Verso una terza Repubblica?
da LA CITTA’ FUTURA (Renato Caputo)
Il programma della P2 ha avuto la strada spianata e si è progressivamente affermato via via che l’ideologia neoliberista, o meglio ordoliberista conquistava – l’una dopo l’altra – le casematte essenziali per avere l’egemonia sulla società civile.
Come è noto il programma della loggia massonica P2 – reso noto all’inizio degli anni Ottanta, dopo la sconfitta storica del movimento dei lavoratori italiano – è stato rapidamente realizzato negli anni seguenti, incontrando un sostegno sostanzialmente bipartisan. Alla piena realizzazione di tale programma eversivo della liberal-democrazia italiana fondata sulla Costituzione non resta che il passaggio dalla repubblica parlamentare a una repubblica presidenzialista sul modello francese o statunitense. Occorre ricordare che in entrambi questi paesi il modello presidenzialista ha cancellato il precedente assetto liberal-democratico attraverso un colpo di Stato soft. Anche la P2 intendeva seguire una strada analoga, ma sostanzialmente non ce n’è stato bisogno, dopo la sconfitta del movimento proletario in Italia e del socialismo nel continente europeo. Da allora il programma della P2 ha avuto la strada spianata e si è progressivamente affermato via via che l’ideologia neoliberista, o meglio ordoliberista conquistava – l’una dopo l’altra – le casematte essenziali per avere l’egemonia sulla società civile. Tale guerra di logoramento è stata certamente sino a ora confortata da un indubbio successo, dato che dall’altra parte, una volta abbandonato il marxismo e il leninismo, non si avevano più le armi necessarie né per una resistenza e nemmeno per una ritirata organizzata. Piuttosto abbiamo assistito a una vera e propria rotta del proletariato e di quelli che erano stati i suoi alleati.
Il processo è oramai così avanzato che praticamente tutti i mezzi di comunicazione da anni definiscono, in modo del tutto disinvolto, “premier” il presidente del Consiglio dei ministri. La direzione è naturalmente quella di far saltare gli equilibri costituzionali, i pesi e contrappesi che, proprio in nome della concezione liberale originaria, miravano alla divisione dei poteri che permettesse a ognuno di essi, nella sua piena autonomia, di poter svolgere l’essenziale funzione di controllo sugli altri, onde evitare le società rigidamente gerarchiche dell’ancien régime.
Al contrario l’impropria definizione di premier, per il presidente del Consiglio dei ministri, spiana la strada alla svolta presidenzialista, mirando a restaurare una società sempre più gerarchica. Il termine premier non a caso rinvia al ruolo istituzionale tipicamente liberale e liberista del primo ministro, tanto che sempre più spesso il presidente del Consiglio viene definito capo del governo.
Così se i padri costituenti – proprio per marcare nel modo più netto la rottura con il regime fascista – hanno insistito perché il presidente sia un primus inter pares, la conquista della piena egemonia sulla società civile da parte della grande borghesia lo ha di fatto trasformato in un primus super pares. Ora con le regole del Pnr ci si allontana ancora di più dallo spirito democratico della Costituzione, dal momento che si accentra un enorme potere, del tutto sconveniente, nelle mani del presidente del Consiglio. Al punto che un professore ordinario di Scienza politica e Relazioni internazionali e direttore del dipartimento di Scienze politiche presso la Luiss, è arrivato a scrivere, senza timore di essere sonoramente smentito, “poiché il successo del Pnrr costituisce un interesse nazionale, spetta necessariamente a Mario Draghi, in quanto premier (appunto, primus super pares) della coalizione di governo, garantirne la coerenza” [1].
Proprio al contrario, il governo nella nostra Costituzione non prevede al proprio interno una struttura gerarchica né, tantomeno, prevede una supremazia del presidente dinanzi al Parlamento, tanto più che la sua carica dipende esclusivamente dalla fiducia di entrambe le camere.
D’altra parte, come un po’ tutta la Costituzione, anche il ruolo del presidente del Consiglio è stato il prodotto di una mediazione fra le forze del centrodestra e della destra democristiane e liberali – che miravano a fare del presidente il capo del governo – e le forze della sinistra che si battevano per fare del governo un organo a tutti gli effetti collegiale. Tale precario equilibrio, conservatosi nel dettato costituzionale, è andato progressivamente perduto con il mutare dei rapporti di forza nella guerra di logoramento per l’egemonia sulla società civile. Del resto, come faceva notare già Karl Marx, al di là della lettera della Costituzione, decisiva diviene l’interpretazione e quest’ultima dipende esclusivamente dai rapporti di forza fra le classi.
Così, sebbene in aperto contrasto con il dettato costituzionale, con il Pnr la posizione del presidente del Consiglio – per gli inusitati poteri sostitutivi attribuiti al presidente, a discapito delle regioni, degli organi locali e degli stessi ministri – lo trasforma di fatto in “un primus super pares: vale a dire” in “un Primo ministro” [2]. Certo sulla carta il dettato costituzionale non potrebbe che prevalere se in contrasto con una norma legislativa, ma appunto solo sulla carta.
Tanto più che l’attuale governo, quale comitato d’affari rivolto a curare gli interessi della grande borghesia nel suo complesso, sarebbe certamente particolarmente gradito alla P2. Tanto più che, sebbene rappresenti direttamente gli interessi del padronato, riesce – grazie alla capacità di egemonia che la grande borghesia si è conquistata – a governare con un ampio consenso da parte degli stessi settori sociali subalterni. Peraltro, tale apparentemente incomprensibile popolarità di un governo che porta avanti politiche decisamente antipopolari, dipende certamente in primo luogo dalle casematte conquistate nella lotta per l’egemonia, tanto da avere dalla propria parte la stragrande maggioranza dei mezzi di comunicazione, quasi tutti i partiti e i sindacati, oltre a essere generalmente ben visto nelle scuole, nelle università e dalle chiese. In secondo luogo i consensi attivi e passivi del governo Draghi dipendono certamente dalla pessima immagine di sé di tutti i principali partiti dell’arco costituzionale, oltre naturalmente la battente propaganda antipolitica del pensiero unico dominante. In particolare il becero populismo che ha governato il paese negli ultimi anni, da Berlusconi a Renzi, da Salvini al Movimento 5 stelle, ha certamente spianato la strada al governo dei tecnici. Non a caso, storicamente, questa forma di governo tende ad affermarsi proprio quando il discredito verso i partiti “politici” tradizionali ha raggiunto e superato il livello di guardia.
Con le ultime surreali diatribe interne al Movimento 5 stelle, il più votato nelle ultime elezioni politiche, i partiti politici di massa hanno raggiunto un nuovo culmine nel processo di progressivo discredito in atto ormai da anni. Anche proprio perché il Movimento 5 stelle con le proprie pose antipolitiche era riuscito a rimotivare diversi cittadini ed elettori ormai completamente schifati dai partiti politici, dopo gli ultimi governi di centrodestra guidati da Berlusconi e gli ultimi di sedicente centrosinistra capeggiati da Renzi.
Dunque, “quel che è certo è che il sistema politico italiano ne esce ulteriormente dinamitato. Il sistema politico, si badi, non il governo. Il quale anzi potrà rafforzare il proprio segno già naturalmente conservatore. La propria vocazione alla verticalizzazione della decisione. Al monopolio dell’indirizzo politico. Alla rappresentanza pressoché diretta e senza residui dell’universo imprenditoriale, senza più nemmeno il fastidio di possibili interferenze parlamentari: da parte cioè di un potere legislativo ridotto a mero ornamento, nel quale la maggioranza numerica uscita dalle urne del 2018 sull’asse M5S e Pd si disperde nei rivoli di una crisi d’identità apparentemente terminale. Draghi, dunque, potrà continuare a governare con logica bonapartista indifferente alle contorsioni delle forze parlamentari” [3].
L’ulteriore perdita di credibilità dei grillini, peraltro, favorirà l’ascesa del populismo fascistoide della destra radicale che – considerata la crisi dopo quella della sinistra anche del centro – rischierà di poter condizionare pesantemente la vita politica italiana, a partire dalla prossima elezione del presidente della Repubblica. Anche perché il tecnico, alter ego di Draghi, alla guida del Pd punta a rilanciare il sistema maggioritario, a discapito del proporzionale, dando un’ennesima mazzata allo spirito democratico della Costituzione e favorendo ulteriormente il successo della destra radicale, seguendo la tattica tafazziana già portata avanti da Veltroni.
Lo scenario che ci si presenta rischia di essere il peggiore possibile ossia, un po’ come è avvenuto in Francia, ridurre la possibilità di scegliere all’individuare il meno peggio fra la peste o il colera, ovvero fra un governo “tecnico” espressione diretta dell’egemonia del grande capitale finanziario transnazionale, o la destra radicale con forti pulsioni fascistoidi.
Peraltro, come abbiamo già visto, le tendenze antidemocratiche del governo dei peggiori si manifestano nel modo più evidente nella gestione dei fondi messi a disposizione dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Si ricordi che proprio temendo una gestione poco democratica di tali fondi era stato affossato il governo Conte bis. Del resto, l’attuale governo è stato fortemente voluto dalla classe dominante proprio per avere il pieno controllo su tali sostanziosi fondi.
Così, come era prevedibile, il presidente del consiglio ha messo in campo una struttura tecnica ad hoc per la gestione dei finanziamenti del Pnnr, denominata Nucleo tecnico per il coordinamento della politica economica. Tale nucleo sarà composto da cinque “economisti della più stretta cerchia liberista, per i quali varrebbe da subito la domanda: «Perché assegnare la valutazione sugli investimenti pubblici a persone che pensano che lo Stato non dovrebbe esercitare alcun ruolo nell’economia, se non quello di facilitarne l’apertura ai mercati?»” [4].
Al loro interno, spicca Carlo Stagnaro fondatore e dirigente di un istituto denominato “Idee per il libero mercato” che sostiene di mirare a dare il proprio “contributo alla cultura politica italiana, affinché siano meglio compresi il ruolo della libertà e dell’iniziativa privata, fondamentali per una società davvero prospera e aperta”. Stagnaro spicca per aver denigrato il referendum sull’acqua, considerato una “poderosa prova di forza” del populismo. Allo stesso modo ha denigrato i movimenti che si battono per la salvaguardia del clima, tanto da aderire alla Cooler Heads Coalition, coalizione ultraconservatrice volta a promuovere il negazionismo climatico.
“Se Stagnaro è la figura più impresentabile, anche il quartetto degli altri nominati condivide l’impostazione di fondo, che, di fatto, rappresenta la cifra culturale dello stesso Mario Draghi: il mercato è il fulcro della società, sono i profitti delle imprese a determinare il benessere sociale, è il privato a garantire efficienza e solidità. Con questo team di economisti, Draghi si prefigge l’obiettivo di chiudere definitivamente tutte le faglie aperte dalla pandemia nella narrazione liberista e di dare il via ad una nuova stagione di espropriazione sociale guidata dai grandi capitali della finanza, dell’impresa e della rendita” [5]. Naturalmente ciò è quanto ci aspetta se non saremo in grado di organizzarci e batterci per far valere i nostri interessi.
Note:
[1] Sergio Fabbrini, La governance del Pnrr e il governo dell’Italia in “Il Sole 24 Ore” del 7 giugno 2021.
[2] Francesco Pallante, C’era una volta il presidente del consiglio, in “Il manifesto” del 16/6/2021.
[3] Marco Revelli, Nella parabola populista la dissoluzione del sistema politico, in “Il manifesto” del 4/7/2021.
[4] Marco Bersani, Recovery Plan, il «nucleo tecnico» una dichiarazione di guerra di Draghi, in “Il manifesto” del 19/6/2021.
[5] Ibidem.
FONTE:https://www.lacittafutura.it/editoriali/verso-una-terza-repubblica
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