Elogio del canone classico
di La Fionda (Umberto Vincenti)
L’espressione ‘canone classico’ è di Nello Preterossi: espressione suggestiva perché affaccia un modulo educativo – il nostro – oggi sotto attacco. Ad attaccarlo siamo noi occidentali che dovremmo difenderlo, magari adattandolo ai nuovi tempi, ma mai dismettendolo. Recentemente siamo andati oltre: una de-civilizzazione che si è manifestata attraverso atti brutali e rozzi, l’abbattimento di statue di uomini che hanno fatto la (nostra) storia ma ‘politicamente scorretti’ ante litteram, uno come Cristoforo Colombo avvertito come proto-suprematista bianco, oppressore e razzista. Un vento, questo della cancel culture, che spira dalle più prestigiose università americane: contro la cultura classica per l’espunzione dei classici a partire da Omero – capostipite della mascolinità tossica – perché non rispettosi dell’eguaglianza di genere e razza. Il canone della non discriminazione in luogo del canone classico. Ma di questo passo dovremmo liberarci anche del (nostro) diritto perché erede del diritto romano che aveva quale summa divisio delle persone quella tra liberi e servi e assegnava la primazia al maschio. Arriveremo, o vi siamo già, a far le stesse cose dei talebani, con la non lieve differenza che noi vorremmo far tabula rasa della nostra cultura, non di quella degli altri.
La furia iconoclasta non ci dovrebbe più appartenere e, in fondo, consumare; e il canone classico, pur storicamente contestualizzato, continua fortunatamente ad avere dentro di sé una potente attitudine civilizzatrice. Certo, se rinunciamo alla storia in nome del presentismo, non ce ne renderemo conto. Ma il vero è che, salvo ipotizzare una magia della pur classicissima ars inveniendi (che è ars combinatoria), non è nemmeno pensabile che l’Occidente possa riuscire a costruirsi un’autentica cultura alternativa a prescindere dalla classicità. Tutto è ancora governato dalle categorie del canone classico, anche se vi è una robusta tendenza a perderne la consapevolezza. Ma chi vorrebbe dimenticare la (nostra) storia mette in campo al massimo procedure tecnico-burocratiche, cioè la cecità di fronte al mondo.
Tuttavia i depositi sapienziali della tradizione greco-romana sopravvivono intatti e non mancano i loro custodi, sempre più rari, ma ostinati e, spesso, assai preparati. Però se consegneremo il canone classico all’oblio – o al culto di sparuti cultori – potremmo perdere noi stessi e trovarci ad essere ‘senza cultura’. Avremmo, è vero, le tecniche e la tecnologia e potremmo anche padroneggiarle. Però conosceremmo solo delle ‘sequenze’ per ottenere certi risultati, seppur utili o utilissimi e lucrativi; ma le utilitates e l’homo oeconomicus c’entrano poco con il sapere e i saperi. Questi ultimi ci introducono in un’altra dimensione che potremmo anche chiamare spirituale. Sono i saperi che ci orientano nello spazio e nel tempo (e le nostre scuole hanno emarginato la storia e la geografia …); sono i saperi che ci rendono uomini che si interrogano sul bene e sul male, sulla giustizia, sul senso della vita, sul bello, sull’onore, sul governo o sul miglior governo della comunità. E tutti i pensieri che ci hanno fatto progredire erano perfettamente inutili.
Quelle domande innescano una ricerca incessante che ha come protagonista e, insieme, oggetto l’uomo in sé; e ci portano su altri sentieri, verso utilitates di tutt’altra natura di quelle a cui mirano le tecniche, le procedure, la burocrazia, la produzione economica. Il canone classico non offre certezze, men che meno certezze assolute; coltiva il dubbio metodico; insegna socraticamente ad interrogare e, prima ancora, ad interrogarsi senza ipocrisia alcuna. Il canone classico ci costringe ad infinite, imprevedibili, interrogazioni. Il tecnico è, invece, costretto da una o da poche domande e il suo mondo è circoscritto, in certo senso finito. Vuole un risultato, spesso a tutti i costi; e non gli interessa se sia giusto o ingiusto, solo se (gli) è utile.
Allora le tecniche sono qualcosa di minore? Forse sì, almeno se vogliamo continuare ad essere uomini a tutto tondo, signori delle nostre tecniche avvertite per quel che sono, cioè un attrezzo, uno strumento, un dispositivo che non può essere utilizzato se non pienamente compreso, nei suoi effetti vicini e lontani; e che deve essere sapientemente guidato e poi valutato, cioè giudicato nel contesto generale e non semplicemente misurato nei suoi propri risultati.
A questo – e non è proprio poco – è idoneo il canone classico; esso solo può avvertirci quando sia il momento di fermarci o di cambiare rotta o di inventare un’altra cosa. Potrebbero i tecnici – o, meglio, i puri tecnici – amare il canone classico? Difficilmente: un tecnico più facilmente è condotto a pensare, se non avvertito, che la classicità, il passato, la storia, la filosofia siano inutili in quanto non produttivi, forse anche fastidiosi, irritanti, pericolosi perché dalle discipline umanistiche sono allestite riflessioni e critiche e avanzata una problematicità non tecnica, dunque pericolosa.
Ecco allora la pretesa di emarginare e relegare il canone classico; e può anche accadere che filosofi e storici alla ricerca di visibilità si pieghino e tradiscano sé stessi e il loro sapere camuffandolo, tecnicizzandolo. Una svolta paradossale, ma visibilissima, per esempio dentro le scuole, i dipartimenti, le facoltà giuridiche: filosofi e storici del diritto a giurare che le loro non sono discipline culturali.
Così stan le cose, oggi. E lo prova, da noi, proprio il Recovery Plan che, al capitolo scuola, dispensa fondi (leggere il documento del Mef) per competenze digitali, Stem (acronimo di scienza, tecnologia, ingegneria e matematica); e poi trasferimento tecnologico, intelligenza artificiale, blockchain, big data, gamification, esperienze virtuali.
I fautori della nuova formazione vogliono sostituire i libri con i video, la didattica con l’autodidattica. In più nuovi luoghi o, meglio, nuova nomenclatura: non aula ma sala riunioni, non lezione ma riunione di lavoro, non scuola ma sede, non professore ma consulente. La dimensione è questa: aziendalismo, procedurismo, economicismo. Denaro e finanza, sopra tutto; l’ansia occupazionale a trasformare l’universitas in un’agenzia di collocamento tacendo, per non perdere gli studenti-clienti, che nulla è prevedibile.
Scomparirà allora Ettore che ha il coraggio del dovere, lasciare Ilio dalle alte mura per affrontare Achille sapendo di morire, perché questo si attendono da lui i suoi concittadini e il padre suo? Scomparirà Enea che, in drammatica fuga, pur si carica sulle spalle Anchise, un vecchio malandato, cioè un inutile, ma che l’amore filiale, e ancora il dovere, esigono di salvare? Veramente sta declinando il canone classico?
No, non finirà così. I custodi della nostra tradizione la manterranno in vita e da essa, ancora una volta, dal suo ennesimo ripensamento, scaturirà il nuovo quando sapremo riprendere il nostro cammino. Intanto registriamo (in Francia però) che il 22 marzo 2021 Le Figaro ha pubblicato un appello per la difesa della cultura classica: vi hanno aderito in tanti, anche dall’Italia. La battaglia è stata portata innanzi tutto dentro i programmi scolastici; e ha l’adesione del Ministro per l’Educazione nazionale, Jean-Michel Blanquer.
Fonte: https://www.lafionda.org/2021/04/27/elogio-del-canone-classico/
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