Questi sono i versi iniziali de Lo Steddazzu di Cesare Pavese (1908-1950), la poesia che chiude la raccolta Lavorare stanca (nell’edizione più ampia del 1943) e che contiene il Leitmotiv non solo di tutta la sua produzione poetica e letteraria, ma anche della sua vita conclusasi tragicamente col suicidio: un’invincibile solitudine, un disagio esistenziale che via via si approfondisce e diventa insormontabile fino a vanificare ogni comunicazione con la natura e, in particolare, con gli altri uomini e con le donne. «Val la pena che il sole si levi dal mare / e la lunga giornata cominci?», si chiede il poeta e prosegue: «Domani / tornerà l’alba tiepida con la diafana luce / e sarà come ieri e mai nulla accadrà».
La poesia-racconto
La prima edizione di Lavorare stanca fu pubblicata da Pavese nel 1936 dopo la rielaborazione dei testi scritti tra il 1932 e il 1935 nei mesi passati al confino a Brancaleone Calabro cui era stato condannato per una presunta attività antifascista. Le poesie di Lavorare stanca si sviluppano come poesie-racconto e costituiscono «il controcanto più deciso» (Pier Vincenzo Mengaldo) all’ermetismo e alle altre forme poetiche novecentesche. Il tentativo letterario di Pavese è rimasto sostanzialmente isolato nella letteratura italiana, mentre nella letteratura americana la poesia-racconto ha avuto un suo sviluppo soprattutto con Raymond Carver e Charles Bukowski e per certi versi con Jorge Luis Borges. Le poesie sono scritte in un linguaggio colloquiale, prosastico, che simula il parlato, con un ritmo cantilenante dato dal verso lungo ispirato al poeta americano Walt Whitman e dalla metrica adoperata nella quale prevale il verso di tredici sillabe (un senario unito al settenario). Si tratta in genere di brevi storie con vari personaggi «che oscillano tra referto realistico e proiezione dell’autore stesso» (Pier Vincenzo Mengaldo): dal cugino de I mari del sud che è stato in giro per il mondo alla prostituta dei Pensieri di Deola, dall’eremita «del colore delle felci bruciate» (Paesaggio) alla donna avvizzita dalle troppe gravidanze («I vestiti diventano vento le sere di marzo / e si stringono e tremano intorno alle donne che passano. / Il suo corpo di donna muoveva sicuro nel vento / che svaniva lasciandolo saldo. Non ebbe altro bene / che quel corpo, che adesso è consunto dai troppi figliuoli»), dal ragazzo che «spiava gli amori dei gatti» (Avventure) all’uomo solo di Lavorare stanca e de Lo steddazzu.
Tra città e campagna
Apparentemente strutturate nel segno del realismo, le poesie hanno pure un valore simbolico. Rivendicando la coerenza formale del suo canzoniere in A proposito di certe poesie non scritte, uno dei due testi critici posti in appendice all’edizione del 1943, Pavese definiva Lavorare stanca «come l’avventura dell’adolescente che orgoglioso della sua campagna, immagina consimile la città, ma vi trova la solitudine e vi rimedia col sesso e la passione che servono soltanto a sradicarlo e gettarlo lontano da campagna e città, in una più tragica solitudine che è la fine dell’adolescenza». La figura di Gella nella poesia Gente che non capisce è a questo proposito emblematica: «Gella sa che sua madre da giovane è stata in città / una volta: lei tutte le sere col buio ne parte / e sul treno ricorda vetrine specchianti / e persone che passano e non guardano in faccia. / La città di sua madre è un cortile richiuso / tra muraglie, e la gente s’affaccia ai balconi. […] Gella è stufa di andare e venire, e tornare a sera / e non vivere né tra le case né in mezzo alle vigne. […] Anche Gella vorrebbe restarsene, sola, nei prati / ma raggiungere i più solitari, e magari nei boschi. / E aspettare la sera e sporcarsi nell’erba / e magari nel fango e mai più ritornare in città. […] Finché le colline e le vigne / non saranno scomparse, e potrà passeggiare / per i viali, dov’erano i prati, le sere, ridendo, / Gella avrà queste voglie, guardando dal treno.»
La ricerca frustrata dell’unità
Ma se la città non può minimamente lenire la sofferenza di chi è solo, le vigne, le colline, il cielo stellato che fanno da splendido sfondo a gran parte delle sue poesie, pur continuando a parlare all’uomo, se non altro perché la campagna sembra venire incontro alla ricerca di unità e di felicità dell’uomo, non riescono più a penetrare nel suo cuore, hanno ormai perso il loro incanto a causa dell’industrializzazione e del conseguente sradicamento: «Fuori, dopo la cena, verranno le stelle a toccare / sulla larga pianura la terra. Le stelle son vive, / ma non valgono queste ciliegie, che mangio da solo.» (Mania di solitudine).
In uno dei suoi testi più significativi, La psicologia dei processi inconsci (1917), lo psicologo Car Gustav Jung notava come gli uomini di città siano ormai lontani dalla vita dei campi e dall’attività variegata del contadino «che col suo contenuto simbolico, gli garantisce una soddisfazione inconscia che l’operaio della fabbrica e l’impiegato d’ufficio non conoscono e non possono mai avere».
Il tema della solitudine ontologica dell’uomo, dell’incomunicabilità, del male di vivere sullo sfondo di una crisi storica ed epocale è lo stesso tema, cui danno voce, a partire dagli anni ’30, le varie filosofie esistenzialiste o i romanzi filosofici come Fuoco fatuo (1931) di Pierre Drieu La Rochelle, La nausea (1938) di Jean-Paul Sartre, Lo straniero (1942) di Albert Camus e, poco più avanti, film come quelli della famosa trilogia di Michelangelo Antonioni: L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclissi (1962) o come 8 e ½ (1963) di Federico Fellini.
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