Chi ama la Russia, anche questa Russia. Chi la vorrebbe al posto che merita, ovvero parte dell’Europa e attore importante nel mondo. Chi ha realmente a cuore le sue sorti. Chiunque non sia preda dei furori ideologici e conservi un minimo di buon senso riconoscerà una cosa: la chiusura di Memorial, decretata ieri dalla Corte Suprema russa, è un’ingiustizia clamorosa. Peggio, è un errore colossale. Tanto più perché avviene in un clima già segnato dalla continua serie di arresti di collaboratori di Aleksey Navalny (a sua volta in carcere a Vladimir), dalla chiusura di altre Ong (Ovd-Info, pochi giorni fa), dal continuo inserimento nella lista degli “agenti stranieri” di organizzazioni e agenzie di stampa varie. Ieri Aleksandr Bastrykin, capo del Comitato investigativo federale, ha detto che l’Occidente conduce una “guerra ibrida” ai danni della Russia, producendo film e videogiochi che vogliono indurre la gioventù russa a disprezzare la patria. Sappiamo bene quale formidabile macchina da propaganda sia Hollywood, ma è normale che il primo investigatore di Russia si abbandoni a una tale inutile e malinconica lamentazione?

Chi, come me, ha avuto la fortuna di frequentare la Russia e di vivere a Mosca subito dopo la fine dell’Urss, sa quale ruolo fondamentale abbia giocato allora Memorial nei confronti dell’opinione pubblica russa. Dei tanti russi che ho conosciuto e che ancora conosco, non ce n’è uno che non abbia avuto un parente più o meno vicino che non “sidiel”, ovvero che non fosse finito in carcere o in un Gulag. Ho conosciuto uomini e donne nati nel Gulag, che hanno fatto le scuole lì, che si sono poi ritrovati a vivere in questo o quel posto perché ai genitori, dopo la detenzione, veniva comminato un periodo di esilio interno.

La caratteristica più comune a queste persone era il silenzio. L’Urss era finita ma loro non parlavano volentieri di certe vicende familiari. Il mio più caro amico moscovita impiegò anni prima di raccontarmi che suo padre aveva fatto un periodo di carcere, cosa che nel periodo delle fucilazioni staliniane di massa era da considerarsi quasi una fortuna. Memorial, fondata nel 1989 da un gruppo di ex-dissidenti tra i quali c’era anche Andrey Sakharov, ebbe l’enorme merito di dire chiaro e forte che di quei tempi e di quei fatti non solo si poteva ma si doveva parlare. E fu una grande fatica, perché appunto la tendenza era a nascondere e dimenticare. Eppure parlarne era necessario, perché il rapporto con il passato influenza, e in qualche caso determina, quello con il presente. La Germania e il Giappone, per fare esempi molto diversi dalla Russia, non sarebbero ciò che sono oggi se non avessero affrontato il doloroso processo di analisi delle memorie collettive. In Cile, pochi giorni fa, la vittoria del fronte progressista rappresentato dal presidente Gabriel Boric non sarebbe stata possibile se non fosse stata accompagnata dal ricordo di Salvador Allende. E così via.

In questi casi, ovviamente, si finisce per fare di ogni erba un fascio. La condanna a 15 annni di carcere di Jurij Dmitrev, responsabile di Memorial per la Carelia, viene attribuita alla repressione politica ma lo storico in origine era stato arrestato (anche se poi prosciolto, prima del nuovo processo) per una serie di foto di nudo della figlia adottiva undicenne trovate nel suo computer. Ed è vero che la propaganda occidentale, che punta a equiparare la Germania di Hitler alla Russia di Stalin in omaggio ai sentimenti dei Paesi dell’ex Est europeo, compie un errore strategico enorme. Perché in Russia, come si diceva, tutti hanno un parente che fu in carcere o nel Gulag. Ma tutti hanno anche un parente (e spesso più di uno) morto per combattere il nazismo. Se è vero quel che dicono gli storici, e cioè che su 10 soldati nazisti caduti 8 furono elliminati dalle truppe russe, allora è lecito pensare che senza l’Urss il nazismo non sarebbe stato sconfitto, o lo sarebbe stato molto più tardi. Nessuno sa che cosa vuol dire perdere di colpo una generazione. In Russia sì: l’80% dei maschi nati nel 1923 morì durante la guerra. Tentando di negare o di sottostimare tutto questo, l’Occidente ha finito con l’incentivare il processo opposto, ovvero la rivalutazione di tutto, compreso Stalin, il cui culto da strisciante diventa di anno in anno più palese.

Memorial, alla fin fine, è vittima di questo scontro ideologico. Ma non meritava di morire, qualunque cosa fosse diventata negli ultimi tempi, chiunque la finanziasse dall’estero. Se ha così paura di quattro storici e attivisti, la Russia di Putin è diventata assai più fagile di quanto si potesse pensare.