Il Terrorismo dei Benpensanti
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE
Nella quasi assoluta indifferenza, è morto in Francia Pierre-Guillaume de Roux, editore degli irregolari. Nel 2012 ha pubblicato un pamphlet di Richard Millet contro l’ideologia del multiculturalismo, che ha spaccato la cultura ufficiale francese. Rileggiamolo
La morte di Pierre-Guillaume de Roux è stata, in Italia, pressoché ignorata. Aveva la fronte ampia, uno sguardo inquieto, cupo, indifeso, è stato uno dei grandi editori francesi degli ultimi decenni. Era nato il 25 febbraio del 1963; nel 2010 aveva fondato la casa editrice che porta il suo nome, le Éditions Pierre-Guillaume de Roux, dove ha pubblicato libri importanti, belli, salutari, anticonformisti, al di là del magma editoriale odierno. De Roux, semplicemente, non andava bene alla gauche, all’internazionale radical, agli ideologi della tolleranza, che bonificano le asperità, che non ammettono l’indignazione. Era figlio di suo padre, Pierre-Guillaume, l’estroso, straordinario, inafferrabile Dominique de Roux, il geniale fondatore de “L’Herne”, che ha interrogato, difeso, riscoperto Céline, Ezra Pound, Witold Gombrowicz, disprezzando Roland Barthes e Michel Foucault. Eretico rispetto alla cultura dominante, Dominique trasmigrò a Lisbona, durante la Rivoluzione dei garofani, a fare un po’ di controspionaggio; scrisse ottimi libri, da cercare con le torce (Mademoiselle Anicet è uscito da Mondadori nel 2005, La morte di Céline da Lantana nel 2015, Immediatamente da Miraggi nel 2018). Morì giovane, a 41 anni, lasciando al figlio una eredità irregolare. Prontamente ribadita. Nel 2017 “Le Monde” ricordò alle truppe che Pierre-Guillaume de Roux era l’“editore dei proscritti”, lui ribadì che pubblicare “gli appestati”, banditi dal sistema vigente, vincente, è ciò che deve fare l’editoria. Ma ci restò male, quel reportage fu un colpo basso; il 13 febbraio scorso, poggiando una rosa fasulla sul cadavere, “Le Monde” lo ha detto l’éditeur indépendant.
Il can-can era accaduto alcuni anni prima, nel 2012. Se lo ricordiamo ora è per testimoniare i meccanismi censori e feroci di una certa cultura dell’omologazione – insomma, è il perpetuo, bastardo ritorno dell’uguale. Nel 2012 De Roux pubblica un saggio di Richard Millet, Langue fantôme. All’interno del saggio – di 120 pagine – c’è un frammento, una quindicina di fogli, intitolati Elogio letterario di Anders Breivik. Breivik – in favore degli smemorati – è quello che il 22 luglio del 2011, in Norvegia, ha ammazzato 77 persone. Il saggio è stato tradotto in Italia da Liberilibri, nel 2014, ed è stato al centro di un chiasso eclatante, perfino ovvio. Eppure, la ‘quarta’ del libro dice quasi tutto ciò che occorre sapere, eccola: “Dovremmo lamentarci delle sorti del romanzo francese, pressoché scomparso dalla scena internazionale? Non ne sono così sicuro quando misuriamo il tasso di stupidità del cosiddetto romanzo internazionale. Umberto Eco non ha esitato a ‘riscrivere’ Il Nome della Rosa a beneficio della cultura lobotomizzata: rimuovendo le citazioni in latino, tagliando alcune descrizioni, impoverendo il vocabolario del romanzo. Un processo di volgarizzazione in cui resta integro soltanto lo scenario, in attesa del video game. Ciò che ci ostiniamo a chiamare ancora ‘romanzo’ è diventato il luogo in cui la lingua e la letteratura sono disintegrati. Il Terzo Mondo culturale è proclamato ovunque in Francia. E quando all’uccisione della letteratura segue la negazione della nazione, non si è forse privi di una cittadinanza? Così, il massacro perpetrato da Anders Breivik in Norvegia, lungi dal costituire il gesto di un solo uomo, di un folle, costringe i politici e gli agenti ‘culturali’ ad ammirare una società che, al di là dello scenario ‘multiculturale’, ha preferito rinunciare a qualsiasi comunità di destino, alle proprie radici vive, cristiane, quindi letterarie”.
Il contesto polemico è semplice da capire: non si giustifica Breivik, si legge il suo gesto come un ‘segno’, e si condanna l’Occidente che ha reciso, con rapace facilità e ferocia, le proprie radici. Anche il contesto letterario è consueto: il pamphlet aggressivo, grottesco, paradossale, che ha diversi, folgoranti esempi in Francia (da Léon Bloy a Henry de Montherlant, da Céline a Julien Gracq fino all’osannato Houellebecq). Dunque, nulla di nuovo sotto il sole. Eppure, la reazione della cultura ‘ufficiale’ francese registrò un surplus di violenza, in relazione all’oggetto (un saggio polemico pubblicato per un editore indipendente, noto per dare spazio ai laterali, agli irridenti). Tra l’altro, l’autore del pamphlet non è un granatiere neonazi. Richard Millet ha fatto la guerra in Libano, nel 1975, aveva poco più di vent’anni, ha fondato riviste (“Recuil”), è uno dei romanzieri più potenti di Francia, edito da Gallimard. Per Gallimard, tra l’altro, è stato ‘lettore’ e consigliere di peso: grazie a lui l’editore francese ha pubblicato Le benevole di Jonathan Littell. Alla fine della storia Millet se ne è andato, da Gallimard, “dimissioni forzate, volute dal comitato di lettura di Gallimard, la casa dove ora mi è impedito soggiornare”, ha detto a “Le Figaro”, nel 2013. “Quello che è successo mi ha cambiato la vita: è stata un’autentica caccia all’uomo, organizzata per togliermi la libertà di parola sullo stato della letteratura francese. Ciò che mi ha sorpreso è che il fatidico Elogio letterario di Anders Breivik non è stato letto dai miei detrattori, neanche sfogliato. Sono stato vittima di un pugno di scrittori e di giornalisti, condannato all’esilio senza neppure essere letto”.
Che è successo? Che la cultura ufficiale, “internazionale”, si è armata. Ad aprire la lotta, il 10 settembre del 2012, è stata Annie Ernaux, tramite “Le Monde”, che ha difeso l’etica multiculturale, con gran finale: “L’Elogio letterario di Anders Breivik è un pamphlet fascista che disonora la letteratura”. Intorno alla Ernaux, a chiedere la testa culturale di Millet, si radunarono un centinaio di scrittori; il Nobel per la letteratura Le Clézio ha dato man forte scagliandosi contro le “grevi elucubrazioni” del testo: uscirono decine di articoli uniformemente indignati. Nel 2013 Muriel de Rengervé pubblica L’Affaire Richard Millet stigmatizzando “il terrorismo dei benpensanti”, difendendo la sovrana libertà letteraria: verbi nel vuoto. Il 12 settembre del 2012 “L’Express” pubblica una lunga arringa di Millet, che fa a pezzi il mondano mondo della letteratura francese contemporanea, e in cui scrive, tra l’altro:
“L’Europa nel suo insieme, a causa dell’immigrazione massiccia extraeuropea, il salafismo armato, il politicamente corretto coadiuvato dal capitalismo globale, è a rischio di distruzione… Il multiculturalismo ideologico e la sua ala armata, il diritto, fanno sapere che lo spirito nazionale, il genio dei popoli, la storia, la cultura, il cattolicesimo, il silenzio, il ritiro, il pensiero, non sono che vizi antichi: così il multiculturalismo è solo una delle forme di decomposizione culturale, spirituale e sociale dell’Europa, la prima tappa di una emigrazione del ‘genere umano’ in qualcosa di indifferenziato, interscambiabile, dunque disumanizzato… Breivik, ho scritto, è il sintomo demoniaco di ciò che le nostre società producono: solo gli imbecilli e i propagandisti possono credere ai casi ‘isolati’, all’interno di quella che invece, per parafrasare Carl Schmitt, è una guerra civile i cui fantasmi si materializzano con volti mostruosi. Non è forse compito degli scrittori evocare questi fantasmi? Condanniamo i demoni di Dostoevskij, gli assassini di Truman Capote, i kamikaze di Jean Genet, lo psicopatico di Bret Easton Ellis, il terribile Jean-Claude Romand romanzato da Carrère? Esistono forse criminali migliori di altri?… Senza dubbio, ho svelato il patto che lega l’insignificanza culturale occidentale al multiculturalismo ideologico, fonte di tanto odio. Suggerirei la creazione di un premio Breivik: sarebbe assegnato a chi mi accusa, per la qualità eccezionale dell’odio, l’ignoranza pervicace, il desiderio di uccidere chi cerca la verità”.
Come si sa, infine, ha vinto la Ernaux. Pubblicata senza troppo successo, dagli anni Novanta, da Rizzoli, è diventata un ‘caso’ da quando, nel 2014, l’editore L’Orma ha stampato Il posto. Ormai, è autrice di culto e di cassetta. Al contrario, di Millet sono pubblicati, in modo disorganizzato, soltanto alcuni saggi, L’antirazzismo come terrore letterario (2016), L’inferno del romanzo (2019), ad esempio. I grandi romanzi, pubblicati da Gallimard, sono ancora inediti. La confession négative (2009), scritto nell’onda di Malaparte, André Malraux, Ernst Jünger, ha passi possenti: “In passato, ho dovuto uccidere uomini, donne, vecchi, forse bambini. Poi sono invecchiato. Siamo invecchiati più velocemente degli altri. Abbiamo visto ciò che nessuno sa fissare: il sole, la sofferenza, la morte. Parlerò di questo: chi mi ha fatto giurare di tacere, chi ha minacciato di ammazzarmi ora non è più di questo mondo, ormai, e da troppo tempo in Europa gli uomini non credono più a niente, gli olmi si sono ammalati, sono morti”.
L’anno scorso Pierre-Guillaume de Roux ha pubblicato il Journal di Millet. Inutile dirlo. Restiamo, editorialmente, un paese da terzo mondo culturale.
Fonte: https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/societa/de-roux-millet-breivik/
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