azerbaijan e Armenia) per la pacificazione dell’area (Nagorno-Karabakh: domani a Mosca vertice trilaterale fra leader di Russia, Azerbaijan e Armenia, Agenzia Nova, 10 gennaio 2021), anche se ha dovuto riconoscere alla Turchia un certo grado d’influenza nella Regione (Baku è fondamentale per la sicurezza energetica di Ankara ed è un importante investitore nella difficile economia turca).
Come già emerso nei conflitti siriano-irakeno e libico, si conferma una inusuale intesa tra Turchia e Russia, grazie anche al disimpegno statunitense nell’area mediterranea determinato dalla volontà di rivolgere la propria attenzione al contenimento della Cina nell’Indo-Pacifico, quale effetto del “triage strategico” di Washington con la revisione delle proprie priorità in politica estera e conseguente riallocazione delle risorse dove sono ritenute più necessarie.
Gli eventi nel Caucaso dimostrano, ancora una volta, che la diplomazia funziona soltanto se la negoziazione avviene da posizioni di forza – conseguite anche con le “baionette” – per ottenere condizioni migliori nelle trattative, e rivalutano il ruolo delle Forze Armate che sono tornate ad essere uno strumento decisivo per ottenere il “cessate il fuoco”.
L’esercito armeno ha condotto le ostilità secondo le tradizionali procedure tecnico-tattiche (TTP – Tactics, Techniques and Procedures) utilizzate nei precedenti combattimenti (scontri sostanzialmente statici sui 200 km circa di fronte), che lo aveva fatto prevalere sull’avversario.
L’esercito di Baku invece, verosimilmente assistito da consiglieri militari stranieri, ha condotto le operazioni secondo un concetto prettamente tridimensionale – molto simile alla US AirLand Battle Doctrine. – con coordinati attacchi sulla linea di contatto e di precisione in profondità nel dispositivo nemico, utilizzando artiglieria, lancia razzi multipli, missili balistici e UAS (Unmanned Aircraft System), che hanno sostituito la mancanza di una consistente forza aerea. Le perdite azere, infatti, si sono concentrate prevalentemente sulla linea di contatto mentre quelle armene erano distribuite su tutta l’area della battaglia.
Ricordiamo la Airland Battle Doctrine nasce ufficialmente il 25 marzo 1981 con la pubblicazione 525-5 “The Airland Battle and Corps ’86”, che ridisegnava le funzioni della Divisione tipo dell’US Army (modello 1986) in funzione dello scenario europeo. Nel 1986 la nuova dottrina veniva adottata con la pubblicazione del manuale FM 100-5 Operations.
Secondo diverse fonti, inoltre, gli Azeri si sarebbero avvalsi del supporto aereo di F-16 turchi, già presenti nel Paese per una precedente esercitazione (TurAz Qartali – 2020) terminata in agosto (coincidenza?), e di alcune migliaia di mercenari siriani filo-turchi, veterani dei combattimenti in Medio Oriente (notizie negate peraltro dagli interessati).
I veri protagonisti delle operazioni, che hanno permesso agli Azeri di avere rapidamente il sopravvento sugli Armeni, sono stati gli UAS nelle configurazioni ISR (Intelligence, Surveillance Reconnaissance) e di attacco, guidati forse da istruttori stranieri tenuto conto che la guida degli UAV richiede personale esperto e preparato che non si forma in poco tempo.
L’impiego dei droni da parte azera, quale arma aerea di attacco al suolo – a similitudine del velivolo A-10 Thunderbolt dell’USAF o dell’equivalente russo Sukhoi Su-25 Frogfoot – si è dimostrata essere la carta vincente. Il loro utilizzo, secondo precise modalità, già sperimentate in altri scenari, ha permesso di ottenere un elevato grado di successo (overkills), pari ai devastanti risultati conseguiti dagli Alleati nella 2a Guerra Mondiale contro avversari con difese aeree scarsamente organizzate.
Un bilancio disastroso, con significative ripercussioni sulle capacità operative armene, ben documentato dai video (kill cam) rilasciati dal Ministero della Difesa dell’Azerbaijan, che ha palesato le gravi carenze della difesa aerea armena, rivelatasi incapace di neutralizzare la (nuova) minaccia.
Secondo varie fonti, le forze azere hanno eliminato 241 carri armati (T-72 e T-90), 50 BMD (veicoli da combattimento), 17 pezzi di artiglieria motorizzati, 9 installazioni radar, 2 lanciarazzi multipli Smersh, 70 lanciarazzi multipli Grad (BM-21), oltre ad un gran numero di altri mezzi.
Il risultato più sorprendente sarebbe stato, comunque, la neutralizzazione dei principali sistemi della rete di difesa aerea avversaria (4 sistemi S-300; 3 sistemi missilistici cingolati TOR; 40 sistemi tattici OSA 9K33 e 5 sistemi a medio raggio KUB 2K12), che ha lasciato il dispositivo terrestre armeno senza protezione dal cielo, a meno dei Man-Portable Air-Defense Systems -MANPADS.
L’Azerbaijan ha verosimilmente beneficiato della recente esperienza della Turchia in Siria e in Libia, dove i suoi droni hanno eliminato i sistemi di difesa aerea a corto raggio di fabbricazione russa Pantsir S1 (NATO SA-22 Greyhound) utilizzati dalle forze del generale Khalifa Haftar, comandante del Libyan National Army – LNA.
Particolarmente efficaci si sono rivelati gli Harop (loitering-munition), i cosiddetti “droni kamikaze o suicidi”, che combinano le caratteristiche di un missile con quelle di un UAS, quali mini-droni portatili utilizzati dalle forze israeliane da un decennio – capaci di eludere i radar avversari grazie alla loro piccola dimensione – che esplodono all’impatto con il bersaglio. Sono di fatto proiettili teleguidati che forniscono alle unità di terra armi di reparto con una precisione maggiore (inferiore a un metro) rispetto ad altre, come ad esempio il mortaio.
Dotati di telecamere ad alta risoluzione, che consentono all’operatore di localizzare, sorvegliare e indirizzare il velivolo sul bersaglio, sono in grado di funzionare anche in condizioni meteo avverse, non dovendo fare affidamento, a differenza dei droni, su altri sistemi di guida per il targeting della missione. Una caratteristica dell’Harop è la possibilità di “aggirarsi” in un’area di attesa predefinita per un lungo periodo (9 ore) alla ricerca dell’obiettivo da colpire.
Un diverso modo di operare
L’esercito armeno in tutti gli intermittenti scontri precedenti si era sempre dimostrato superiore: aveva ufficiali più preparati, soldati più motivati e una leadership intellettualmente più agile.
Per fronteggiare tale situazione, l’Azerbaijan, avvalendosi anche (e soprattutto) del supporto esterno, si è visto costretto a rivedere il proprio modo di operare, ricorrendo a un mix sinergico di sistemi moderni e tradizionali impiegati in modo innovativo, cogliendo così di sorpresa gli avversari.
Le forze azere, avvalendosi di un’efficiente rete di acquisizione e di elaborazione delle informazioni, hanno lanciato l’offensiva (Operazione Steel Fist) con una azione che prevedeva:
l’intervento degli UAS per conoscere preventivamente la disposizione del dispositivo armeno e il posizionamento delle riserve;
la neutralizzazione iniziale delle difese contraeree, sulla scorta delle informazioni ricevute dai droni ISR (le forze azere nelle fasi iniziali dei combattimenti hanno impiegato anche aerei da trasporto An-2 Colt di epoca sovietica dotati di sistemi di controllo remoto per attirare e rilevare il fuoco dalle difese aeree armene), con i droni armati turchi Bayraktar TB2 (equivalenti dei Reaper statunitensi) e israeliani Heron, a lunga autonomia, e Harop per ottenere e mantenere il controllo dello spazio aereo alle varie quote (bassissima quota sino a 150 metri, bassa quota tra 150 a 600 metri, media quota tra 600 e 7.500 metri e alta quota oltre i 7.500 metru ;
un intenso fuoco di artiglieria sulle posizioni (fortificate) armene della linea di contatto per indebolirne le difese (e il morale);
l’attacco con droni armati degli assetti terrestri avversari (posti comando, reparti corazzati, fanteria allo scoperto, unità di artiglieria, installazioni radar, centri logistici, aree di sosta delle forze, ecc.) senza specifiche difese anti-droni;
l’attacco in profondità contro le riserve nemiche tramite i droni che hanno “diretto” il fuoco dell’artiglieria, dei lanciarazzi multipli e dei missili balistici, tra cui i LORA israeliani di elevata precisione (errore massimo 10 metri), per distruggere ponti e strade che collegavano le aree di schieramento delle riserve al fronte e per neutralizzare i centri vitali nelle retrovie e le linee di rifornimento. Il LORA (LOng Range Artillery) è un Precision Strike Tactical Missile considerato un sistema di artiglieria. È definito missile TBM (Theate Ballistic Missile) quasi balistico in quanto il suo raggio d’azione è equiparato ai missili balistici a corto/medio raggio (sistema Surface to Surface per Precision Strike di obiettivi in profondità sino a 430 km. Per impiego e caratteristiche è paragonabile al missile Iskander russo, Israel Aerospace Industries ;
l’attacco, una volta bloccato l’invio delle riserve, per sopraffare le posizioni armene isolate;
lo schieramento di missili a medio raggio Barak 8 e sistemi antimissile Iron Dome, entrambi israeliani, per prevenire attacchi missilistici contro località d’interesse strategico. Questa procedura, ripetutasi giorno dopo giorno, ha permesso di eliminare o espugnare una posizione avversaria dopo l’altra. Un approccio rivelatosi vincente anche in terreno montuoso, in quanto gli obiettivi, che si muovevano lungo la sola rotabile che collegava le retrovie alla linea di contatto, risultavano più visibili e, di conseguenza, maggiormente esposti al fuoco dei droni.
L’Azerbaijan ha saputo tramutare la difesa fortificata, da sempre vero punto di forza della strategia armena, in una debolezza decisiva, confermando il fatto – ampiamente noto nella storia militare – che più importante degli equipaggiamenti è il processo intellettuale alla base dell’uso degli stessi.
Le cause dell’insuccesso armeno sono da ricercare, invece, secondo l’opinione degli analisti militari, nella carenza di addestramento e di adeguate TTP, unitamente alla mancanza di un’appropriata difesa aerea.
Gli UAS sono risultati indubbiamente determinanti, quale valore aggiunto alle capacità operative azere, ma il conflitto ha confermato che le guerre devono essere ancora concluse con gli “stivali sul terreno”!
La guerra aerea a supporto delle forze terrestri
i droni impiegati per fini bellici non costituiscono una novità. Washington ha utilizzato i Predator e i Reaper per interventi in Asia e in Africa a seguito degli attacchi dell’11 settembre 2001.
Il loro uso, grazie anche alla produzione in altri Paesi, tra cui Turchia, Cina e Israele, si è gradualmente esteso per la semplicità d’impiego, elevata efficacia e difficoltà d’intercettazione.
In Libia, a seguito dell’offensiva lanciata nell’aprile 2019 dal Generale Haftar, comandante delle LNA, per conquistare Tripoli, sono avvenuti in pochi mesi oltre 1.000 attacchi di droni rendendo il Paese, a detta del Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite Ghassan Salamé, probabilmente il più grande teatro di guerra di droni al mondo.
L’utilizzo degli UAS si è rapidamente diffuso anche tra gli attori non statuali (terroristi e insorti) con il ricorso a droni commerciali modificati, facilmente reperibili sul mercato, ad iniziare dal Medio Oriente per poi estendersi all’Afghanistan
Da strumento “asettico” per azioni mirate a distanza che non compromettono i governi e riducono i rischi per le proprie forze, gli UAS sono diventati una componente fondamentale per una forza militare, quale arma aerea di attacco al suolo che aumenta le capacità di proiezione offensiva ed esercita, al contempo, una grande influenza sul campo di battaglia.
La Striscia di Gaza, ad esempio, è diventata uno dei luoghi più attivi di questa moderna guerra per l’ampio utilizzo dei droni da parte sia dell’Esercito israeliano sia di Hamas.
I gruppi militanti cercano spesso di imitare le forze occidentali nell’organizzazione, nell’uso di armi simili e nell’equipaggiamento (la cosiddetta “americanizzazione della guerra”).
I Talebani hanno costituito da tempo le forze speciali Red Unit (sulla falsariga di quelle statunitensi, cosi come l’ISIS che ha creato le proprie truppe d’elite noti come “inghimasiyun e come fatto, a suo tempo, dai guerriglieri del Fronte di Liberazione Nazionale algerino che avevano copiato le uniformi e il modo di agire dei paracadutisti francesi.
Un precedente significativo è quello dei “droni giocattolo” telecomandati modificati dai jihadisti dell’ISIS nelle battaglie di Ramadi (2015) e di Mosul (2016-2017) sia per trasportare piccole cariche di esplosivo da sganciare sull’avversario sia per schiantarsi direttamente sull’obiettivo,
In quell’occasione la superiorità aerea garantita dai velivoli USA si è rivelata inutile contro questi quadricotteri che volavano a bassa quota sulle aree urbane (anche per il rischio di colpire le truppe irakene operanti sul terreno).
Daesh ha ulteriormente sviluppato questa capacità, utilizzando i mini-droni per guidare dall’alto i veicoli suicidi corazzati con blindatura artigianale (vehicle-borne improvised explosive device-VBIED) da far esplodere contro le posizioni avversarie, i cui conduttori potevano solo vedere a malapena attraverso le piastre d’acciaio destinate a proteggerli dal fuoco nemico.
Ovviamente, non è la stessa tecnologia ma l’uso dei droni commerciali ottiene sia l’effetto di accrescere le capacità combattive sia una funzione psicologica sugli avversari, indotti a chiedersi se stanno affrontando un nemico meglio equipaggiato di loro.
La trasformazione del campo di battaglia
L’utilizzo di armamenti hi-tech nel Nagorno-Karabakh, costituiti da missili balistici, UAS e loitering-munition, è stato l’esempio più evidente di come questi strumenti ad alta precisione – incrementando il potenziale offensivo – possano cambiare le dimensioni dei conflitti una volta dominati dagli scontri terrestri e dalla tradizionale arma aerea: sono stati la sorpresa strategica in campo tattico che ha trasformato l’area della battaglia.
L’impiego degli UAS, cosi come l’utilizzo dei mercenari, riflette la tendenza sempre più diffusa verso la cosiddetta “guerra surrogata”, dove gli oneri di un conflitto vengono trasferiti dagli attori statuali e non statuali a sostituti umani e/o tecnologici
I droni, dopotutto, sono relativamente economici e più facili da rimpiazzare rispetto ai loro obiettivi, possono produrre danni estesi ed essere neutralizzati solo con contromisure molto più costose; un missile Stinger costa orientativamente 150 mila dollari e un Patriot molto di più, mentre un quadricottero modificato ne costa meno di duemila.
In termini di capacità, appare evidente che i velivoli a pilotaggio remoto offrano il vantaggio del potere aereo, dei sensori e delle armi di precisione alle piccole e medie Nazioni a un costo inferiore rispetto a quello della classica aviazione con equipaggio.
Gli UAS hanno anche dimostrato le vulnerabilità dei sistemi d’arma terrestri, quali carri armati, artiglierie, radar e missili terra-aria senza specifiche difese dai droni, ponendo in discussione il loro ruolo sul campo di battaglia.
Tale situazione ha sollevato il dibattito sulla possibilità che l’era dei corazzati stia volgendo al termine, anche se non esiste un’altra piattaforma che offra una migliore combinazione di manovra, protezione e potenza di fuoco. Nulla può il carro armato, di per sé, per fronteggiare e difendersi da un’arma specificamente progettata per colpire dall’alto, in quanto questi mezzi in genere non sono protetti contro questa tipologia di attacco. Alcuni esperti di corazzati affermano, tuttavia, che i problemi avuti dagli Armeni erano dovuti più alla mancanza di addestramento tecnico-tattico che a un segnale di obsolescenza dei carri armati.
Il conflitto ha evidenziato, inoltre, i limiti delle difese aeree attuali nel contrastare efficacemente combinazioni di attacchi portati da missili balistici e UAS, come peraltro era già emerso in precedenza. Nell’incursione del settembre 2019 lanciata dai ribelli Houthi da diverse centinaia di chilometri di distanza su due impianti petroliferi in Arabia Saudita, che ha causato sensibili danni alle infrastrutture e la temporanea riduzione della produzione petrolifera, nessuno dei tre sistemi contraerei schierati a protezione dei siti (Patriot statunitensi, Crotale francesi e cannoni Oerlikon da 35 mm svizzeri) è stato in grado di rilevare o ingaggiare i droni e i missili da crociera attaccanti
Questa minaccia si sta diffondendo molto più rapidamente delle contromisure o dei sistemi di difesa progettati per affrontarla, anche se molto dipende dal sistema stesso, dal contesto operativo, dalle capacità dell’operatore e dall’avversario (la Turchia, ad esempio, ha perso diversi suoi droni TB2 negli scontri in Libia), come si verifica, del resto, per i sistemi di guerra elettronica.
Le guerre del XXI secolo
Il conflitto nel Nagorno-Karabakh ha anticipato come potrebbero essere le guerre del XXI Secolo rispetto a quelle del passato per la presenza delle armi autonome che, come avvenuto per quelle cibernetiche, possono offrire opportunità alle piccole e medie Nazioni di sfruttare con effetti letali le nuove tecnologie, ponendo fine al monopolio delle grandi potenze, e innescare – con maggiore probabilità – conflitti nelle aree contese tra Stati confinanti.
I combattimenti nel Caucaso, sebbene circostanziati nel tempo, nello spazio e nelle dimensioni, hanno suscitato un grande interesse in ambito internazionale per le novità introdotte ed hanno stimolato numerosi studi per trarne insegnamenti per le rispettive Forze Armate, soprattutto per quanto riguarda l’uso dei droni e i modi per individuare, in un breve lasso di tempo, contromisure efficaci.
Nei Paesi occidentali, tra cui Germania e Regno Unito, è stata avviata una riflessione a livello politico-militare circa la possibilità di avviare nuovi programmi di acquisizione di droni armati più economici (del tipo TB2 turco) per l’ottimo rapporto costo/efficacia dimostrato nel conflitto.
Anche Cina e Taiwan hanno attribuito una particolare attenzione a questi combattimenti, tanto da approfondirne le dinamiche per renderle più aderenti alle proprie situazioni strategiche.
L’utilizzo dei droni armati, oltre a far emergere problemi connessi con una tecnologia incontrollata e in rapido sviluppo, è divenuto oggetto di intense discussioni in diversi Paesi, tra cui la Germania per un quadro giuridico non definito e complessi aspetti etici relativi all’uccisione degli avversari con un joystick.
Innegabilmente, alcune di queste lezioni possono apparire esagerate, come spesso accade, ma sarebbe un errore ignorare o sottostimare le indicazioni emerse, che sono più complesse degli specifici aspetti tecnologici, in quanto hanno implicazioni sull’efficacia della difesa aerea, sulla sopravvivenza delle forze e sulla necessità di pensare in modo diverso allo sfruttamento del terreno e alla condotta della manovra secondo un’ottica multi-dominio, basata sulla conoscenza delle proprie possibilità e sulla creazione di alternative di azione (un’azione in un dominio può avere un effetto diretto ed efficace in un altro).
Innanzitutto, il conflitto ha fatto rilevare, come spesso accade, il divario tra le valutazioni dei leader politici e la realtà sul campo, per mancanza di sintonia con i vertici militari.
La leadership politica di Yerevan, illusa dai precedenti successi, non ha investito in misura adeguata ad assicurare alle Forze Armate gli strumenti e le tecnologie in grado di contrastare efficacemente un avversario che, in questi ultimi anni, grazie alle disponibilità finanziarie offerte dalle risorse petrolifere, si è sensibilmente potenziato con l’acquisizione di armamenti ed equipaggiamenti stranieri dell’ultima generazione.
Gli Armeni, invece di acquistare sistemi di difesa aerea o di guerra elettronica più avanzati, hanno preferito investire in equipaggiamenti di “seconda mano” dalla Giordania, che non erano stati progettati per ingaggiare gli UAS, malgrado segnali di cambiamento si fossero già manifestati quando l’Azerbaijan, nei quattro giorni di scontri del 2016, aveva già usato droni e loitering munition.
Erevan nei quattro anni successivi, peccando forse in presunzione, non aveva recepito questi nuovi aspetti, confidando sulla superiorità combattiva delle proprie truppe (e probabilmente nel supporto russo).
Gli Stati che non possono permettersi forze aeree sofisticate trovano negli UAS un efficace mezzo per conseguire il controllo dello spazio aereo alle basse-medie quote e infliggere pesanti perdite alle forze di terra, presumibilmente superiori ma impreparate – al momento – ad affrontare questa nuova forma di minaccia. Utilizzati efficacemente, i droni armati hanno la possibilità di colpire rapidamente e con precisione forze esposte o non protette.
Ciò richiede lo sviluppo di sistemi di protezione integrati tra la 1a e la 3a dimensione che prevedano una difesa area altamente mobile in grado di supportare le forze terrestri ed estesa sino alle singole unità d’impiego.
Una capacità che non può essere più esclusivo patrimonio delle (poche) unità specialistiche, le quali non saranno mai in grado di soddisfare, in misura aderente, tutte le molteplici e diversificate esigenze delle forze di manovra.
I sistemi d’arma terrestri (carri armati e altri veicoli da combattimento), inoltre, dovranno essere dotati di propri dispositivi di protezione e di contromisure efficaci, alla stessa stregua in cui sono ora equipaggiati contro la minaccia anticarro e gli IED, per la localizzazione e la difesa dagli UAS: la sopravvivenza dovrà ancora una volta mettersi al passo con la letalità.
Il carro russo T-14 Armata, ad esempio, è equipaggiato con un nuovo sistema di protezione attiva, l’Active Protection System (APS) Afghanit, che dispone di un radar in grado rilevare, tracciare, intercettare e distruggere i missili guidati anticarro (ATGM), razzi e RPG in arrivo. Army Recognition (www.armyrecognition.com), 30 December 2020.
Potrà essere utile, inoltre, rivalutare i semoventi contraerei basati su cannoni che la maggior parte degli eserciti occidentali ha gradualmente dismesso dalla fine della Guerra Fredda, tenuto conto che i MANPADS, come lo Stinger, hanno poche possibilità di acquisire obiettivi di così piccole dimensioni come le loitering munition o i mini-droni invisibili all’operatore (nel Nagorno-Karabakh i droni hanno distrutto più MANPAD di quanti droni siano stati abbattuti da questi sistemi portatili).
Sicuramente si rende necessaria una approfondita riflessione sull’impiego dei mezzi blindati e corazzati e, conseguentemente, sull’addestramento tecnico-tattico che deve essere incentrato sull’esasperazione del concetto di diradamento, occultamento, sorpresa, attacchi rapidi e concentrati.
L’esercito americano, ad esempio, nel Centro di Addestramento Nazionale (National Training Center-Fort Irwin, California) verifica il livello di preparazione delle unità corazzate su di un campo di battaglia simulato contro una “forza avversaria” che applica le più recenti TTP emerse nei vari conflitti, per prepararle in modo più consono ad affrontare le sfide che si possono presentare: non sempre è possibile scegliere le guerre da combattere!
Solo una combinazione di tecnologie, dottrine e procedure che annoverino preparazione, innovazione, cooperazione e capacità di adattamento, consentirà di far fronte alla minaccia dei droni riducendone la loro efficacia.
Il Pentagono ha previsto, a tal fine, di sviluppare un programma d’istruzione di base contro-UAS con TTP comuni e l’aggiornamento della dottrina esistente per definire linee guida per tutte le Forze Armate. Il progetto include anche la creazione di una apposita scuola (Fort Sill, Oklahoma) per addestrare i militari a contrastare la minaccia degli UAS soprattutto quella portata dai mini-droni.
I combattimenti nel Nagorno Karabakh, tuttavia, hanno confermato la fondamentale importanza della tecnologia e dei nuovi equipaggiamenti, quali componenti essenziali di una moderna Forza Armata, che non possono tuttavia sostituirsi alla dimensione umana che continua ad essere il fattore decisivo nella condotta delle operazioni, dove il Soldato è il “sistema d’arma” a disposizione più flessibile ed efficace.
Giorgio Battisti
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Judson, The Pentagon is building a school to teach the force how to defeat drones, Defense News, October 30, 2020
Foto Ministero della Difesa Armeno e Ministero della Difesa Azero
Fonte: https://www.analisidifesa.it/2021/01/in-nagorno-karabakh-un-anticipo-delle-guerre-del-xxi-secolo/
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