La nuova cortina di ferro
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Andrea Caira)
Oggi, nei Balcani, si è spostata la linea di demarcazione della guerra fredda tra Stati Uniti e Cina.
Quando a ridosso della crisi del 2008 l’Europa politica voltò le spalle a Pechino, rifiutando di accogliere la sfida cinese per la de-dollarizzazione dei mercati internazionali, certamente non immaginava che sarebbe andata incontro a una crisi di secondo livello capace di portare i debiti sovrani a toccare quote vertiginose. Mal digerito il rifiuto di Bruxelles, Pechino fu costretta a dirigere i propri commerci oltreoceano, aiutando indirettamente Washington a uscire dalla regressione e a imboccare la via dell’espansione. In poco tempo la crescita americana toccò quota 4% facendo registrare un importane aumento sotto il profilo occupazionale. L’Europa, invece, intraprese una lungo e tortuoso periodo di crisi che acutizzò le differenze economiche tra i Paesi membri.
Rispetto a quindici anni fa, quando le grandi potenze asiatiche si affrettavano a comprare euro per vendere dollari, oggi l’Europa appare tutt’altro che monolitica. Le spaccature interne, dettate da misure economiche che hanno indebolito i Paesi del Mediterraneo a scapito dei Paesi del Nord (pensiamo ad esempio al cosiddetto terzo shock europeo con l’allargamento dei mercati ad Est), hanno portato i vecchi vicini asiatici ad affacciarsi nuovamente nel Vecchio Continente, sondando il terreno per comprendere la profondità delle crepe. Nello specifico, la Cina, dopo aver sperimentato la pratica del soft power in Australia e in molti Stati africani, ha deciso di investire con maggiore insistenza nel quadrante dei Balcani Occidentali, ovvero quello che da molti viene considerato il cortile esterno dell’Unione Europea. Il destino dei Paesi dell’ex Jugoslavia sembra da sempre legato a doppio filo con quello dell’Europa Centrale, tornando a ricoprire ciclicamente ruoli più o meno principali per il futuro dell’intero continente.
Oggi, nei Balcani, si sta giocando una nuova partita tra l’espansionismo cinese e quello europeo. Le ragioni interne alla Unione, però, hanno creato una ragnatela di trame specifiche, che spesso si scontrano e si sovrappongono a seconda dei casi. Con la pandemia provocata dal Covid-19, molti di questi interessi sono diventati maggiormente visibili, costringendo le parti ad intervenire in maniera più o meno diretta. In questi ultimi giorni sono stati almeno 3 gli avvenimenti cruciali che hanno interessato la geopolitica balcanica. In primo luogo, il rapporto del think-tank americano Freedom House ha recentemente retrocesso la Serbia e il Montenegro da “democrazie” a “regimi ibridi”. Secondo il parere della più antica organizzazione americana per il supporto e alla difesa della democrazia in tutto il mondo, la Serbia negli ultimi 5 anni avrebbe perso molti punti nella graduatoria Nations in Transit, raggiungendo così il Montenegro, che già dal passato anno era stato classificato come Stato non democratico. Nello specifico, le accuse mosse a Belgrado ruoterebbero intorno alla trasparenza di alcuni procedimenti legislativi. Infatti, come emerge dal rapporto:
In Serbia, l’opposizione non ritiene di poter difendere efficacemente i cambiamenti politici perché il partito al potere ha lavorato per negargli l’opportunità di farlo, e dubita che potrà mai conquistare il potere attraverso le elezioni. Pertanto, ha scelto di boicottare il Parlamento nelle prossime elezioni del 2020. […] Il Partito di Vučić abusa della sua maggioranza in Parlamento, confondendo le attività del partito con quelle dello Stato, facendo pressione sugli elettori e utilizzando misure sociali per comprare consenso.
Freedom House
A muovere dei dubbi, però, non è tanto la risoluzione nello specifico, ma più la tempistica di tale dichiarazione. Infatti, in questi ultimi mesi di crisi sanitaria, il governo di Pechino e quello di Belgrado si sono cercati con ancor più insistenza. Gli investimenti del gigante asiatico nell’ex capitale Jugoslava sono di vecchia data: l’allocazione di circa 10 miliardi per l’acquisizione cinese dell’impianto dismesso di Smederevo (trasformato in seguito in uno maggiori snodi dell’economia interna, nonché fiore all’occhiello nel campo dell’export), e il finanziamento per l’ammodernamento della linea ferroviaria Budapest-Belgrado ( il cui costo di circa 1,7 miliardi è stato erogato dalla Exim Bank of China per l’85%), testimoniano come l’interesse espansionistico cinese si muova in maniera adiacente all’Unione Europea. Inoltre, nel momento del bisogno, il presidente serbo Aleksandar Vučić si è rivolto direttamente a Pechino per chiedere aiuti e dispositivi di sicurezza per fronteggiare la virulenza del Coronavirus. Quanto domandato è stato immediatamente corrisposto, a costi di favore e in misura superiore per quantità. In quest’ottica, le recenti dichiarazioni di Vučić, secondo cui “l’unico Paese che può aiutarci è la Cina”, hanno tutto il sapore di un proclamo anti-Occidentale tramite il quale la Serbia cerca il suo agognato riscatto.
Sebbene in America questo trend possa far storcere il naso ad alcuni politici di Washington, in Europa tali dichiarazioni risuonato come un vero e proprio campanello d’allarme. Infatti, altrettanto poco casuale appare il recente vertice di Zagabria tra Ue e Balcani Occidentali. Al termine dell’incontro è stato erogato un pacchetto di circa 3,3 miliardi d’euro che andrà a finanziare il settore sanitario della Regione, attraverso la fornitura di beni essenziali. Altri 750 milioni di euro saranno destinati alla microfinanza, mentre 1,7 miliardi andranno a coprire il settore degli investimenti. Allo stesso tempo, però, l’Europa si congeda senza alcun tipo di pianificazione o programmazione economica futura, e senza nessuna nuova spinta coesiva tra le diverse etnie presenti nel territorio. Nelle sei pagine del documento finale emergono solamente raccomandazioni e consigli, spesso, però, verosimilmente irrealizzabili per la realtà infrastrutturale di alcuni Paesi.
Gli investimenti – sostiene la relazione finale – sono di fondamentale importanza per stimolare la ripresa della Regione sul lungo termine e sostenere le riforme necessarie per continuare ad avanzare sul percorso europeo e colmare le disparità. I Balcani Occidentali dovrebbero trasformarsi in economie di mercato funzionanti, in grado di connettersi pienamente al mercato unico dell’UE. Creare posti di lavoro e opportunità imprenditoriali, migliorando il clima degli investimenti e promuovendo lo Stato di diritto…
La teoria, però, è quanto mai distante dalla pratica. Pensiamo a realtà come la Bosnia ed Erzegovina o il Kosovo, dove le reti ferroviarie sono ancora in larga parte inutilizzabili, e nel sottosuolo sono presenti più di un milione di mine inesplose. La tipologia di investimenti esteri di cui parla Unione Europea diventa impraticabile senza prima cospicui finanziamenti a fondo perduto, volti all’ammodernamento delle più basilari infrastrutture. Dall’altra parte, a inizio di quest’anno, proprio l’Unione Europea aveva trovato delle spiegazioni per motivare il suo impegno superficiale nel quadrante balcanico. Secondo quanto emerge dal rapporto The power of perspective: Why EU membership still matters in the Western Balkans, una parte sostanziale delle colpe è ascrivibile agli Stati balcanici, che osteggiavano le politiche comunitarie.
Parte del motivo – scrive l’European Council on Foreign Relations – per cui l’UE non è stata in grado di affrontare il lungo stallo istituzionale della Bosnia-Erzegovina è da ricondurre al debole interesse delle élite politiche bosniache a aderire all’UE. Ciò li ha resi solo raramente disposti a soddisfare le richieste dell’UE…
E in questa infinita serie di dualismi, il ruolo della Cina è diventato sempre più gradito ai Paesi balcanici. Senza porre alcun veto sulle politiche sociali interne o sul rispetto delle minoranze etniche e dei diritti umani, Pechino ha messo sul piatto più di 10 miliardi nella sola Serbia in 10 anni, ha acquistato il 67% del porto del Pireo e ha ristrutturato completamente l’autostrada Salisburgo-Salonicco. Logicamente, l’indifferenza cinese per la sfera sociale, ha fatto sì che i soldi degli investimenti finissero nelle mani di pochi, lasciando i Balcani in preda a una forte corruzione, una preoccupante disoccupazione e al ritorno di partiti fortemente nazionalisti.
Il terzo evento da analizzare riguarda da vicino l’Italia. Come ormai è noto a tutti, immediatamente dopo l’iniziale smarrimento europeo dinnanzi al Coronavirus, tra le prime nazioni accorse in soccorso dell’Italia troviamo proprio la Cina. Per tutto il periodo della pandemica Cina e Italia, ma anche Spagna e Grecia, hanno intensificato le relazioni diplomatiche, utilizzando l’interscambio sanitario come possibile prova generale per futuri scambi economici. Il recentissimo investimento dell’azienda statale Faw nel campo della costruzione e produzione di vetture elettriche e plug-in, ha portato nelle casse dell’Emilia-Romagna circa un miliardo d’euro, aumentando la presenza dell’industria cinese nel Bel Paese. A differenza di quanto operato negli altri Stati, la Cina consentirà che l’Italia possa godere direttamente dell’incremento occupazionale, sperimentato una sorta di Soft Power occidentalizzato.
Sostanzialmente, all’orizzonte sembrerebbe profilarsi una nuova guerra finanziari cinese volta a detronizzare il dollaro. Tramite un sempre maggiore numero d’investimenti nei Balcani Occidentali, Pechino spera di arrivare in poco tempo a penetrare nel cuore del commercio europeo. Allo stesso tempo, però, cerca di esacerbare le fratture interne dell’Unione Europea per far orbitare intorno a sé i Paesi del Mediterraneo. Per questioni logistiche, realtà come Italia e Spagna, trarrebbero cospicui vantaggi se una parte del commercio europeo provenisse dal blocco balcanico, potendo mettere per prime le mani sui prodotti extraeuropei. Bruxelles, sembrerebbe essersi resa conto dall’insidia, e dunque, avrebbe agito con urgenza finanziando i circa 6 miliardi nel vertice di Zagabria. Dall’altra parte, la bocciatura democratica proveniente dall’America, sembrerebbe innalzare Belgrado a moderna cortina di ferro, delimitando la zona d’influenza Occidentale da quella cinese.
A pagarne le peggiori conseguenze, però, potrebbe essere la popolazione balcanica, che dagli investimenti asiatici ed europei trae un esiguo giovamento. Infatti, in ambedue i casi i finanziamenti sono rivolti a specifici progetti, che spesso transitano dai grandi centri urbani nazionali. Nessun piano di riqualificazione culturale, scolastica, sanitaria, occupazionale e infrastrutturale, sembra definirsi nell’immediato futuro della Regione. Al contrario, il fatto che le ingenti somme di denaro finiscano spesso nelle tasche di persone relativamente vicine a partiti politici, potrebbe far sì che i mai sopiti spiriti nazionalisti tornino ad ardere in maniera più vigorosa, trascinando i Balcani in nuovi scontri fratricidi. Così come accadde a ridosso del 1914, alle porte d’Europa si stanno sovrapponendo vari interessi finanziari distanti e contrari, che potrebbero far diventare nuovamente i Balcani una polveriera pronta ad esplodere.
Alla luce di tutto ciò, tornano in mente le parole del Generale ONU Kofi Annan, che in merito alle guerre jugoslave di fine secolo disse:
In Bosnia-Erzegovina viene condotta una guerra mondiale nascosta, poiché vi sono implicate direttamente o indirettamente tutte le forze mondiali e sulla Bosnia- Erzegovina si spezzano tutte le essenziali contraddizioni di questo e dell’inizio del terzo millennio
Kofi Annan
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