[Esce oggi in libreria per le edizioni Tlon il numero zero della rivista cartacea de L’Indiscreto, dedicato al tema Il fine del mondo, a cura di Francesco D’Isa, Enrico Pitzianti ed Edoardo Rialti. Anticipiamo dal numero un estratto dell’intervista di Francesco D’Isa a Gary Lachman]
GARY LACHMAN è uno scrittore e musicista statunitense. Bassista e fondatore dei Blondie, negli anni Novanta ha intrapreso la carriera letteraria dopo aver approfondito gli studi su Colin Wilson. Tra le opere in italiano segnaliamo Jung il Mistico (Mediterranee, 2012), P. D. Ouspenskij. Il genio nell’ombra di Gurdjieff (Mediterranee, 2010) e La stella nera (Edizioni Tlon, 2019).
Negli ultimi anni anche chi aveva ancora fiducia nella “fine della storia” (come la definì Francis Fukuyama) ha assistito a eventi epocali come una pandemia globale e una guerra ai confini dell’Europa. Sullo sfondo, la crisi climatica, di cui probabilmente questi eventi sono l’antipasto. Le forti contraddizioni del presente sembrano essere deflagrate: vuoi parlarci di questo?
L’idea di “fine della storia” può essere intesa in diversi modi: potrebbe essere sia la fine che il fine, lo scopo verso cui la storia è diretta. Fukuyama abbracciava la concezione di Hegel secondo cui la storia, il dispiegarsi dello Spirito (Geist), mirava alla diffusione della libertà. Con il crollo dell’Unione sovietica e dell’“impero del male” marxista, la democrazia del libero mercato aveva trionfato e la visione di Hegel si era “più o meno” realizzata. E sì, Marx credeva che la storia si stesse dirigendo verso una società senza classi – una visione che egli sviluppò dopo aver rovesciato Hegel. Ma sappiamo che Alexandre Kojève aveva una prospettiva diversa e considerava il concetto di “fine della storia” più sulla linea degli “ultimi uomini” di cui parla Nietzsche in Così parlò Zarathustra: compiacenti, felici, nullità mediocri, ben nutrite e in cerca di comodità ma prive di spirito.
“Fine” può anche significare che tutto si ferma, che la società crolla, che le linee vengono interrotte: è questa l’idea comune e tragica dell’apocalisse – un termine che, ricordiamo, significa “visione” o “rivelazione”, non necessariamente “catastrofe”. Lo vediamo in tutti i canali streaming, pieni di serie su scenari distopici. I viaggi nel tempo e i futuri possibili oggi sono popolarissimi. Tuttavia, dopo che la storia di Fukuyama è arrivata a quello che lui pensava fosse il suo compimento, hanno continuato a verificarsi eventi molto drammatici. Penso quindi che potremmo dare un’occhiata a quello che un altro filosofo pensava fosse un probabile scenario della fine della storia occidentale, diversi decenni prima di Fukuyama. Ne Il tramonto dell’Occidente, un bestseller di un centinaio d’anni fa, Oswald Spengler disse che il secolo a venire si sarebbe allontanato dai valori e dalle credenze occidentali, ormai in via di estinzione, e che sarebbe andato verso un’epoca meno liberale e più autoritaria, l’epoca totalitaria e militare del “cesarismo”. Spengler, lo sappiamo, era nella lista delle letture dell’alt-right, quando queste facevano notizia.
Ma in generale penso che potremmo star assistendo a ciò che il filosofo svizzero-tedesco Jean Gebser ha chiamato la «rottura della struttura razionale-mentale della coscienza». Gebser credeva che la coscienza degli esseri umani avesse attraversato, dai nostri primi giorni sulla Terra fino a oggi, diverse “mutazioni”. La più recente è quella che egli ha definito «razionale-mentale»: la visione più o meno scientifica e logica con cui tutti noi siamo cresciuti. Gebser credeva che questa struttura si stesse sgretolando dischiudendo una possibile nuova struttura “integrale”, che in sostanza assorbirebbe quelle precedenti, da lui definite «mitiche», «magiche» e «arcaiche». Ma non ci sono garanzie, e il cambiamento è a dir poco inquietante. Tali mutazioni tendono a distruggere le società in cui si verificano. Per decenni abbiamo assistito a un attacco da parte dell’Occidente alle proprie stesse visioni e idee: lo abbiamo visto nel decostruzionismo, nel postmodernismo, nel femminismo, e così via. Inoltre, come dice giustamente lei, sullo sfondo di tutto questo ci sono una pandemia e una crisi climatica globali. Sembra che ci troviamo in quello che lo storico del xx secolo Arnold Toynbee chiamava il «epoca di disordini»: il momento in cui una civiltà affronta una crisi che determinerà il suo futuro. Se la crisi è troppo grave, la civiltà non riesce a superarla e collassa. Se la crisi non lo è abbastanza, o se viene superata troppo facilmente, la civiltà si rilassa e declina lentamente. Tuttavia, se la crisi è per così dire “su misura”, la civiltà la affronta, la supera e può progredire; io chiamo questa teoria della storia “Riccioli d’Oro”, come la fiaba. Di certo non siamo a corto di crisi. Inoltre Toynbee disse che ci sono due reazioni stereotipate all’“epoca di disordini”: una era quella che lui chiamava «arcaista», il tentativo di tornare a un passato migliore, a una sorta di Età dell’Oro; l’altra era quella «futurista», che cercava di lanciarsi a capofitto in un futuro luminoso, nuovo e scintillante. Penso che oggi sia possibile vederle entrambe in azione: sia con i vari “revival arcaici” che promuovono l’antimodernismo, sia con il movimento transumanista, che vuole liberarsi di ogni aspetto umano e fondersi con la tecnologia.
Prima ancora che sul campo di battaglia, la convinzione di un compito storico necessario da assolvere sembra essersi formata nel pensiero di filosofi come Dugin (e dei suoi ispiratori) e di politici come Putin. Quali filosofie e movimenti culturali hanno preparato il terreno psichico di questa guerra? Di che visione del mondo si tratta? E che cos’è una “politica del caos”?
Una cosa che ho imparato scrivendo The Return of Holy Russia – in cui, devo dire, ho anticipato quanto sta accadendo in Ucraina – è che la nozione russa di “storia” è diversa da quella occidentale. Tutti gli storici che ho menzionato sopra sono filosofi della storia, nel senso che intravedono negli avvenimenti un qualche modello di sviluppo, uno schema, un significato. Questa concezione viene scartata dalla maggior parte degli storici occidentali contemporanei, che cercano di attenersi ai fatti e ai dati, evitando di trarre conclusioni generali. Non esistono “grandi narrazioni”. In Russia la storia è sempre stata concepita come un cammino verso un qualche epilogo, qualche fine, sia nel senso di “conclusione” che di “scopo”. Lo si può vedere in filosofi come Berdjaev e Solov’ëv – entrambi presenti nella lista di libri che Putin ha dato ai suoi governatori qualche anno fa. Entrambi provengono dal tipico background religioso russo, che prende la fine dei tempi un po’ più seriamente rispetto alla Chiesa occidentale, e che considera questo mondo come una strada che conduce a una trasfigurata vita a venire. Berdjaev sostiene che i russi sono un popolo di estremi; per loro, o è un’epoca di prosperità o è il vuoto. Solov’ëv immaginava un “cristianesimo universale” – un po’ come quello che si può trovare in Dostoevskij – che sorgeva in Russia e si diffondeva nel mondo. Uno dei suoi obiettivi sarebbe stato quello di unire la ragione e la scienza dell’Occidente con il senso religioso mistico dell’Oriente, compito che la Russia avrebbe assolto alla perfezione. La convinzione che la storia si stia dirigendo verso un culmine affonda probabilmente le sue radici nell’idea di una seconda venuta di Cristo prevista, al tempo in cui il principe Vladimir si convertì dal paganesimo slavo al cristianesimo greco-ortodosso nel 989 d.C. a Cherson, in un futuro non troppo lontano. Sembra che Putin si identifichi molto con il principe Vladimir. Nel 2014, durante l’annessione della Crimea, prese una pietra da Cherson: questa divenne la prima pietra di una statua del principe Vladimir alta venti metri, eretta nel 2015 appena fuori dal Cremlino.
Questo è un po’ il quadro generale. Con Aleksandr Dugin entriamo in acque – o dovrei dire “terreni”, come vedrete – piuttosto esoteriche. Ho scritto di Dugin ne La stella nera e anche in The Return of Holy Russia. La sua vita ha avuto una strana traiettoria: da dissidente punk antisovietico degli anni Ottanta a docente di geopolitica al Cremlino, con varie frequentazioni dell’ideologia dell’alt-right lungo il cammino. Una delle sue idée fixes è la convinzione che tutte le guerre nel corso della storia siano fondamentalmente parte di una battaglia primordiale, arcaica e perpetua tra due forze archetipiche. Da una parte ci sono gli atlantisti: le civiltà marinare, marittime e mercantili, che oggi, secondo Dugin, hanno l’obiettivo di trasformare il mondo in un mercato globale, se non lo è già diventato. E dall’altra parte c’è la madre di tutti i continenti, l’Eurasia, la più grande massa terrestre del pianeta. L’Eurasia si basa sulla tradizione; gli atlantisti sono invece progressisti. Con il crollo dell’Unione sovietica e l’ascesa del futuro hegeliano di Fukuyama, gli atlantisti sembravano aver vinto la partita. Ma il bisogno di polarità della storia non può permetterlo, e così la nuova civiltà eurasiatica emerge dalle rovine dell’Urss per sfidare il nuovo mondo monopolare. Dugin lo spiega nei suoi libri e ne La quarta teoria politica assembla pezzi di nazionalsocialismo, fascismo, stalinismo, selezionando le “cose migliori”, per presentare un’alternativa al liberalismo, che secondo lui è diventato non solo la teoria politica di maggior successo, ma l’unica apparentemente accettabile. A suo parere questo ha portato la prospettiva occidentale a basarsi sul “tutto è permesso”: una visione per cui ogni cosa, persino la realtà, è mercificata, commercializzata e negoziabile. Tutto è fluido, cangiante, mutevole – un po’ come il terreno acquatico su cui si muovono i mercanti atlantisti. Contro tutto questo Dugin (e Putin con lui) propone la Russia e l’Eurasia come le portatrici del vessillo della “vera fede”, l’ultimo popolo della Tradizione. Sembra paradossale pensare alla Russia, terra di politiche malavitose e di oligarchi ostentati, come promotrice di valori religiosi. Del resto però molti boss mafiosi vanno regolarmente a messa. Il senso della nuova guerra fredda sta qui: non tra capitalismo e comunismo, ma tra l’Occidente iperliberale e il tradizionalismo russo, un caposaldo solido e stabile contro il flusso del cambiamento.
Bisogna sottolineare anche un’altra influenza molto importante su Putin: Ivan Il’in, un pensatore politico molto religioso di estrema destra, anch’egli tra le sue letture consigliate. Esattamente un secolo fa, nel 1922, Il’in, Berdjaev e molti altri membri dell’intellighenzia che Lenin non riusciva a sradicare del tutto (ma che non poteva nemmeno far rimanere in Russia) furono mandati in esilio a bordo delle “navi dei filosofi”, per essere poi lasciati in Europa. Il’in divenne il portavoce del popolo russo bianco emigrato. Era legato a un gruppo di pensatori dell’epoca conosciuti come “eurasiatisti” – l’idea risale a qualche anno prima – e credeva come loro che l’Unione sovietica non sarebbe durata a lungo. Nel 1950 scrisse il saggio What the Dismemberment of Russia Will Mean to the World (“Cosa comporterà lo smembramento della Russia per il mondo”), in cui spiegava cosa sarebbe successo quando l’esperimento marxista fosse fallito. Il’in Ilyin sosteneva che la Russia non fosse uno Stato-nazione come quelli occidentali: per lui era una specie di organismo, un’unità mistica sovrastorica, un po’ come il Volk tedesco ma con un’impronta più cristiana. Quando l’Unione sovietica sarebbe crollata, quest’unità organica sarebbe stata smembrata in altre entità più piccole, separate e indipendenti, che sarebbero state poi assorbite dall’Occidente, neutralizzando così la potenza russa – cosa che, secondo Il’in, l’Occidente ha sempre voluto fare (Il’in è una importante fonte per chi sostiene l’esistenza di una russofobia in Occidente). Questo testo fu ripubblicato in Russia nei primi anni Novanta, e sembrava aver previsto esattamente quello che era appena successo, come anche il caos economico e sociale che seguì il fallimento di un’economia di libero mercato post-sovietica. Aveva previsto anche l’ascesa di un “uomo forte” che avrebbe guidato il popolo fuori dal caos e verso una nuova unità. Inutile dire che Il’in divenne una delle letture più apprezzate da Putin.
Quali sono le sovrapposizioni che in questo caso, e in altri simili accaduti nella storia, si vengono a creare tra geopolitica e metafisica?
La metafisica di cui sopra è legata ai concetti di “essere” e “divenire”, una dicotomia presente fin dagli albori della filosofia occidentale. Per Parmenide il cambiamento e il movimento sono un’illusione, perché tutto fondamentalmente è Uno, e quell’Uno è perfetto. Per Eraclito esiste solo il cambiamento, e non è possibile immergersi due volte nello stesso fiume. Per alcuni, la stabilità e l’immutabilità sono segni di potere e perfezione. Altri sono più attratti dal cambiamento, dal movimento, dalla differenza. La concezione tradizionale e religiosa ha sempre esaltato il tipo di perfezione che si trova nel divino, che non può essere non-umana. La sensibilità più moderna cerca un cambiamento sempre più rapido (chiamato “progresso”) credendo che possa portare a qualcosa di meglio. Il progresso, per persone come Dugin, è tuttavia illusorio: ha spinto l’Occidente in una società in cui tutto è commercializzato e vendibile, e in cui nulla resiste alle richieste di un “Io” occidentale sempre più vorace. Eppure la stabile società “tradizionale” che lui vorrebbe al suo posto è poco più che un sistema totalitario di caste, abbellito con qualche decorazione esoterica, non troppo lontano dalla società teocratica su cui Ivan il Terribile governava con la sua polizia segreta incappucciata di nero, gli oprichniki. Il rischio in tutto ciò è che le persone giustamente critiche nei confronti di alcuni aspetti della modernità siano attratte dalle sue idee, non riconoscendo che il rimedio che Dugin offre per l’ingordigia occidentale è peggiore della malattia stessa.
[Immagine: Viktor Vasnetsov, Il battesimo del principe Vladimir].
Commenti recenti