‘Caro Darwin, i tempi sono cambiati’: quando la selezione naturale diventa digitale
di Gazzetta Filosofica (Maria Chiara Scopelliti)
Nel dicembre del 1831, all’età di quasi 23 anni, Charles Darwin (1809-1882) salpò dall’Inghilterra per quello che divenne il viaggio più ricco di conseguenze della storia della biologia. Studente di medicina poco motivato, appassionato di botanica e di geologia, Darwin stava intraprendendo con poca convinzione la carriera ecclesiastica al Christ’s College di Cambridge, destino comunemente segnato per figli cadetti dell’alta borghesia inglese dell’Ottocento. Quando il capitano FitzRoy, del brigantino della Marina di Sua Maestà Beagle, gli offrì un passaggio come naturalista disposto a seguire la spedizione a sovvenzione governativa, senza stipendio, Darwin accettò con entusiasmo, considerandola un’opportunità per approfondire i suoi interessi di storia naturale. Un viaggio durato cinque lunghi anni, dal 1831 al 1836, che finì per cambiare radicalmente l’attuale visione della vita e la collocazione dell’essere umano all’interno del mondo vivente.
Ma cosa accadrebbe se Mr. Charles Darwin dovesse intraprendere oggi il suo viaggio di ricerca? Non esplorando le coste dell’America meridionale, a bordo del leggendario Beagle, alla scoperta di nuove specie animali e vegetali, ma, più banalmente, osservando e analizzando dalla confortevole staticità della sua poltrona, magari davanti allo schermo del suo Pc e in compagnia di una buona tazza di thè, le acque di un nuovo, ma, quanto mai tormentato oceano: quello dei cosiddetti social network? Quale declinazione digitale avrebbe il meccanismo di selezione naturale da lui teorizzato ben 162 anni fa?
Secondo quanto raccontato dallo stesso Darwin, il concetto di selezione naturale, diffusamente esposto nella sua rivoluzionaria pubblicazione Sull’origine delle specie per selezione naturale (1859), cominciò a delinearsi nella sua mente intorno al 1838. In quel periodo, infatti, Darwin si stava dedicando alla lettura del Saggio sul principio di popolazione (1798) del pastore anglicano Thomas Malthus (1766-1834), al tempo attuale come non mai, nonostante la prima edizione risalisse a sessant’anni prima. La pessimistica e principale tesi malthusiana sosteneva che la popolazione, se non controllata, tende a crescere con progressione geometrica (2, 4, 8, 16, 32, 64…), raddoppiando ogni venticinque anni, a differenza delle risorse alimentari, le quali aumentano secondo una progressione lineare aritmetica (1, 2, 3, 4, 5, 6…). I principali fattori di controllo della crescita demografica erano stati cinicamente individuati in eventi nefasti e catastrofici, non naturali e su vasta scala, quali, ad esempio, grandi carestie, guerre, epidemie e genocidi. Fu così che Darwin intuì come tutte le popolazioni, non solo quella umana, fossero potenzialmente destinate ad andare incontro a una carenza di risorse e che soltanto una piccola percentuale di individui nasce e riesce a sopravvivere: da qui l’elaborazione del meccanismo evolutivo di selezione naturale, che teorizzava un rapporto diretto fra individui dotati di caratteristiche più vantaggiose nella lotta per l’esistenza e la maggiore probabilità di sopravvivenza e di riproduzione degli stessi.
Volgendo lo sguardo alla questione iniziale, relativa alla possibilità di delineare oggi una singolare tipologia di meccanismo selettivo, che potremmo definire selezione digitale, vastamente diffuso fra gli utenti abituali di social network, quali, fra gli altri, Facebook e Instagram, viene spontaneo chiedersi quali considerazioni trarrebbe il padre della teoria evoluzionistica moderna di fronte a questo inedito contesto di ricerca. Contatti, visualizzazioni, follower, narcisismo, tendenze, individualismi e megalomania: le parole chiave del grande arcipelago, molto più simile a una teca espositiva popolata di profili virtuali, che il naturalista britannico sarebbe chiamato ad analizzare. Un quadro contestuale decisamente differente da quello paradisiaco delle Galapágos!
Un meccanismo, quello della selezione digitale, non biologico ma, sociale, relazionale e comunicativo, che sembra trovare sistematica applicazione nella dimensione spazio-temporale delle principali piattaforme di social network. Un tratto caratteristico ed essenziale di quest’ultime riguarda, infatti, la radicale ed ambigua commistione fra mondo reale e realtà virtuale, in cui il classico assioma filosofico hegeliano del «Tutto ciò che è reale, è razionale e tutto ciò che è razionale, è reale» sembra essere stato incontrovertibilmente declinato nell’idea che “Tutto ciò che è reale è virtuale e tutto ciò che è virtuale è reale”, un’equivalenza semantica alienante e paradossale.
È proprio all’interno di questa dimensione, però, che i membri della cosiddetta screen generation sono chiamati a plasmare e gestire la propria identità e rete di contatti, amici e interessi. Questa necessità è alla base di una nuova modalità relazionale e comportamentale, nota come individualismo in rete, che trasformerebbe l’idea di soggetto come parte, monade di una rete, in un’entità del tutto ego-centrata, autoreferenziale ed egocentrica rispetto alle alterità con le quali entra in contatto. Basti pensare all’attuale tendenza a mostrarsi, esibirsi, affermarsi conformandosi alla costante e teleologica ricerca del compiacimento altrui, ben espresso dal pulsante “like”, diretto indicatore reputazionale.
In un mondo dominato dal sistematico binomio concettuale dell’“usa e getta”, in cui tutto ciò che è consumato viene poi, inevitabilmente, anche scartato, le relazioni umane e i rapporti sociali rischiano di cadere nel grande buco nero del cosiddetto analfabetismo affettivo, un fenomeno psicologico nel quale il soggetto non è più in grado di gestire attivamente ed empaticamente una sana emotività.
« Il risultato è l’atrofia degli organi mentali necessari per afferrare contraddizioni ed alternative, e nella sola dimensione che rimane, quella della razionalità tecnologica, la “coscienza felice” giunge a prevalere. » (Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione)
Ne conseguirebbe, altresì, per parafrasare il grande sociologo ed intellettuale polacco Zygmunt Bauman (1925-2017), teorico del paradigma moderno di “società liquida”, un’identità fluida, frammentata e mimetizzata in un universo caleidoscopico dominato da profili e tratti personali accuratamente selezionati, riflesso di una dimensione, quella virtuale, che induce l’individuo a un costante cambiamento e a una gestione tanto utilitaristica, quanto fragile e vulnerabile dei propri interessi e contatti.
Così, se l’origine della selezione naturale darwiniana è da individuare in una combinazione fortuita e fortunata di mutazioni genetiche, quella digitale opererebbe attraverso modalità del tutto arbitrarie e puntualmente organizzate dagli stessi individui, sia nei confronti delle alterità, sia verso sé stessi. Nel primo caso, guidati dalla paradossale equivalenza logica fra numero di follower, popolarità e livello reputazionale, il soggetto è libero di rimuovere, bloccare, espandere con facilità la cerchia di contatti utili con i quali intende relazionarsi e promuovere la propria immagine personale e professionale, pubblica o privata. Nel secondo caso, invece, è la sfera dell’Io a subire una vera e propria operazione a “schermo aperto”: una costruzione di un’“identità su misura” a partire da contenuti selezionati, descrizioni autobiografiche, citazioni ad effetto, fino all’applicazione di filtri e funzioni di fotoritocco di ciò che si considera inadatto ai fini della pubblicazione, contesto d’azione in cui ciò che è reso visibile è, potenzialmente, anche giudicabile, valutabile e condivisibile.
È noto, infine, come la selezione naturale produca l’adattamento, termine declinabile, in materia biologica, sia come una condizione di sintonia e integrazione dell’organismo con l’habitat, sia quale processo evolutivo che si verifica nel corso di molte generazioni e che produce organismi sempre più in armonia con l’ambiente; detto ciò, è possibile immaginare un fenomeno collaterale al meccanismo di selezione digitale fin qui analizzato? Più che di adattamento, in questa sorta di agorà virtuale, sarebbe più opportuno parlare di disadattamento sociale indotto dal capovolgimento dei tradizionali limes concettuali di prossimità e distanza, identità e fragilità delle relazioni interpersonali. Nella dimensione sociale, relazionale, infatti, non vi può essere immediatezza, ma costante mediazione; non comodità, ma fatica data dall’incontro e confronto con il dialogo rispetto all’altro. Nel momento in cui viene cancellato questo genere di approccio interpersonale, viene meno la dimensione del contatto reale con l’alterità e, conseguentemente, ciò che non si conosce, non si condivide o non piace, rischia di deformarsi in una paura infondata, in odio, in una fuga dalla realtà, in violenza o autoisolamento. L’epoca in cui viviamo ci impone questo tipo di riflessione e presa di consapevolezza, date le innumerevoli potenzialità degli strumenti tecnologici a nostra disposizione e le infelici e dirette ricadute che un uso inconsapevole, improprio e superficiale di questi potrebbero comportare.
Alla conclusione di questo ideale viaggio nell’oceano dei social network, viene da pensare che se Darwin avesse dovuto scrivere un libro sulla dinamica di selezione digitale nel XXI secolo, probabilmente avrebbe dato alla sua nuova opera un titolo più asciutto e sintetico rispetto al suo avvincente Viaggio di un naturalista intorno al mondo (1839), degno di un avventuroso romanzo di Jules Verne: qualcosa come Sulla selezione digitale a portata di clic.
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