Fare dell’uomo un essere umano
di Gazzetta filosofica (Luca Pigini)
Siamo riusciti nell’intento di fare del lavoro un’attività pienamente umana, un’attività — cioè — in cui l’uomo si senta a casa, valorizzato e affermato? Le tragedie quotidiane che vanno sotto il nome di “morti bianche”, il caporalato, gli operai delle industrie tessili, i precari di ogni genere — dai camerieri agli artisti —, i minorenni congolesi sfruttati nelle miniere di cobalto, ci ricordano che la dignità del lavoro non va mai data per scontata e che si costituisce solo ed esclusivamente nella lotta politica. Ma in cosa consiste il modo “umano” di concepire il lavoro? Non pretendo che a rispondere sia — horribile dictu — la scienza economica, quanto piuttosto la filosofia; l’opera giovanile di Karl Marx, in particolar modo i Manoscritti economico–filosofici del 1844 possono aiutarci a rispondere al quesito posto.
Un cliché ancora oggi piuttosto abusato è quello del “ritorno a Marx” a cui fa, da contraltare, la damnatio memoriae da parte dei neoliberali ai danni del filosofo di Treviri. La cosa non stupisce se pensiamo che tutta la biografia di Marx è attraversata da una continua lotta del filosofo contro i cosiddetti “comunisti rozzi” da una parte e contro i borghesi liberali dall’altra; una cosa, tuttavia, è certa: entrambi gli avversari di Marx sono accomunati nell’offendere la dignità e il valore del lavoro umano.
Anzitutto è necessaria una premessa; nell’opera di Marx si intrecciano e si confondono due piani che vanno però distinti e messi opportunamente in relazione: da una parte la critica radicitus dell’economia politica — che trova inizio proprio nei Manoscritti del ’44 — e dall’altra il tentativo di formulare nuove teorie economiche (Il Capitale, ovviamente). È chiaro che il secondo piano presuppone il primo, non a torto Benedetto Croce parlava — in maniera critica (critica accolta ma disinnescata da Gramsci) — della teoria del plusvalore nei termini di un «paragone ellittico» tra la società concretamente esistente e una società ideale di liberi lavoratori. Se non teniamo ben ferma tale distinzione rischiamo di cadere nella ridicola pretesa di voler confutare Marx contrapponendogli le “dure” leggi dell’economia, come d’altronde fanno una vasta schiera di odierni economisti neoliberali. Diciamolo pure, senza timore, con le parole di colui che fu uno dei maggiori esponenti dell’operaismo italiano: «Tacete economisti in munere alieno. Marx non è affare vostro» (M. Cacciari, Un dio chiamato Capitale, in “L’Espresso”, 29 aprile 2018).
L’impresa marxiana è titanica: puntare il dito contro l’economia politica (Nationalökonomie) e contro la proprietà privata (Privateigentum), nella stessa misura in cui Feuerbach aveva puntato il dito contro la religione e contro Dio. Perché da una parte c’è chi lavora — per garantirsi appena la sopravvivenza — consumando il proprio tempo, il proprio fisico, cioè la propria esistenza e dall’altra c’è chi si arricchisce senza muovere un dito? L’economista fa spallucce, si aggrappa a ridicole astrazioni: il merito, l’intelligenza, lo “spirito imprenditoriale”, l’“assunzione di un rischio” ecc., fino a ribaltare la situazione: è il lavoratore che dovrebbe ringraziare il capitalista per avere un lavoro!
« L’economia politica parte dal fatto della proprietà privata. Non ce la spiega. Coglie il processo materiale della proprietà privata, che si compie nella realtà, in formule generali, astratte, che valgono poi per essa come leggi. Non comprende queste leggi, cioè non fa vedere come esse derivino dall’essenza della proprietà privata. » (K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844)
Ecco il motivo — sic et simpliciter — per cui chi lavora non guadagna e chi guadagna non lavora: la proprietà privata, «peccato originale» dell’economia politica. «Peccato originale» poi del tutto occultato nel marginalismo che non assume più a fondamento le classi sociali ma l’individuo (consumatore, impresa ecc.). L’economista, da bravo scienziato, guarda al mondo così come esso si dà e coglie un dato di fatto, frutto di quell’ordine spontaneo che è l’evoluzione umana e la divisione del lavoro: la proprietà privata, che egli assume come postulato delle proprie teorie. L’errore epistemologico che compie l’economista politico è quello di dare dignità di legge scientifica (universale, eterna e necessaria) a ciò che è la semplice descrizione, scaturente da ciò che ha presupposto senza spiegare, di un ordine contingente dei modi di produzione che — in quanto fatto umano — è potenzialmente modificabile, poiché l’uomo non subisce passivamente l’umwelt, il mondo-ambiente, ma ne è al contempo plasmatore, realizzatore. L’uomo è zoon politikon.
Dunque, che fare? Abolire la proprietà privata? Ma per carità di Dio! Il lettore sarebbe legittimato a chiedere un risarcimento se l’avessi ammorbato fino a questo punto — nel 2021! — per concludere con certe stupidaggini da rozzi proudhoniani. Credo sia qui il punto veramente vivo dell’opera di Marx, e lo sintetizzo con una provocazione: il filosofo di Treviri — e non gli economisti borghesi — era il vero difensore della proprietà privata! La concezione marxiana di Privateigentum nelle pagine dei Manoscritti ricorda molto quella liberale lockiana (di cui Marx era ben consapevole, sposandola esplicitamente nell’articolo del 1842 sulla legge contro i furti di legna), ossia l’idea che il diritto di proprietà scaturisca dal lavoro. Ecco il punto dirimente: il vero usurpatore della proprietà privata è il capitalista, egli si appropria infatti del sudore, del tempo di vita, delle competenze, delle conoscenze, del corpo e del cervello di colui che lavora al suo servizio — in sintesi — si appropria dell’oggetto del lavoro altrui. Ecco la vera origine della proprietà privata capitalistica: il lavoro estraniato.
« L’economia politica ha espresso soltanto le leggi del lavoro estraniato. » (ivi)
Vien da sé che anche il salario è conseguenza del lavoro estraniato e non c’è aumento che tenga; Marx è lapidario: l’aumento salariale è solo «una migliore remunerazione dello schiavo» (ibidem). Bocciare dunque ogni proposta riformista? Assolutamente no, anzi! Non si stupisca il lettore, non siamo su un piano politico ma filosofico e quando si usa come strumento d’analisi la filosofia si accetta di andare alla radice dei problemi, decostruendo il senso comune. Insegna Engels: «gli scienziati credono di liberarsi della filosofia ignorandola o insultandola. Ma poiché senza pensiero non vanno avanti e per pensare hanno bisogno di determinazioni di pensiero, accolgono inconsapevolmente queste categorie dal senso comune» (F. Engels, Dialettica della natura). Proprio dal senso comune gli economisti traggono la loro concezione di lavoro come «mera attività di guadagno» (K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844) ignorandone il lato umano.
La concezione di lavoro marxiana è debitrice a Hegel, per Marx il lavoro — inteso come prassi — è l’essenza stessa dell’essere umano, la sua operazione fondamentale, l’uomo si oggettiva nel lavoro, l’uomo è Selbsterzeugung (autoproduzione). Nel momento in cui la sua attività viene espropriata, ad essere espropriata è dunque la sua stessa essenza umana. L’attività dell’uomo è un’attività libera e cosciente, non è il frutto di un mero impulso istintivo, per cui l’uomo si sente affermato e soddisfatto nel proprio lavoro solo se è libero dal bisogno e libero dal comando esterno. Ma se il lavoratore non appartiene a se stesso, se non è libero in quella funzione eminentemente umana che è il lavoro e che lo degrada a bestia, ne consegue che egli si sentirà libero di agire soltanto nelle sue funzioni animali; scrive infatti Marx: «Si giunge quindi al risultato che l’uomo (il lavoratore) si sente libero di agire ormai soltanto nelle sue funzioni animali, mangiare, bere, procreare, tutt’al più ancora casa, decoro, ecc. e nelle sue funzioni umane si sente ora soltanto un animale» (ibidem). L’autore – immediatamente dopo – tira le fila del discorso con uno dei passi più celebri dei Manoscritti: «Das Tierische wird das Menschliche und das Menschliche das Tierische», «L’animale diventa l’umano e l’umano l’animale».
« La proprietà privata ci ha resi così ottusi e unilaterali che un oggetto è nostro soltanto quando lo abbiamo […] Al posto di tutti i sensi fisici e spirituali è quindi subentrata la semplice alienazione di tutti questi sensi, il senso dell’avere. » (ibidem)
L’uomo produce attraverso i sensi, la sensibilità è una funzione sociale, ma se l’uomo nella società capitalistica è espropriato del suo lavoro, cioè della sua umanità, della sua capacità sociale, allora è espropriato del suo «senso umano» (ossia dei 5 sensi ma anche dei «sensi pratici» come l’amore); egli non è più in grado di apprezzare la bellezza, la quale apprezziamo non in quanto meri individui ma in quanto esseri sociali, appartenenti ad una comunità, all’umano è subentrato l’utile, l’egoistico. Il mercante di minerali non vede la bellezza del minerale ma ne vede soltanto l’utilità sotto forma di valore di scambio:
« Il senso di un oggetto per me […] giunge fin dove giunge il mio senso […] Per l’orecchio non musicale la più bella musica non ha senso, non è un oggetto, perché il mio oggetto può essere soltanto la conferma di una delle mie forze essenziali […] Il senso prigioniero del rozzo bisogno pratico ha anch’esso soltanto un senso limitato. » (ibidem)
Come l’occhio rozzo e inumano non può apprezzare la bellezza, è limitato, così il gusto — che ha parimenti perduto la sua funzione sociale — non può apprezzare la bontà di un piatto, né l’orecchio la bellezza di una sinfonia.
A questo punto l’autore tenta di abbozzare — seppur in maniera vaga, suggestiva, “poetica” — la fisionomia di una società pienamente umana. Scrive Marx: «L’educazione dei 5 sensi è un lavoro di tutta la storia del mondo fino a oggi» (ibidem); dunque, il comunismo per rendere umani i sensi e per creare un senso umano corrispondente a tutta la ricchezza dell’essere umano e naturale deve emancipare, liberare l’atto del lavoro dall’estraniazione, perché è attraverso di esso che l’uomo si oggettiva in quanto essere umano, in quanto essere sociale, in quanto Gattungswesen e non mero individuo astratto e diviso, perché: «il senso umano, l’umanità dei sensi si forma soltanto attraverso l’esistenza del suo oggetto, attraverso la natura umanizzata» (ibidem). L’uomo che il comunismo deve produrre, ossia l’uomo i cui sensi sono emancipati, è: «l’uomo ricco e profondamente sensibile a tutto come sua stabile realtà» (ibidem).
Come hanno brillantemente notato due grandi studiosi di Marx, Nicolao Merker (in Karl Marx. Vita e Opere) e Marcello Musto (in Ripensare Marx e i marxismi), la grande istanza tutt’oggi viva dell’opera marxiana sta proprio nell’ antinomia ancora insuperata tra il carattere sociale della produzione e il carattere privatistico dell’appropriazione del profitto, antinomia che è la radice dell’alienazione.
Contraddizione quanto più viva se pensiamo alla questione dei brevetti sui vaccini, al valore che oggi la conoscenza, il Geistige Arbeit (e non più tanto il lavoro di fabbrica) ha nel processo di auto-valorizzazione del capitale. Ma la conoscenza è il prodotto della ricerca, del lavoro intellettuale, dello studio degli scienziati, ricercatori, ingegneri — in sintesi — è il prodotto del lavoro della comunità degli uomini, del “general intellect”, e non di un manipolo di capitalisti.
Fonte: https://www.gazzettafilosofica.net/2021-1/luglio/fare-dell-uomo-un-essere-umano/
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