Il patto a tre per L’Italia. La ricetta padronale per la ripresa economica e il neokeynesismo di guerra
da LA CITTA’ FUTURA (Federico Giusti)
L’Italia è forse in grado di rinunciare al gas russo? In un’intervista al quotidiano “Domani”, uno dei più stretti consiglieri di Zelensky spiega che un gasdotto russo attraversa l’Ucraina che ne ricava 1,3 miliardi annui. Suona strano che l’Ucraina non chiuda quel gasdotto e rispetti un accordo del 2019 quando ogni giorno invoca l’Unione Europea (Ue) di interrompere ogni accordo commerciale con la Russia ponendo fine alle importazioni di gas e petrolio. Il problema è assai complesso. Quel gas non è indispensabile solo per i paesi Ue ma anche per la stessa Ucraina, e il realismo politico impone prudenza e non mosse azzardate. Basterebbe solo questo esempio per spiegare l’ipocrisia che si cela dietro ai conflitti bellici. Ma proviamo a non limitarci a note etiche o morali.
Per alcuni studiosi l’Ue deve dotarsi di una nuova politica energetica andando avanti sulla strada della decarbonizzazione del sistema elettrico, localizzando gli investimenti anche con lo stoccaggio di elettricità e guardando anche al nucleare e alle rinnovabili.
Un capitolo dirimente del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) riguarda proprio le politiche energetiche e la svolta Green dell’economia ma nasconde interessi economici sui quali andrebbe costruita una narrazione opposta a quella mainstream, citando documenti ufficiali e il coacervo di tornaconti che si muove attorno al business energetico.
Il gas Usa costa il 50% in più di quello Russo. A dirlo non siamo noi ma i dati ufficiali e i prezzi. Stando a quanto scrive “Il Sole 24 Ore” il costo di Gnl (gas naturale liquefatto) importato dagli Usa, inclusi i costi del trasporto e della rigassificazione è di gran lunga superiore alla fornitura di gas russo. In Italia sarebbe poi particolarmente oneroso perché si dovrebbe passare dall’Enel che ha un contratto diretto con la multinazionale texana Chenerie Energy. Acquistare Gnl dagli Usa non è conveniente sia per i costi legati al trasporto e alla rigassificazione sia per il pedaggio da versare agli intermediari che poi scopriamo essere utility Usa o giapponesi o perfino cinesi che girano a loro volta parte dei loro carichi contrattuali.
Pochi raccontano la verità ossia che acquistare il gas russo è stato un vantaggio economico per i paesi Ue perché i costi di estrazione risultano tra i più bassi del mondo e i contratti siglati nel corso del tempo hanno bloccato i prezzi per anni evitando processi speculativi e finanziari.
Al contempo gli accordi tra Ue e Russia prevedono un determinato utilizzo del gas mentre le forniture dagli Usa all’occorrenza potrebbero essere dirottate a terzi senza incorrere in penali troppo onerose.
Abbiamo ripetutamente denunciato che questa guerra avrà ripercussioni negative soprattutto sull’economia europea tanto che l’economia Usa ha già raggiunto e superato i livelli del 2019 ossia prima della crisi pandemica.
La guerra è quindi lontana dagli Stati Uniti che ogni giorno la finanziano a colpi di contractors e di ingenti forniture militari. La guerra alimenta l’economia Usa dove si registra un boom dei consumi e di occupazione, nonostante l’aumento del costo della vita e il progressivo impoverimento di fasce considerevoli della popolazione (da qui l’acuirsi delle disuguaglianze).
La crescita dell’economia Usa è facilitata non solo dal neokynesismo di guerra e dalla distanza geografica dalla guerra in Ucraina ma dall’indipendenza energetica, anzi dal fatto che le loro materie prime potranno essere vendute a prezzi decisamente elevati rispetto al gas e al petrolio Russo.
La guerra in Ucraina spinge il governo Draghi a nuovi accordi commerciali molti dei quali risulteranno onerosi per la già debole ripresa economica italiana. Questo è il primo risultato della sudditanza verso la Nato e gli Usa.
Al contempo anche gli Usa dovranno affrontare i loro problemi che tuttavia saranno assai meno gravi di quelli Ue: per esempio l’aumento dell’8,5% annuale dei prezzi al consumo (il massimo picco dal 1981), ma con un incremento record dell’11,2% nei prezzi alla produzione, tanto che alcuni analisti economici parlano di un pericolo all’orizzonte, ossia ogni volta che l’inflazione ha superato il 4% e la disoccupazione è scesa sotto il 5%, l’economia Usa è caduta in recessione entro due anni.
Ma l’inflazione non ha mai rappresentato un problema per l’economia Usa, al contrario di quella Ue, tanto da avere un effetto di traino per l’intera economia, come dimostrato dall’aumento del Pil, nel terzo trimestre 2021, di oltre il 6%.
Se confrontiamo i Pnrr europei con gli aiuti straordinari anti pandemia negli Usa, ci rendiamo conto di come il governo Usa, contrariamente ai dettami dei neoliberisti da strapazzo, abbia sovvenzionato la ripresa economica anche a rischio di surriscaldare la domanda e favorire il caro prezzi con un piano infrastrutturale da oltre mille miliardi di dollari, approvato l’anno scorso dall’amministrazione Biden.
Qualcuno continua a meravigliarsi dei soldi europei finalizzati a programmi di guerra. Basterebbe leggere la “Bussola europea” per capire come il neokeynesimo di guerra da sempre praticato negli Usa rappresenti un faro guida nelle politiche Ue dei prossimi anni.
E nel frattempo, per il 2021, era prevista la spesa di 13,7 miliardi per il Pnrr con una buona parte dei soldi destinati a progetti nuovi per accelerare la crescita dell’economia europea.
Qui entrano in gioco altri fattori, la finalità dei fondi del Pnrr; infatti su “Il Sole 24 Ore” del 17 aprile leggiamo testualmente: “quasi metà della spesa reale è passata dall’alta velocità ferroviaria, anche grazie alla possibilità di attribuire ex post al Pnrr circa 800 milioni già pagati nel 2020; 1,2 miliardi sono andati agli ecobonus in edilizia. Gli incentivi all’innovazione delle imprese di «Transizione 4.0» hanno assorbito 990 milioni, contro i 1.713 attribuiti a questa voce nel programma originario. E altri 390 milioni sono serviti alla scuola, soprattutto per l’edilizia…”.
Ora però il quadro cambia. Perché quest’anno gli obiettivi quantitativi destinati all’esame comunitario sono 17. E soprattutto perché la spinta autonoma della crescita si è raffreddata sotto i colpi di guerra e inflazione. In un contesto così complicato diventa ancora più cruciale il contributo alla crescita attribuito al Pnrr. Che nel frattempo è già cambiato proprio per la rimodulazione nel calendario della spesa: nel 2021 sono spariti quattro dei sei decimali di Pil previsti all’inizio, e nelle stime aggiornate il Piano si chiude nel 2026 con un +3,2% cumulato invece del +3,6% calcolato l’anno scorso.
Chiudiamo con le indicazioni di Confindustria al governo Draghi affidate a un’intervista, pubblicata su “Il Sole 24 Ore”, del presidente Bonomi solo pochi giorni or sono.
Bonomi è assai preoccupato del rincaro dei costi energetici e delle ripercussioni negative sui costi delle imprese e sulle attività produttive. Per questo chiede al governo di investire per tenere a bada i costi delle materie prime e i costi del lavoro. Per queste ragioni propone un patto a tre che includa associazioni datoriali, governo e sindacati. Una sorta di déjà vu che in passato non ha portato bene ai lavoratori.
Per i padroni è di vitale importanza scongiurare la spirale inflattiva, con una corretta politica dei redditi, perché non è possibile chiedere alle imprese, che si stanno già fermando, anche un aumento del costo del lavoro. Ma la “politica dei redditi” sarebbe più corretto denominarla “politica del reddito”, quello da lavoro subordinato, perché è solo quello che si può tenere sotto controllo, visto che gli altri redditi dipendono dai prezzi, i quali nelle economie di “libero mercato” non possono essere regolati.
In sostanza si chiede al governo di farsi carico dei costi aggiuntivi derivanti dalla crisi determinata dalla guerra e dalle sanzioni contro la Russia e dall’altra parte ai sindacati di non alzare il costo del lavoro accettando aumenti contrattuali irrisori che non permetteranno il recupero del potere di acquisto perduto in virtù del rincaro dei generi di prima necessità.
Una ricetta classica del padronato nazionale che rilancia la riduzione dei contributi a carico delle imprese, il il secondo livello di contrattazione, lo scambio diseguale e a perdere tra salari e servizi, consapevoli che su questi temi (ossia previdenza e sanità integrativa) la sensibilità dei sindacati rappresentativi è da tempo nota.
All’orizzonte un nuovo patto analogo a quello del 1993 che avrà impatto negativo sui redditi e sul potere d’acquisto di salari e pensioni, invocando, come accade in Germania con il governo rosso-verde, un cospicuo aiuto di stato alle imprese, quell’aiuto che nel prossimo Documento di economia e finanza (Def) italiano è giudicato dal padronato assai ridotto e di gran lunga inferiore alle sue necessità.
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