Giacomo Gabellini “Krisis”
di TEMPOFERTILE
L’importante libro di Giacomo Gabellini[1] reca l’ambizioso sottotitolo “Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense”. L’oggetto dello studio, informatissimo, è dunque “l’ordine economico statunitense”, l’arco della sua estensione è dalla genesi allo sgretolamento. La narrazione è orientata lungo la freccia del tempo.
L’ordine economico non è chiaramente l’unica forma di ordine, né l’economico l’unico ordinatore possibile o attivo nella successione degli eventi storici. Anzi, come del resto si rileva anche dalla lettura di Gabellini, l’economico è sempre in qualche misura intrecciato e talvolta incorporato nel politico e nel sociale (e culturale). Si relaziona profondamente, quando non promana nella sua forma concreta, al sapere tecnico ed alle tecnologie dominanti (non solo direttamente produttive, anzi una delle forme di ordine emergente è connessa intimamente con tecnologie che non sono apparentemente produttive, ma egualmente hanno una dimensione ‘economica’, come quelle del ‘capitalismo della sorveglianza’[2]), e ha una storica simmetria, nella sua forma moderna, con il razionalismo e la scienza[3]. Per fare un esempio di prospettiva del tutto diversa dell’ordinatore, se pure rivolta alle correnti profonde e non agli eventi superficiali (secondo la famosa immagine di Braudel), Emmanuel Todd inquadra il senso di declino che è anche alla radice della interpretazione per cicli ripresa nel testo nel contesto di una predazione demografica in corso da quaranta anni da parte dell’occidente ricco ed anziano nei confronti dei paesi periferici. La transizione è letta con occhiali antropologici e punta la sua attenzione sulle trasformazioni che si sono accumulate al termine del trentennio ‘glorioso’[4], trasformazioni che muovono tutti gli strati più profondi della società, partendo dall’economico e dal politico per arrivare alla sua cultura ed alle strutture familiari. Sarebbe in campo la disgregazione della democrazia liberale verso le peggiori forme autocratiche e razziste e lo scontro con antropologie radicalmente diverse che non possono essere uniformate[5]. Naturalmente è possibile rileggere queste trasformazioni anche con occhiali culturalisti o sociologici, cercando il mutamento delle ‘forme di ragione’ (secondo un approccio post-weberiano) o sulla base di una lettura puramente ‘realista’ che focalizza gli scontri di potenza. Ad esempio, Charles Kupchan propone questa scheletrica teoria del mutamento: “il mutamento storico ha nel complesso un carattere tanto evolutivo quanto ciclico. Un particolare modo di produzione dà vita a una particolare istituzione di governo e a una particolare forma di identità comune – le tre principali dimensioni che definiscono un’epoca. Ma il progresso del modo di produzione sottostante erode e delegittima quelle stesse istituzioni politiche e sociali, portando alla fine di quell’epoca e aprendone un’altra”[6]. A grandi linee questa mi pare una lettura del tutto compatibile con quella dell’autore. Ma, più in dettaglio, la causa della destabilizzazione è ricercata nella tecnologia digitale (come, del resto, propone anche Qiao Liang[7]) che compromette le istituzioni politiche e sociali centrali per cui, come scrive nel 2002, “il Paese si sta avvicinando a un punto di svolta epocale”[8] nel quale la partecipazione civica precipita e con essa la capacità di gestire le tensioni di un mondo che si fa di nuovo multipolare.
Lasciando in disparte le possibili letture istituzionaliste (come quella di Kupchan), o antropologiche (come quella di Todd), e come mostra anche Carlo Formenti, nella sua recensione del medesimo testo[9] il testo trova ispirazione nella tradizione della lettura per cicli-mondo, con fasi di espansione commerciale/territoriale e fasi di espansione finanziaria. Una teoria che propone Ferdinand Braudel in alcuni testi classici[10] e Giovanni Arrighi in altri[11], ma anche Immanuel Wallerstein[12] e più in generale la tradizione di ricerca dei “Sistemi-mondo”. Una tradizione di cui ho dato traccia in un mio recente libro[13] che ha qualcosa a che fare con questo (solo una certa aria di famiglia).
Si tratta comunque di una lunga cavalcata attraverso più di un secolo di storia dei cicli egemonici mondiali, affrontata con una inusuale cura per il dettaglio e l’identificazione dei protagonisti e degli snodi, fino alle forme specifiche di questi. La partenza è fissata all’inizio del secolo scorso, quando il presidente americano Thomas Wilson, un democratico colto e cosmopolita ex rettore di Princeton e poi governatore del New Jersey[14], rilasciò i famosi “quattordici punti” [15] il cui focale è il diritto di autodeterminazione dei popoli, da intendere in senso etnico. Ma, contemporaneamente, rifiutò sotto pressione del sistema finanziario e del Congresso di ridurre i debiti tedeschi. Frutti della guerra furono l’inversione del flusso di oro, che si diresse verso gli Stati Uniti, il passaggio repentino del paese ad una posizione finanziaria netta positiva (mentre durante l’Ottocento aveva canalizzato investimenti britannici e non in grande dimensione, risultando quindi fortemente indebitato con l’estero), e la paralisi dell’industria britannica. Il processo stilizzato che racconta Gabellini vede nei decenni che precedono la Grande Guerra l’industria britannica passare da una condizione di predominio ad una di sempre maggiore obsolescenza (in favore di quella americana e tedesca), la canalizzazione presso la piazza di Londra dell’eccedenza indiana diventare sempre più insufficiente, e la formazione di giganteschi trust verticali. Si determinano nuovi equilibri di potere in una situazione instabile che si protrae fino al ’29. Una situazione a fatica tenuta sotto controllo e spinta da una politica monetaria federale altamente accomodante. Seguirà la nota crisi, lo sganciamento dall’oro e gli anni Trenta.
Con essi si entra nel capitolo che Gabellini chiama di “Espansione”. Sono gli anni di Roosevelt, dei quali l’autore evidenzia il ruolo dei Rockfeller. Inaugurando lo stile di rintracciare sistematicamente nel racconto storico le tracce degli interessi concreti e degli attori in movimento, il famoso ‘brain trust’ del presidente è ricondotto biograficamente alla costellazione imprenditoriale di imprenditori industriali e banchieri emersa alla fine del XIX secolo intorno alla Standard Oil e la Chase Manhattan Bank. I Rockfeller, originari della Renania-Palatinato e per un ramo acquisito di Scozia e Irlanda, sono negli Stati Uniti dal 1723 e partono da New York alla conquista dell’impero petrolifero. Dal 1934 il patrimonio è governato da un Trust familiare amministrato dalla Chase Bank. Le donazioni familiari sono all’origine di centri universitari di élite come la Chicago School of Economics, Harvard, Princeton, Berkeley, Stanford, Yale, il MIT, la Columbia, la Cornell, e, in Inghilterra a consistenti donazioni verso la London School of Economics e la University College of London. In pratica durante il periodo noto come “New Deal”, a quanto si apprende, i Rockfeller riconquistarono le filiali della vecchia Standard Oil che era stata smembrata dall’antitrust negli anni Dieci. In sostanza, riprendendo una formula proposta da Wright Mills, il periodo è visto come “un equilibrio di gruppi di pressione e interessi combinati”[16].
Nel 1937 la spinta propulsiva delle politiche rooseveltiane sembra però esaurita, la coalizione politica e imprenditoriale che la sostiene iniziò a sfilacciarsi e si ebbe una sorta di ‘cambio di cavalli’. Gruppi di pressione ed interessi combinati mutarono di segno e la corsa agli armamenti creò le condizioni per l’emersione del sistema militare-industriale che fece emergere a sua volta il potere statunitense. In questa fase furono piuttosto gli interessi di General Motors a diventare centrali e gli Stati Uniti diventarono la fabbrica del mondo, fondandosi su una produttività dei fattori e del lavoro drasticamente superiori.
Correttamente l’autore evidenzia l’astuzia e cinismo del buon Roosevelt (che segue le orme di Wilson) nel tenere gli Stati Uniti fuori della guerra (ma senza far mancare prestiti e forniture militari di volta in volta al più debole, più o meno sottobanco) fino a che la vecchia Europa esaurì le forze (ed i capitali). Qiao Liang, nel suo “L’arco dell’impero”[17] ripercorre la stessa lettura. Quando finalmente questi entrarono in guerra, sfruttando una tempestiva occasione, l’enorme espansione degli interessi militari porterà definitivamente, sotto l’amministrazione Truman, alla centralità del Dipartimento di Stato che ha avuto lunga durata nel Novecento. La figura centrale diventò Averell Harriman, ambasciatore a Mosca, che rovesciò i piani dell’amministrazione precedente. Roosevelt voleva creare piuttosto un asse di complementarità economica con i ‘nemici’ ideologici Urss e Cina allo scopo di tenere sistematicamente a freno e sotto controllo i, ben più pericolosi commercialmente, concorrenti per l’egemonia industriale Germania e Giappone. Rispetto a questo piano razionale e che nel lungo periodo avrebbe forse evitato l’attuale strettoia Harriman propose ed ottenne una linea antisovietica che prevede, al contrario, il supporto alla Germania e Giappone (garantendogli mercati di sbocco ravvicinati e reflazionando le relative economie) e gli aiuti strategici all’Arabia Saudita come rispettivi gendarmi d’area.
Prenderà così forma un nuovo mondo, nel quale abbiamo vissuto oltre un trentennio, che è in parte progettato a Bretton Woods e prevedeva il relativo declino britannico e la sostituzione del ruolo centrale della sterlina (da lungo tempo declinante) con il dollaro. Prese forma in questo contesto di potere quella ‘diplomazia del dollaro’, apparentemente rivolta allo sviluppo, che in realtà svolge decennio dopo decennio e crescentemente la funzione di drenare risorse dal mondo. Come specifica Qiao Liang, semplicemente, in questo modo gli Usa comprano ogni cosa dal mondo pagandola con i dollari che stampano. Ma c’è una differenza, fino a che formalmente restarono legati all’oro, lo fecero pagando il prezzo di avere una potenziale fragilità a causa dello squilibrio quantitativo tra dollari in circolazione, usato ovunque come moneta di scambio, e le riserve auree. Squilibrio che minacciava costantemente di far perdere fiducia nella stabilità della moneta.
Tutto si reggeva sul punto di equilibrio della doppia supremazia, industriale e militare. Ma la creazione del ‘warfare state’ non avvenne solo negli Usa, diluendo in effetti il potere americano. La ‘guerra fredda’, imposta dalla politica di contrapposizione e potenza statunitense, obbligò anche gli alleati, per quanto riluttanti, a spostare risorse dal welfare state alla spesa militare (è ciò che farà, ad esempio, il governo Attlee). Insomma, in questo modello, come scrive Gabellini “la capacità del resto del mondo di acquisire merci e mezzi di produzione fabbricati in Usa e soddisfare la domanda dei consumatori statunitensi poggiava interamente sul drenaggio su scala mondiale della liquidità che gli Stati Uniti avevano accentrato nelle proprie mani”[18].
Un altro lato della strategia era lo smantellamento sistematico, se pur graduale, della rete di mercati protetti per le merci e di tributari (oltre che bacini di forza lavoro a buon mercato e, se del caso, di soldati) che i paesi europei si erano conquistati a partire dal XV secolo e soprattutto nel XVIII e XIX. Il “mondo libero” di Truman prevedeva anche la decolonizzazione, ovviamente al fine di aprire al capitale statunitense i paesi colonizzati e ottenerne le materie prime necessarie alla crescita dell’industria americana. La soluzione del ‘riarmo permanente’, che prevede una stretta collaborazione tra governo, Congresso e industria di esportazione poggiava quindi sull’espansione nel ‘mondo libero’ del capitale che defluiva in forma di investimenti diretti all’estero e crediti, ma rientrava attraverso il surplus industriale. Questo, a sua volta, creava le condizioni economiche per espandere la capacità di consumo almeno di parte dei lavoratori americani (quelli che O’Connor chiamerà ‘monopolisti’[19]) e sostenerne la relativa occupazione. Una simile analisi venne compiuta nello stesso periodo dall’economista Kalecki e dai critici del “Monthly Review”[20].
Non poteva durare a lungo, ed infatti presto cominciò ad affacciarsi il problema del deficit che divenne il tema centrale dell’amministrazione Kennedy al principio degli anni Sessanta. Nel febbraio 1961 il presidente riconobbe l’esistenza di un deficit che era cresciuto (parallelamente alla ripresa dei sistemi industriali concorrenti di Germania, Giappone ed Italia, oltre che Francia) di 18 miliardi di dollari in dieci anni. Il problema era che secondo le regole di Bretton Woods questo avrebbe dovuto comportare un deflusso dell’oro e quindi della capacità di emettere moneta, ma le riserve erano calate solo da 22 a 17 miliardi. In sostanza gli Usa, grazie alla posizione di unici centri erogatori di mezzi di pagamento (ed al vincolo, ottenuto con le buone o le cattive e sempre riaffermato, di denominare in dollari le principali commodities a partire dal petrolio) calibravano attentamente l’offerta di liquidità in funzione delle esigenze di crescita della produzione, del commercio e degli investimenti nel sistema-mondo. Anzi, garantivano che questo ‘sistema’ esistesse e fosse sempre centrato su di sé. Come mostra Qiao Liang la tecnica è semplice e precisa: secondo quello che chiama un “respiro finanziario” gli Usa mietono la ricchezza del mondo prima inondandolo di dollari e poi facendola rifluire. Si tratta di una variazione della solita tecnica della finanza privata, prima si va “lunghi” e si esportano dollari (ad esempio favorendo l’incremento del costo del petrolio ad un paese che lo vende) creando un boom, in questa fase la finanza eroga prestiti generosamente, poi si va “corti” e si taglia il credito. La mancanza improvvisa di liquidità attiva una crisi di arresto e la ricchezza viene convertita in capitale mobile che ritorna a casa[21]. La diagnosi del generale cinese è semplice e collima con quella di Gabellini: “gli Stati Uniti non hanno paura del deficit delle partite correnti, ma temono il deficit del conto capitale. E per mantenere un’eccedenza nel conto capitale non esiteranno certo a usare i mezzi della guerra per danneggiare l’ambiente di investimento degli altri paesi”[22]. Innumerevoli esempi sono possibili, dalla guerra del Kippur, dopo la quale il petrolio si ancora al dollaro, alle crisi del sud est asiatico, sotto attacco dei fondi speculativi di Soros, alla guerra in Iraq, per impedire a Saddam Hussein di vendere il proprio petrolio in euro, quella libica, la guerra in Kosovo, seguita al lancio dell’Euro, l’Afganistan, necessario per fermare il deflusso seguito agli attentati che metteva a rischio il flusso necessario di 700 miliardi all’anno per pareggiare i conti delle partite correnti, l’attuale crisi Ucraina.
Dalla crisi degli ultimi anni Sessanta partì la fase che Gabellini chiama di “Flessione”. Il sistema infatti portava e porta enormi benefici ad alcune classi di imprese, facenti parte o non del sistema militare-industriale. Ma restava in un equilibrio instabile e continuamente a rischio che trovava punti di equilibrio nel clima di lotta ideologica costantemente alimentato e nella spesa pubblica (non adeguatamente coperta da espansione della pressione fiscale) non solo militare, ma anche civile o mista (come il Darpa e i programmi Apollo). Contemporaneamente impedendo che i paesi concorrenti occidentali, parte del “mondo libero”, potessero a loro volta attivare, o conservare, circuiti di estrazione di surplus coloniali. Solo un paese alla volta può dominare in queste sorti di ‘schemi Ponzi’ del potere. In questo quadro rientrò la “crisi di Suez” e la sistematica cooptazione delle élite del mondo non sviluppato nel circuito di valorizzazione subalterno egemonizzato dagli Usa. È il contesto nel quale si attivò il conflitto ideologico della “teoria della dipendenza”[23] nel contesto di una lotta tra il “mondo libero” e quello “socialista” e, allo stesso tempo, tra Nord e Sud del mondo. Ovvero tra paesi più o meno sviluppati, industrializzati e capaci di espansione del proprio capitale, e paesi periferici, la cui economia resta dedita alla sussistenza e all’esportazione di materie prime. Questo è il contesto dei turbolenti anni Sessanta, con la guerra del Vietnam (prima con la Francia e poi con gli Usa) e quella di Algeria (per citare le principali).
Penserà Nixon a “liquidare i sogni”, definendo un più realistico piano strategico che attivò una diplomazia triangolare con la Cina e condannò di fatto l’Urss ad un isolamento che, a lungo termine, pagherà caramente. Tra i ‘sogni’ liquidati c’era quello di Kennedy, che voleva nuovamente cambiare cavalli alla carrozza trasformando i paesi fornitori di materie prime (e per questo sottosviluppati[24]) in nuovi mercati di sbocco delle merci americane per sostituire l’Europa ed il Giappone che da sbocchi si erano da tempo mutati in concorrenti. ‘Sogno’ che prevedeva ovviamente lo scontro con l’Europa e con la Fed, ma anche con la US Steel e con i potentissimi Rockfeller[25].
Il problema che l’uscita di scena del presidente a Dallas lasciava sul tavolo però era che la crescita dell’Impero americano di fatto procedeva al prezzo, che oggi è evidente, del progressivo indebolimento strutturale del tessuto industriale e del riorientamento delle multinazionali verso l’esterno. Questo secondo effetto era una necessità derivante dall’accumulo di arretratezza tecnologica e quindi dell’aprirsi di una forbice tra alto livello dei salari (che dipendono da fattori di aspettativa e di contesto vischiosi) e la produttività ormai non sufficientemente elevata (rispetto ad agguerriti concorrenti come la Germania Ovest). Le linee meno produttive devono essere spostate all’estero, si tratta, dal punto di vista del capitale industriale, di:
“una soluzione che appariva allora confacente alla doppia finalità di penetrare i mercati stranieri protetti da un solido complesso di barriere tariffarie e aggirare l’onerosissimo regime fordista impostogli sul piano nazionale, ma che conduceva giocoforza al dissesto delle fondamenta economiche statunitensi”[26].
Qualcosa di molto simile avvenne in Inghilterra e portò ad un duro conflitto finale con il governo francese che ha per l’autore un pronunciato carattere di “guerra ibrida”. Gli Usa reagirono non solo sospendendo la convertibilità in oro del dollaro, come noto, ma anche con ripetuti attacchi finanziari e con l’appoggio di intelligence al maggio francese. Alla fine, le manovre oltremanica ottennero il risultato di provocare la caduta di De Gaulle, ma non frenarono la crescita del mercato degli eurodollari che continuò a scavare sotto il piedistallo imperiale.
Il Volcker Group, incaricato da Nixon di studiare la situazione, propose dunque di chiudere la finestra aurea e di provocare un generale riassetto sistemico. Riassetto che fu contemporaneo al nuovo asse con la Cina e al diktat verso l’Opec che, in quegli anni provocò un deciso incremento dei prezzi dell’indispensabile materia prima. Gli Usa accettarono la situazione, o la provocarono, ma a condizione che i proventi della vendita in dollari dell’oro nero fossero reinvestiti in titoli di stato americani[27]. In questo modo il circuito del petrolio e quello del dollaro si intrecciarono ancora di più creando un anello autorafforzante. Più sale il prezzo del greggio, più dollari sono richiesti come mezzo di pagamento, più capitali tornano negli Usa a fronte dell’emissione di nuovi Titoli di Stato. Tra il 1968 ed il 1973 le Banche Centrali del resto del mondo acquistarono titoli americani per 42 miliardi di dollari, abbassandone i rendimenti, malgrado il debito pubblico crescesse (di 47 miliardi) e il disavanzo fosse sempre maggiore. Al contrario, i paesi europei, che non hanno risorse energetiche né monete di riserva mondiale, videro allargarsi il deficit senza disporre della valvola di sfogo di un prodotto finanziario da collocare in modo illimitato.
La situazione economica andava ormai verso la stagflazione, e il clima ideologico si rivolgeva verso le tesi neoliberali e monetariste. A questo punto la priorità diventa il contenimento del mercato interno, delle richieste dei lavoratori, e l’utilizzo del debito come arma. La cosiddetta “cura Volcker” produsse effetti catastrofici nei paesi appena usciti da una condizione coloniale, richiamando i capitali in essi impiegati, mentre in patria si attivava una manovra a tenaglia che ridusse le tasse alle classi alte e i salari alle basse. Entrando negli anni Ottanta i fenomeni dominanti diventarono il boom azionario e la rivoluzione tecnologica nel campo dell’alta finanza. Lo spostamento del centro sociale determinò allora una progressiva e sempre più percepibile erosione delle classi medie che la fase precedente aveva favorito.
Sul finire degli anni Ottanta, mentre cresceva la devastazione interna negli Usa, il repentino crollo del prezzo del petrolio, che arrivò a quindici dollari al barile, mise alle corde l’Urss. Contemporaneamente gli Stati Uniti regolarono i vecchi conti con il Giappone (che negli anni Ottanta sembrava in procinto di superarli) imponendo, con un vero e proprio atto di forza, accordi monetari disegnati espressamente per bloccarne l’economia. Gli “Accordi del Plaza” sortirono il loro effetto, nel capitolo espressivamente chiamato “Estorsione” Gabellini racconta come gli anni Novanta siano caratterizzati da un asse con la Cina e le altre “tigri asiatiche”, ma anche da ripetuti attacchi al Giappone. Fecero da strumento di queste operazioni di guerra ibrida le banche di affari Usa e gli Hedge Fund che nel 1997 regoleranno i conti con i paesi orientali, richiamando in patria i capitali.
Su questo passaggio Qiao Liang non esita a parlare di vera e propria “colonizzazione finanziaria” e di “flagello del dollaro”. Quando il Black Friday del 1987 fece crollare il mercato finanziario americano e la FED taglio i tassi di interesse nel tentativo di salvare il listino fu inondato il mondo di capitali in dollari. Le economie di tutta l’Asia iniziarono ad attrarre capitali “caldi” e andare verso un lungo boom. Ma nel 1994 la FED alzò i tassi di interesse di cinque punti e il Quantum Fund, con i suoi alleati, attaccarono la Thailandia. Il deprezzamento del Bath colpì come in un domino tutto il Sud-Est (Malesia, Singapore, Indonesia, Filippine, Giappone, Corea del Sud, Russia). Solo la Cina riuscì a fare fronte allo tsunami finanziario.
In quegli anni di radicale ristrutturazione ci saranno anche violenti e terminali contraccolpi in Russia che venne sottoposta, sotto la consulenza di Jeffrey Sachs, ad una radicale cura neoliberale d’urto. La shock therapy prevedeva misure tali da far perdere il 17% del Pil nel 1991, il 19% nel 92 ed il 11% nel 1993. Alla caduta di Gorbaciov (alla quale l’intelligence Usa potrebbe non essere estranea) El’Cin fece seguire un’immediata riconversione di tutta l’economia che passò in pratica in mani private (o meglio oligarchiche) sulla base dei pressanti “consigli” occidentali. La dollarizzazione dell’economia nazionale fece il resto, si trattò di una vera e propria spoliazione (nel 1998 gli scambi in Russia all’84% erano ormai tenuti in dollari, per effetto della crisi del rublo). Questo è il contesto del Piano Brzezinski che Gabellini descrive come un acuto insieme di pressioni e incentivi per circondare completamente la Russia, espandendo la Nato ad Est, integrando l’Ucraina, spingendo sull’indipendentismo ceceno e il fondamentalismo islamico. Inoltre, per aiutare l’Unione Europea e il Giappone ad avere un maggiore protagonismo e ricucire ancora con la Cina, oltre che con l’Iran.
Tuttavia, in quel periodo sorse anche la sfida all’egemonia del dollaro rappresentata dall’Euro. Gli Stati Uniti reagirono come d’uso, cercando di creare isole di destabilizzazione, tra le quali in Medio Oriente spiccò la vicenda irachena ed in Europa quella Jugoslava. Il bombardamento del paese europeo comportò, in particolare, una immediata svalutazione del 30% dell’Euro (che era partito molto bene) mentre l’invasione dell’Iraq del 2003 provocò un vertiginoso incremento del prezzo del petrolio e quella della Libia la fine del progetto di una moneta pan-araba ancorata all’oro. Gli esempi sarebbero molti, ma si tratta di quella che l’autore chiama con formula di effetto “la geopolitica del caos”.
Una geopolitica, descritta ancora in toni crudi dal cinese Liang, ma implicitamente riconosciuta anche dall’americano Galbraith, e che ha reso visibile la natura predatoria degli Stati Uniti. Cosa non nuova, dato che in una lettera privata, nel 1795, il secondo presidente degli Stati Uniti John Adams scrisse a sua moglie Abigail “gli Stati Uniti sono fatti a immagine e somiglianza della Gran Bretagna […] sono un vero e proprio gallo da combattimento come lei e diverranno, te l’assicuro, un flagello altrettanto grande per il genere umano”[28].
Gli Stati Uniti si sono, insomma, avvitati. Negli anni Ottanta tentarono di venire fuori dall’errore compiuto nel dopoguerra di coltivare i concorrenti. Allora avevano creato il volano del “mondo libero” ed il sistema militare-industriale che, come una zecca, si alimentava di esso, ma i concorrenti aiutati avevano fatto crescere il deficit, in ultima analisi minacciando il primato finanziario ed industriale del paese. Per cercare di rimediare all’errore che aveva portato a casa i suoi frutti combinarono una politica monetaria restrittiva, per la quale risuscitarono l’ideologia monetarista, con una politica fiscale espansiva a vantaggio dei soli ricchi e con la deregulation a svantaggio dei non ricchi.
Come collaterale sociale mentre il primo schema politico saccheggiava il mondo per beneficiare le classi medie occidentali (se connesse direttamente o indirettamente con i settori economici beneficiati), e produceva una relativa redistribuzione, il secondo schema saccheggiava ancora il mondo ma per beneficiare esclusivamente le classi alte a danno delle medie (e delle solite basse).
Ne seguì l’integrale ristrutturazione del sistema produttivo; cosa inevitabile ed anche attesa, ma accompagnata inutilmente dal sogno di conservarne solo la crema, lasciando il resto della torta ai paesi satelliti e clienti. Conservando, in altre parole, per sé solo i settori a maggior valore aggiunto (ovvero quelli in grado di aspirare il margine di una catena produttiva e del valore sempre più estesa) per esportare alla fine solo servizi e beni tecnologici restando, quindi, costantemente alla frontiera della tecnologia e in controllo dei flussi. Secondo una distinzione famosa, lasciare la “old economy” (produzione di auto, di mezzi di produzione, di utensili, etc…) alle ‘fabbriche del mondo’ decentrate (secondo la vecchia idea di Kennedy opportunamente rivista), e serbare la “new economy” (computer, dispositivi, informatica in generale e soprattutto reti e connessione, inclusa l’alta finanza creativamente volta a ‘impacchettare’ debiti) al centro imperiale.
Chiaramente la vecchia economia era quella alla quale era dedita la vecchia classe media lavoratrice, gli operai specializzati, i quadri burocratici con le loro casette allineate nei sobborghi che avevano fatto il “sogno americano” negli anni Cinquanta e sessanta. Furono abbandonati alla ruggine.
Ma nel breve termine la cosa produsse una sorta di euforica energia, che attraversò i ruggenti anni Novanta; tutto sembrava rivolto verso il meglio e si cominciò a parlare della globalizzazione come destino, la storia sembrava finalmente finita. Il modello “origina e distribuisci” ebbe una finale fiammata gloriosa nei primi anni del nuovo millennio. Poi incontrò i suoi limiti. L’abbandono della Old Economy non era stato compensato, il gocciolio non era bastato e la crescita delle ineguaglianze e del debito (i fratelli siamesi necessariamente abbracciati) portarono il loro conto.
La forma fu il crac della bolla immobiliare (preceduta dalla crisi segnale del Nasdaq) e la bancarotta Lehman che ne seguì. Inutile raccontarla qui.
La risposta fu un nuovo protagonismo politico, ma come sempre al soccorso del vincitore. Ci pensarono Bush e poi Obama, con un piano di salvataggi senza alcun precedente nella storia. Contemporaneamente la crisi, attraversando l’oceano aveva posto anche l’Euro alle corde, attaccato dagli ‘alleati’ americani che cercavano di esportare la crisi, e fu salvato dalla Banca Cinese[29]. Come al solito uno degli effetti delle manovre fu il repentino ritorno dei capitali negli Usa. A causa di ciò, mentre la metropoli americana conservava i margini per politiche di sostegno, se pure selettive e pelose, le periferie europee non ebbero altra scelta che incamminarsi sotto guida tedesca verso l’austerità. L’alternativa, regolamentare strettamente la finanza, lasciare libere le divise di fluttuare (sospendendo l’Euro o sotto il tavolo con la regia della Bce), era impraticabile per ragioni organiche. In due sensi, ovviamente, per la dipendenza dall’egemone oltreoceano e per la dipendenza della politica dalla difesa strenua degli interessi di classe di coloro i quali dall’assetto ordinario traevano i loro dividendi.
Restò solo un insieme di politiche monetarie espansive (a vantaggio solo della finanza, il quantitative easing) e di politiche fiscali restrittive (a danno dei ceti medi e inferiori), per drenare tutta la ricchezza e stabilizzare la capacità di estrarre profitto anche nelle condizioni date.
Così si arrivò alla crisi “populista” del 2014-18. E si giunse a Trump.
Il piano del magnate newyorkese, per quel che appare possibile interpretare, fu di spostare il focus dell’attacco sul principale beneficiario storico della svolta degli anni Settanta-ottanta: la Cina. L’idea originale americana sostanzialmente era di procedere ad assimilarla alla cultura occidentale ed al capitalismo, per via della capacità corruttiva del dollaro. Ma il paese orientale ha almeno tremila anni di vantaggio sul capitalismo. Ciò che Trump propose quindi al sistema militare-industriale ed industriale-finanziario americano fu semplicemente di prendere atto che l’assimilazione era fallita e designarlo come nemico principale. Correlativamente di disimpegnare la Russia ed i paesi del Medio Oriente come nemici.
Secondo questa visione se la Cina, con i suoi colleghi orientali, si è effettivamente avvantaggiata della felice idea della mondializzazione in salsa americana, allora quel che bisogna fare è riportare l’Old Economy, e la classe media, in occidente (senza ovviamente perdere la New Economy, che, anzi va aspramente difesa come mostra il caso Huawei). Per fare questo frammentare la mondializzazione in aree di influenza e conflitto. Il piano strategico sarebbe di disarticolare le catene del valore globale facendo rientrare le produzioni in posizioni più controllabili e creando almeno tre aree del valore variamente separate: Asia (divisa in un’area cinese sotto assedio e un’area assediante fondata sul Giappone e l’India); Stati Uniti, con le appendici sudamericane; e Germania, con le appendici europee. Ma questo piano doveva passare per la riabilitazione della Russia che, altrimenti, si sarebbe saldata con la Cina in un blocco imbattibile e dalla enorme capacità di attrazione (non ultima verso la riluttante Europa).
Il grande conflitto strategico entro l’occidente ed entro la stessa amministrazione Usa si aprì e resta aperto su questo punto. Per quanto velleitario e confuso il piano metterebbe, infatti, in discussione equilibri storicamente consolidati e grandi forze che su questi si basano. La globalizzazione, sostiene Gabellini, si fonda infatti sulla capacità di Washington di utilizzare il deficit commerciale (quello che Trump vuole eliminare, temendone il potenziale distruttivo a lungo termine) come immediata arma economica e geopolitica.
Caduto Trump il successore Biden punta con più decisione e coerenza le sue carte sulla guida della “Quarta Rivoluzione Industriale” (non certo snobbata da Trump) che, per Gabellini ha sostanzialmente due gambe: il Green New Deal ed il Great Reset. È la parte del testo che mi vede meno concorde e quindi ci torneremo.
Comunque, il problema per l’autore non è che queste due trasformazioni (produrre e consumare con meno dispiego di energia e materie, e modernizzare in profondità il sistema economico) siano in sé negative, infatti, esse sono variamente perseguite da tutti. Il problema è che la rapidità con la quale si spingono rischia di scaricare elevati costi economici e sociali sul mondo del lavoro. Ne è un esempio l’estensione dell’automazione e la diffusione di modelli di business come quelli di Uber[30]. Si rischia, insomma, di accelerare ulteriormente la distruzione delle periferie, delle classi medie, e disgregare più velocemente la società.
Di fronte alle esitazioni di Trump (che ha usato elettoralmente la rabbia, in grande misura tradendola, e non ha mai smesso al contempo di fare favori all’alta finanza ed alla propria classe durante tutto il mandato, ma sembra cosciente del collo di bottiglia davanti al quale gli Usa si trovano) la grande idea di Biden sembra essere di correre avanti invece di arretrare. Insomma, apparentemente progetta e cerca di accompagnare il paese verso la “piattaforma del futuro” in grado di far vincere la guerra con la Cina senza combatterla militarmente (forse); mentre i repubblicani spingerebbero per la ricostruzione delle basi industriali e la separazione delle aree di influenza. In un gioco di specchi inestricabile la prima strategia sembrerebbe volta a vincere la guerra commerciale e la seconda a creare una nuova guerra fredda (se non calda); ma poi le mosse della nuova amministrazione seguono le orme della precedente nel confronto con la Cina (ma inaspriscono quella con la Russia) e sembrano anche più energicamente avvicinarsi alla guerra, d’altra parte proseguono la retorica della base industriale e del sostegno alla classe media.
Insomma, le cose sono molto meno nette delle retoriche che si sbandierano. Per fare un esempio, il famoso libro di Klaus Schawb “Covid 19: The Great Reset”[31] è sostanzialmente un poco originale riassunto di una letteratura divulgativa ed esortativa per un pubblico professional in cerca di facili slogan da convegno. Letteratura della quale dal lato più statalista fanno parte libri come quelli di Mariana Mazzucato “Il valore di tutto”[32] (2018), o “Mission economy”[33] (2021). In questi due testi, di cui il primo costituisce la base teorica del secondo, l’economista inglese cerca di rimettere in questione la pretesa dell’economia finanziarizzata (e concentrata sul “shareholders value”) di contribuire allo sviluppo sociale in favore di un’economia che metta insieme settore pubblico e privato intorno a “missioni” e sia concentrata sull’effettiva creazione di valore per tutti gli “Stakeholders”. Nella stessa direzione, ma con uno scopo più limitato, va il libro di Stephanie Kelton “Il mito del deficit”[34], che si sforza di affermare il punto di vista della Teoria Monetaria Moderna (MMT) e per questa via aiutare il formarsi di una “economia per il popolo” che riesca a superare i miti dei limiti alla spesa pubblica e del debito. Invece della politica monetaria la funzione della stabilizzazione macroeconomica è affidata, in questa prospettiva, alla spesa discrezionale per ottenere una economia migliore per tutti. La proposta di maggiore sostanza è di inserire una “funzione di guida automatica” attraverso una regola anticongiunturale di assunzione in pubblici servizi altamente decentralizzati e scelti dalle comunità.
Uno sguardo più concentrato sull’evoluzione delle tecniche, e rivolto a soluzioni meno radicali, se pure in direzione di maggiore regolazione (in particolare della Gig Economy) e protezione dell’occupazione e dei prevedibilmente tanti nuovi disoccupati, è presente nel libro di Richard Baldwin “Rivoluzione globotica”[35] del 2019.
Sguardi attenti all’economico, ma con una prospettiva piuttosto ampia e socialmente densa, sono quelli degli ultimi libri di Paul Collier “Il futuro del capitalismo”[36] (2018), e di Raghuram Rajan “Il terzo pilastro”[37] (2019), oppure, da una prospettiva più liberal, di Thomas Piketty “Capitale e ideologia”[38] (2020). Collier identifica “nuove ansie”, in modo non dissimile da tutti gli altri, e cerca di trovare soluzioni in una nuova etica da rifondare nel sistema economico e sociale. In modo non dissimile da Rajan e Fukuyama, l’autore riafferma la necessità di coesione e identità sociale ma ricerca un modo di riaverla compatibile con le condizioni di frammentazione e pluralismo della modernità. Paradossalmente la risposta non è né nell’aerea identità mondiale (che si muterebbe in dispotismo) né nella obsoleta identità statale, ma in quella dei “luoghi”. Intorno a questo concetto secondo l’autore si può anche ricostruire un’etica di impresa nel rapporto con il territorio e la creazione di una società inclusiva che rimetta sotto controllo i tre “divari” essenziali: di classe, geografico e globale. Anche l’ex banchiere centrale indiano ed ex professore di finanza alla Booth School of Economics di Chicago, Rajan, sostiene la necessità di ritrovare una via di mezzo (un “terzo pilastro”) tra Stato e mercati ed inquadra in un vasto discorso storico il diesquilibrio provocato dalla svolta neoliberale che porta all’affermazione del populismo. Senza dimenticare di allargare a Cina e India il suo sguardo torna a proporre quindi un “localismo inclusivo” che attribuisca potere alle comunità e le protegga con una “rete di sicurezza”. Le comunità da rivitalizzare dovranno essere basate sulla prossimità (come per Collier) e sia sul sostegno dello Stato come essere dotate di una sovranità responsabile non indifferente alle responsabilità internazionali. Anche qui per le imprese si tratta di passare dalla massimizzazione del profitto a quella del valore. Invece Thomas Piketty, con la sua consueta generosità espositiva, ricostruisce a largo raggio i “regimi della disuguaglianza” nella storia dell’umanità fino a giungere a quella che chiama “la società dei proprietari” (anche detta “capitalismo”). Da questa nella fucina del XX secolo è emersa sia la soluzione socialdemocratica sia, in seguito, l’“ipercapitalismo”. Il testo, enormemente lungo e prolisso, si limita in ultima analisi a rilanciare il progetto federale europeo in senso sociale affinché si sottragga a quella che chiama la “trappola social-nativista”, e ad avviare il superamento del capitalismo attraverso gli istituti della “proprietà provvisoria” (per via fiscale) e della deliberazione aziendale.
Quindi si possono leggere, in una prospettiva più ampia e sensibile agli assetti geopolitici in mutamento, i nuovi libri di Branko Milanovic “Capitalismo contro capitalismo”[39] (2019) e di Francis Fukuyama “Identità”[40] (2018). Milanovic distingue le forme idealtipiche del “capitalismo liberal-meritocratico” e del “capitalismo politico”. Il primo liberale ed occidentale, il secondo orientale e illiberale (ovvero “comunista”). Nella prefazione la crisi post-Covid è identificata come causa di tre principali effetti: la recrudescenza dello scontro tra Usa e Cina (ovvero tra due “capitalismi” nella sua classificazione); la riduzione delle supply chain mondiali e quindi della ipermondializzazione; la rivalutazione del ruolo dello Stato nella vita economica. Da ultimo, Fukuyama, in un libro concentrato sul problema della crescita dei populisti, evidenzia il bisogno di thymos, riconoscimento, dignità, identità, dai quali non ci si può sottrarre.
La crisi dell’anno del Covid è invece il focus dell’ultimo libro di Adam Tooze, “L’anno del rinoceronte grigio”[41], in cui è convincentemente raccontato come le linee di frattura, invero molto grandi, aperte dalla crisi pandemica sono tutte preesistenti e affondano le loro radici negli squilibri e i tentativi di gestione falliti dei quali il libro di Gabellini parla così bene. Le crisi sottolineate da Biden (significativamente pandemia, economia, richiesta di eguaglianza razziale, clima) sarebbero state attaccate con un bombardamento a tappeto il cui versante economico è dato dall’American Rescue Plan (1900 miliardi) un programma infrastrutturale (2300 miliardi) e l’american Families Plan (1800 miliardi) più lo stimolo di Trump di 3600 miliardi. Il primo concentrato sulle classi medie e le piccole imprese. Un piano che superava il famoso “output gap” e dunque secondo l’economia maistream (è stato attaccato da Summers e Blanchard) avrebbe mandato fuori giri il motore. Chiaramente questo potrebbe portare ad un ‘tiro alla fune’ e all’innalzamento dei tassi (con conseguente richiamo di capitali).
Ora, come riconosce molto francamente Tooze, se la scala degli interventi governativi (o degli annunci) del 2020 e 21 è stata senza precedenti, sia sotto il profilo fiscale come finanziario, nessuno vuole tornare agli anni del trentennio. Piuttosto le élite si comportano come quelle bismarckiane della metà dell’800. Cercano di cambiare tutto per avere lo stesso mondo. E di stimolare nuovi cicli di speculazione e sviluppo alimentati dal debito (soprattutto pubblico), gestiti da strette (o strettissime) ed affidabili élite tecnocratiche. La democrazia qui è proprio fuori gioco, la legittimazione di questa operazione è affidata ai suoi risultati. Possono alla fine essere riassorbiti e compensati gli input di disuguaglianza che promanano da queste disperate politiche? Può il sistema multipolare, ma ancora dipendente dalla centralità del dollaro, reggere lo stress di una nuova ‘tosatura’? O ad una guerra locale?
Ma soprattutto, cosa c’è di effettivo in questi programmi di modernizzazione che, al loro meglio, interessano il 2 per cento del Pil in chiave pluriennale di lungo corso? Ben poco, direi.
Sono per lo più retoriche. Il mix va da chi, come la Mazzucato, propone di passare dalla cattura del valore per gli azionisti alla creazione per gli “Stakeholders”, o, come la Kelton, di superare l’ossessione per il deficit pubblico e la paura dell’inflazione, chi, come Baldwin, descrive gli effetti della transizione tecnologica e la percepisce anche come una minaccia davanti alla quale occorre far fronte con più protezione, o Collier e Rajan che hanno in comune l’attenzione al territorio ed ai luoghi, come alle identità. Chi teme come Milanovic il protagonismo della Cina e la crescita dei populismi come Fukuyama.
Ma sono retoriche che su un punto non possono essere sottovalutate (non per gli effetti, che saranno modesti, quanto per il clima intellettuale che stimolano e giustificano): sono sempre soluzioni integralmente elitiste e fondate sul protagonismo delle grandi aziende globali. Il neoliberismo per come lo abbiamo conosciuto fino al 2020 sembra crollare sotto il peso degli enormi problemi che ha sollevato, e che il libro di Gabellini illustra ottimamente. Ma la sua centralità rimane.
Bisogna essere attenti, il capitalismo avrà anche un suo “spirito”, ma è capace di adattarsi a sempre nuovi ambienti, è sempre plurale e decentrato, metamorfico. Lontano dall’essere derivato e diretto dalla tecnica e dall’economico il sistema di regolazione che lo contraddistingue è sempre essenzialmente fondato su una egemonia[42] e questa porta in esistenza delle distribuzioni e delle soggettività, sempre nuove istituzioni, opportunità. La letteratura citata, ed alcune politiche pubbliche di emergenza, dunque cercano consapevolmente di rigenerare il capitalismo affinché all’ordine segua l’ordine, ed alla centralità dei soggetti creati dal sistema di regolazione neoliberale segua quella dei medesimi (al contempo cambiati). Se la crisi del modo di regolazione ‘fordista’, al calare del millennio, estremizzò e al tempo pervertì gli elementi di questo[43], allargandoli su scala mondiale attraverso una potente dinamica di integrazione subalterna (ponendo al centro nuovi assetti tecnologici e la creazione dell’ordine nel quale viviamo), qui si tratta di ripetere l’operazione. Estremizzare e pervertire, per superare/confermare l’ordine sociale esistente e saltare nel prossimo.
L’operazione ideologica che è tentata in questi testi e bozze politiche (con poca sostanza[44]) è di enorme ambizione, non va sottovalutata. Si tratta di raccogliere la sfida posta dall’evidente, e non nascosto, fallimento dell’economia neoliberale, eccessivamente concentrata sul breve termine, sull’arricchimento come rapina invece che come effetto della creazione di valore, sull’esaltazione delle parti peggiori dell’uomo, sulla distruzione della natura entro e fuori di esso, per rovesciarlo in un successo dei medesimi attori. Una vera e propria rifondazione ideologica dall’alto che è espressamente proposta dalle élite per le élite di fronte al baratro del conflitto, della perdita di egemonia e di controllo del mondo e, forse, della rivoluzione (come arriva a dire Schwab, cercando di stimolare il senso di sopravvivenza del capitalismo). Si tratta di un tentativo di riaggregazione di classe, anche oltre e sopra le differenze e le fratture geopolitiche in via di allargamento. Una riaggregazione necessaria e decisiva per ricandidarsi come sempre alla gestione del reale, ma da una posizione più salda.
Torniamo al racconto del libro. Mentre Biden fa le sue cose gli altri procedono. E nel capitolo che l’autore chiama “Riallineamento” leggiamo infatti la traiettoria della Repubblica Popolare Cinese, senza dubbio l’evento più rilevante dell’ultimo quarto del XX secolo e del primo del XXI. Quel che la geniale strategia di Deng, con più continuità di quanto possa sembrare con la traiettoria di Mao[45], introduce è un’alleanza non solo con il ‘diavolo bianco’ occidentale, quanto con il “ponte fiorito”[46]. Grazie a questa mobilitazione di energie presenti nella costellazione cinese (quella della diaspora e dei ceti commerciali che, da sempre, costituiscono la corona esterna) il regno di mezzo, Chung-kuo, si integra con l’economia-mondo guidata dagli Usa, ma senza accogliere e seguire il Washington Consensus. Quindi serbando i controlli (ferrei) sui movimenti di capitale, la presenza statale sull’economia e l’obbligo per le imprese nazionali o straniere di muoversi verso l’interesse nazionale come di volta in volta definito da PCC. Non appare sorprendente se si considera quella che Ferdinand Braudel identificava come una storica ostilità alla proliferazione del capitalismo. In questo snodo interpretativo Gabellini segue la lezione di Giovanni Arrighi che nel suo ultimo capolavoro “Adam Smith a Pechino” sostiene esattamente questa tesi.
Dentro questo modello ultra-dirigistico cinese[47] alla fine avviene quel sorpasso generalizzato che è sotto i nostri occhi: la quota di valore aggiunto nel settore cruciale dell’hi-tech passa in dieci anni, dal 2003 al 2014 dal 7 al 27% (ed oggi è molto più in alto, come testimonia il nervosismo americano che, nello stesso periodo, scendono dal 36 al 29%); il venture capital mondiale è impegnato ormai per il 40% in Cina.
A fronte della riabilitazione del confucianesimo di Deng (e poi di Xi) e della dottrina delle “tre modernizzazioni”[48], vengono attivate forme di guerra ibrida[49] sul piano psicologico, mediatico e legale. La Cina fa anche fronte ai ripetuti attacchi finanziari Usa estendendo il controllo dei capitali e i dispositivi di sorveglianza (che sono stati decisivi nella lotta alla pandemia). Con le ultime generazioni di leader promuovono una maggiore riorganizzazione accentratrice (in pieno corso di accelerazione) e la strategia dello sviluppo verde, sforzandosi di riorientarsi verso lo sviluppo interno autocentrato, riducendo la dipendenza dai mercati esteri[50]. Al contempo, e questo è un parametro che non può essere sottovalutato, la Cina continua a ridurre il tributo, in primo luogo smettendo di comprare i titoli di stato americani (che sono passati dal 14 al 5%), attenuando uno dei principali fattori di reciproca dipendenza. Tutto lascia ritenere che sia in corso un piano articolato (insieme alla Russia ed altri grandi attori internazionali, tra i quali a volte si intravede l’India) per erodere la supremazia del dollaro. Ne sono espressione la riduzione delle riserve e la Cleaning House (Chips) tra Russia e Cina. Poi c’è la “via della seta”[51], che estende partership, infrastrutture e debiti verso i paesi centroasiatici e quelli africani, senza dimenticare l’Europa dell’Est e l’America Latina.
Nell’ultimo capitolo “Entropia”, viene espressamente ripreso lo schema dei cicli egemonici proposto da Braudel-Arrighi-Wallerstein e interpretata alla luce di questo la ‘degenerazione finanziaria’ dell’occidente. Si tratta di uno strumento predatorio, volto a rendere liquide e poi trasferire le ricchezze (come illustra bene la Sassen[52]), ma anche nella falsa illusione di ricchezza che trasmette un dispositivo che erode le basi stesse della potenza dominante che, alla lunga, privata degli investimenti produttivi perde competitività.
Alla fine, emerge una nuova configurazione mentre il ciclo discende. Crescita stentata, tendenza alla deflazione, elevati livelli di debito e alta disoccupazione imprigionano le politiche, mentre ogni flusso aggiuntivo prende subito la via del rendimento meramente finanziario. I concorrenti, viceversa (a suo tempo Germania e Stati Uniti verso la Gran Bretagna, ed ora Russia e Cina ma anche Giappone, Corea e Arabia Saudita) accumulano surplus delle partite correnti (in questo momento anche l’Italia) ponendo le basi strutturali del declino del dollaro. A questo il dominus imperiale risponde con autentiche operazioni di pirateria finanziaria cicliche (la “geopolitica del caos”), ma sempre più violente e sempre meno risolutive.
Insomma, le mancate scelte degli anni tra i settanta e novanta (che Kennedy cercava di anticipare), conducono gli Stati Uniti in un vicolo cieco. Non gli resta, per pareggiare i conti, che continuare ad immettere liquidità nel sistema, sfruttando il privilegio del dollaro, ma questa manovra va solo ad inflazionare i consumi (immobili, azioni, bond) e i rentier, creando le condizioni di uno squilibrio strutturale sempre maggiore. La gran parte del paese, nel frattempo, sprofonda in povertà e debiti e non è nelle condizioni di intercettare e giovarsi degli eventuali dividendi delle trasformazioni tecnologiche. La principale obiezione alle politiche e retoriche della coppia Biden/Trump (che sono meno diverse di quanto sembrino) è di questo tenore: insufficiente e mal diretta perché possa effettivamente giovare a chi necessita di soccorso. Troppo poco e troppo tardi.
Questo squilibrio dovrebbe invece portare al deprezzamento del dollaro (che in questo modo riporterebbe la produzione americana ad essere competitiva, se pure su una piattaforma più bassa in termini di quota di valore aggiunto) e all’estrazione fiscale del surplus nei piccolissimi ceti che lo hanno accumulato (modificando radicalmente le aliquote fiscali ed eliminando i relativi ‘paradisi’). Ma se accadesse i capitali distribuiti tornerebbero, nel tentativo di anticipare la svalutazione e quindi accelerandola. L’effetto destabilizzante di un simile scenario alla Weimar nel paese, che detiene la capacità di distruggere dieci volte il pianeta e il più potente esercito del mondo, è di incalcolabile orrore.
Dunque, la guida statunitense cerca con ogni mezzo di allontanare questo calice amarissimo, ma per farlo deve proseguire ed esacerbare il tributo che un più che riluttante mondo è costretto a versare. Quindi, in un circolo autorafforzante che tiene prigioniero il mondo, è costretto a rafforzare sempre l’esercito, svolgere sempre più disperate operazioni di caos controllato, destabilizzare sistematicamente i margini dei concorrenti o potenziali tali, inviare “proconsoli”[53] nei paesi satelliti per rafforzare il controllo.
L’altro modello è quello cinese, sul quale il testo spende le sue ultime pagine.
[1] – Giacomo Gabellini, “Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense”, Mimesis 2021.
[2] – Il riferimento è alla formula di Shoshana Zuboff, nel suo “Il capitalismo della sorveglianza”, Luiss 2020
[3] – Come risulta dai classici e seminali testi di Werner Sombart, “Il capitalismo moderno”, Ledizioni, 2020 (Ed. Or. 1902) e Max Weber, “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, BUR 1991 (ed. or. 1904).
[4] – In breve, arricchimento di massa (‘cetomedizzazione’), calo della fecondità, aumento della longevità, aumento del livello educativo, superamento del livello educativo maschile da parte delle donne, secolarizzazione, disgregazione dei modelli tradizionali. Cfr, Emannuel Todd, “Breve storia dell’umanità”, LEG 2020 (ed. or. 2017).
[5] – L’asse interpretativo del testo di Todd è che le strutture familiari e le forme di linguaggio tramandate conservano nella società due approcci idealtipici: l’individualismo anglosassone, razzista e primitivo; il comunitarismo russo e cinese, ma anche di parte del sud Italia e dei paesi mediterranei, egualitario e più evoluto.
[6] – Charles Kupchan, “La fine dell’era americana”, Vita e Pensiero 2003 (ed. or. 2002), p. 388.
[7] – Qiao Liang, “L’arco dell’impero con la Cina e gli Stati Uniti alle estremità”, Leg edizioni 2021 (ed. or. 2016).
[8] – Kupchan, cit., p. 402.
[9] – Carlo Formenti, “La rabbia americana e la pazienza cinese”, Il socialismo del secolo XXI, 15 gennaio 2022.
[10] – Ferdinand Braudel, “La dinamica del capitalismo”, Il Mulino 1977.
[11] – Giovanni Arrighi, “Adam Smith a Pechino”, Feltrinelli 2008 (ed.or. 2007), nuova edizione
[12] – Immanuel Wallerstein, “Il capitalismo storico”, Einaudi 1985 (ed.or. 1983)
[13] – Alessandro Visalli, “Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare”, Meltemi 2020.
[14] – Figura di grande interesse, anche se ormai abbastanza dimenticata, eletto per un secondo mandato (quando ciò era accaduto solo altre sei volte a Washington, Jefferson, Madison, Monroe, Andrew Jackson, Grant, su 27 mandati) fu il presidente in carica durante la Prima guerra mondiale e l’immediato dopoguerra. Come mostra bene Gabellini è il momento cruciale per il cambio di potere tra l’Europa e gli Stati Uniti, e specificamente per quello tra l’Impero inglese e quello Americano. Wilson è normalmente inquadrato come un colto idealista, che in parte fu, ma fu anche il lucido e cinico progettista di una politica di potenza che univa retorica democratica radicale (profondamente presente nella storia americana, come retorica intendo) e le più sfrontate politiche materiali di segregazione razziale interna e imperialismo esterno. Le prime verso le minoranze nazionali, le seconde verso i paesi deboli sudamericani. Come mostra anche Todd, nel suo “Breve storia dell’umanità”, LEG 2020, e Alan Taylor nel suo “Rivoluzioni americane”, Einaudi 2017 si fa guidare dal razzismo tipico della sua cultura. Nato in Virginia, da genitori religiosi, crebbe in Georgia, dove la famiglia si schierò decisamente per i Confederati durante la guerra civile. Da bambino vide il generale Lee, riportandone una indelebile impressione e assistette alla sconfitta del sud. Laureato a Princeton nel 1879 e dottorato alla John Hopkins (prima di Obama era l’unico presidente americano con questo titolo) iniziò la propria carriera accademica e politica sostenendo che la forma politica costituzionale americana, fondata su un sistema molto complesso di bilanciamento dei poteri voluto dai padri costituenti, in effetti nascondesse agli elettori le responsabilità delle cose (era uno dei suoi scopi) per cui bisognasse riportare il potere ad un solo luogo (parlamentare). In seguito, ammorbidì questa posizione, ma conservò l’idea che ci volesse un capo ed un partito. Da presidente assunse all’inizio posizioni populiste e promosse attivamente la segregazione razziale nell’amministrazione federale e il sospetto verso gli “americani con il trattino”, fece promulgare leggi antisocialiste, giungendo fino a far arrestare il candidato alla presidenza e sindacalista socialista Eugene Debs. D’altra parte, promosse leggi contro il lavoro minorile, i prestiti agricoli, l’assicurazione sugli infortuni sul lavoro. Intervenne militarmente in Messico, Haiti, Cuba, Panama, Nicaragua. Intervenne nella guerra civile russa a fianco dei bianchi, mandando truppe a Murmansk, Arcangelo e Vladivostok.
[15] – I “quattordici punti” è il nome di un discorso che l’8 gennaio 1918 il presidente tenne davanti al congresso in seduta congiunta, elaborato con il contributo di Walter Lippmann, enunciavano: 1- Pubblici trattati di pace, stabiliti pubblicamente e dopo i quali non vi siano più intese internazionali particolari di alcun genere, ma solo una diplomazia che proceda sempre francamente e in piena pubblicità. 2- Assoluta libertà di navigazione per mare, fuori delle acque territoriali, così in pace come in guerra, eccetto i casi nei quali i mari saranno chiusi in tutto o in parte da un’azione internazionale, diretta ad imporre il rispetto delle convenzioni internazionali. 3- Soppressione, per quanto è possibile, di tutte le barriere economiche ed eguaglianza di trattamento in materia commerciale per tutte le nazioni che consentano alla pace, e si associno per mantenerla. 4- Scambio di efficaci garanzie che gli armamenti dei singoli stati saranno ridotti al minimo compatibile con la sicurezza interna. 5- Regolamento liberamente dibattuto con spirito largo e assolutamente imparziale di tutte le rivendicazioni coloniali, fondato sulla stretta osservanza del principio che nel risolvere il problema della sovranità gli interessi delle popolazioni in causa abbiano lo stesso peso delle ragionevoli richieste dei governi, i cui titoli debbono essere stabiliti. 6- Evacuazione di tutti i territori russi e regolamento di tutte le questioni che riguardano la Russia senza ostacoli e senza imbarazzo per la determinazione indipendente del suo sviluppo politico e sociale e assicurarle amicizia, qualsiasi forma di governo essa abbia scelto. Il trattamento accordato alla Russia dalle nazioni sorelle nel corso dei prossimi mesi sarà anche la pietra di paragone della buona volontà, della comprensione dei bisogni della Russia, astrazione fatta dai propri interessi, la prova della loro simpatia intelligente e generosa. 7- Il Belgio – e tutto il mondo sarà di una sola opinione su questo punto – dovrà essere evacuato e restaurato, senza alcun tentativo per limitarne l’indipendenza di cui gode al pari delle altre nazioni libere. 8 – Il territorio della Francia dovrà essere completamente liberato e le parti invase restaurate. Il torto fatto alla Francia dalla Prussia nel 1871, a proposito dell’Alsazia–Lorena, che ha compromesso la pace del mondo per quasi 50 anni, deve essere riparato affinché la pace… possa essere assicurata di nuovo nell’interesse di tutti. 9 – Una rettifica delle frontiere italiane dovrà essere fatta secondo le linee di demarcazione chiaramente riconoscibili tra le nazionalità. 10 – Ai popoli dell’Austria–Ungheria, alla quale noi desideriamo di assicurare un posto tra le nazioni, deve essere accordata la più ampia possibilità per il loro sviluppo autonomo. 11 – La Romania, la Serbia e il Montenegro dovranno essere evacuati, i territori occupati dovranno essere restaurati; alla Serbia sarà accordato un libero e sicuro accesso al mare, e le relazioni specifiche di alcuni stati balcanici dovranno essere stabilite da un amichevole scambio di vedute, tenendo conto delle somiglianze e delle differenze di nazionalità che la storia ha creato, e dovranno essere fissate garanzie internazionali dell’indipendenza politica ed economica e dell’integrità territoriale di alcuni stati balcanici. 12- Alle regioni turche dell’attuale impero ottomano dovrà essere assicurata una sovranità non contestata, ma alle altre nazionalità, che ora sono sotto il giogo turco, si dovranno garantire un’assoluta sicurezza d’esistenza e la piena possibilità di uno sviluppo autonomo e senza ostacoli. I Dardanelli dovranno rimanere aperti al libero passaggio delle navi mercantili di tutte le nazioni sotto la protezione di garanzie internazionali. 13 – Dovrà essere creato uno stato indipendente polacco, che si estenderà sui territori abitati da popolazioni indiscutibilmente polacche; gli dovrà essere assicurato un libero e indipendente accesso al mare, e la sua indipendenza politica ed economica, la sua integrità dovranno essere garantite da convenzioni internazionali. 14 – Dovrà essere creata un’associazione delle nazioni, in virtù di convenzioni formali, allo scopo di promuovere a tutti gli stati, grandi e piccoli indistintamente, mutue garanzie d’indipendenza e di integrità territoriale.
Bisogna notare che per Wilson ogni etnia dovrebbe avere una nazione e questa autodeterminarsi. In sostanza separando in tal modo le etnie le une dalle altre. Questa era l’idea di riassetto del mondo promossa attraverso la “Lega delle nazioni”.
[16] – Gabellini, cit., p. 69.
[17] – Qiao Liang, “L’arco dell’impero”, op.cit.
[18] – Gabellini, cit., p.97
[19] – James O’Connor, “La crisi fiscale dello Stato”, Einaudi 1977.
[20] – Mi riferisco, ovviamente, agli economisti marxisti Paul Baran e Paul Sweezy ed i loro coautori.
[21] – Qiao Liang, cit., p.103.
[22] – Qiao Liang, cit., p. 108
[23] – Oggetto del mio libro del 2020.
[24] – In quanto per restare nel ruolo di fornitori di materie prime a basso prezzo è necessario che non sviluppino una propria capacità di produzione e trasformazione ed un mercato interno che farebbe salire i prezzi.
[25] – Gabellini, cit., p.130.
[26] – Gabellini, p.133
[27] – Gabellini, p.163
[28] – Citato in Gore Vidal, “L’invenzione degli Stati Uniti“, Fazi editore, 2005, p. 98.
[29] – Come racconta Gabellini, cit., p. 280.
[30] – Gabellini, cit., p. 318
[31] – Klaus Schawb, Thierry Malleret, “Covid 19: The Great Reset”, 2020.
[32] – Mariana Mazzucato, “Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale”, Laterza 2018 (ed.or 2018). Un testo ambizioso nel quale nella prima parte cerca di rivitalizzare l’illustre tradizione risalente almeno a Smith che vede distinguere tra lavori produttivi di valore e non, e che, su questa base, pone sistematicamente in discussione la pretesa della finanza di contribuire allo sviluppo del valore, distinguendo tra “capitali pazienti” e “speculativi”, a breve termine ed improduttivi. La chiave è la medesima poi prescelta da Schwab, occorre passare nuovamente dalla massimizzazione del valore per gli azionisti (“improduttiva”) alla creazione di effettivo valore per gli “Stakeholders” (cfr. p.200). La conclusione, tuttavia, diversamente dal nostro, è che bisogna andare verso la ricostruzione della fiducia nella funzione pubblica e “fissare una missione” (p.278).
[33] – Mariana Mazzucato, “Mission economy. A Moonshot Guide to Changing Capitalism”, Allen Lane, 2021. Libro nel quale l’economista inglese riflette sulla crisi pandemica.
[34] – Stephanie Kelton, “Il mito del deficit”, Fazi editore 2020.
[35] – Richard Baldwin, “Rivoluzione globotica”, Il Mulino 2019.
[36] – Paul Collier, “Il futuro del capitalismo”, Laterza 2020 (ed.or. 2018).
[37] – Raghuram Rajan, “Il terzo pilastro. La comunità dimenticata da Stato e mercati”, Bocconi Editore 2019 (ed. or. 2019).
[38] – Thomas Piketty, “Capitale e ideologia”, La nave di Teseo, 2020 (ed.or. 2020).
[39] – Branko Milanovic, “Capitalismo contro capitalismo. La sfida che deciderà il nostro futuro”, Laterza 2020 (ed. or. 2019).
[40] – Francis Fukuyama, “Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi”, Utet 2019 (ed. or. 2018).
[41] – Adam Tooze, “L’anno del rinoceronte grigio”, Feltrinelli 2021 (ed. or.2021).
[42] – Termine chiaramente polisemico, ma che qui si intende spendere per la sua capacità di organizzare il senso e creare un ordine, sposato dai soggetti che essa stessa costituisce non per mero interesse bensì per adesione ad un intero ‘mondo’ internamente coerente. L’ordine (ed il ‘mondo’) comprende tecniche, saperi, culture e ruoli. Ogni operazione consapevolmente egemonica è una sorta di sfida al mondo come è, definisce dei nemici e si sforza di dissolverne la coerenza e coesione, combatte certezze, crea idee nuove (spesso rimontate dalle vecchie). Ogni nuovo assetto egemonico ha i suoi soggetti ed i suoi attori cruciali, individua dei valori irrinunciabili e dei disvalori da respingere, include delle tecniche, produce una economia. Creando soggettività si fa carico di esse, e risponde ai bisogni che fa emergere come decisivi.
[43] – In poche parole, lo scheletro era dato dalla integrale subordinazione del consumo, messo a centro dell’uomo stesso, alla logica capitalista, negoziando da una parte produttività e distribuzione in termini reali (in modo da garantire da riproduzione della forza-lavoro e la stabilità sociale, ovvero la riproduzione sociale) e dall’altra la gestione politica della moneta (progressivamente smaterializzata in tutti gli anni Sessanta e settanta, con enormi conseguenze sistemiche).
[44] – O, per meglio dire nelle quali la sostanza è sempre in un rapporto in sedicesimi con l’annuncio e le ambizioni.
[45] – Cfr. Diego Angelo Bertozzi, “La Cina popolare. Origini e percorsi del socialismo con caratteristiche cinesi”, LAD 2020.
[46] – Il “Ponte fiorito” è la diaspora cinese nei paesi di corona e la loro relazione con il ceto commerciale e artigianale (ed imprenditoriale) che è particolarmente forte nella fascia costiera al sud della Cina. Per una storia della Cina particolarmente interessante si veda Michael Schuman, “L’impero interrotto”, Utet, 2021 (ed. or. 2020).
[47] – Gabellini, cit., p. 331
[48] – Gabellini, cit., p. 337
[49] – Si veda Qiao Liang, Wang Xiangsui, “Guerra senza limiti”, LEG, 2001 (ed. or. 1999).
[50] – Gabellini, Cit., p.346
[51] – Si veda anche Peter Frankopan, “Le nuove vie della seta”, Mondadori 2019 (ed. or. 2018).
[52] – Saskia Sassen, “Espulsioni. Brutalità e complessità dell’economia globale”, Il Mulino 2014.
[53] – Si veda “Il Proconsole imperiale: draghi, serpenti, vermi”.
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Fonte: https://tempofertile.blogspot.com/2022/01/giacomo-gabellini-krisis.html
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