La normalizzazione della guerra
di LA CITTÀ FUTURA (Renato Caputo)
Causate dalle potenze imperialiste, le guerre tendono ad apparire oggi alla grande massa dei subalterni privi di coscienza di classe come lontane ed estranee, e nel linguaggio comune il termine “guerra” è sempre più utilizzato metaforicamente, nei paesi a capitalismo avanzato, in riferimento alla lotta alla droga o all’immigrazione.
Nella rappresentazione che ne fornisce l’ideologia dominante in occidente i più recenti conflitti – antecedenti l’attuale guerra in Ucraina – e la drammatica realtà delle aggressioni imperialiste sono progressivamente mistificate attraverso immagini di sedicenti operazioni di polizia internazionale. In altri termini le guerre imperialiste, con il loro portato di morti, sofferenze e distruzione sono sempre più occultate, quantomeno in occidente, da immagini pacificanti volte a trasfigurare le aggressioni militari in operazioni umanitarie. In tal modo la percezione della guerra, quantomeno nel mondo occidentale, tende a essere normalizzata. D’altra parte anche al di fuori di questo mondo, lo stesso Putin (anche per far emergere tutta l’ingannevolezza delle aggressioni militari imperialiste) ha definito il suo intervento diretto nella guerra civile ucraina – in atto da quasi un decennio, a seguito della (contro)rivoluzione colorata di Maidan, fra russofoni e nazionalisti ucraini – una operazione speciale volta a denazificare l’Ucraina. In tal modo, quando voluta dalle potenze imperialiste, la guerra, nonostante il suo impatto negativo sul senso comune, avvertita spontaneamente anche dal grande pubblico come un pericolo – al punto che durante la Prima guerra del Golfo vi era stata la corsa nei supermercati per accaparrarsi provviste avvertite come mezzi di sopravvivenza [1], – è stata quasi completamente riabilitata.
Perciò le guerre, quasi sempre causate dalla politica aggressiva delle potenze imperialiste o dei loro alleati, tendono ad apparire oggi, alla grande massa dei subalterni privi di coscienza di classe, come lontane ed estranee al punto che nel linguaggio comune il termine “guerra” – prima dell’attuale conflitto in Ucraina – era sempre più utilizzato metaforicamente, nei paesi a capitalismo avanzato, in riferimento alla sedicente lotta alla droga o all’immigrazione [2].
Dunque, a meno che non la si spacci come voluta dai grandi e piccoli competitori delle potenze imperialiste, la guerra percepita dall’opinione pubblica è quella apparente contro l’immigrazione e la microcriminalità, sempre più spesso associata erroneamente alla prima. Per quanto l’immigrazione sia spesso legata agli effetti della guerra sui civili dei paesi colpiti, spesso proprio dai paesi verso cui si dirigono i flussi migratori, ciò non attenua affatto la richiesta di maggior rigore securitario e la spinta a arruolarsi da volontari in tale conflitto, come da ultimo il fenomeno delle ronde pare confermare.
Così nel cattivo senso comune, artefatto mediante la fabbrica del falso, l’apparente estraneità della guerra tendeva a venir meno – prima dell’intervento diretto russo nella guerra in Ucraina – solo nel caso ci fossero caduti fra le truppe di occupazione occidentali, travestite da peacekeepers o da nostri eroi. In altri termini, gli oltre novanta conflitti in atto nel mondo, ad eccezione della guerra in Ucraina, vengono fatti percepire all’opinione pubblica come qualcosa di lontano, che non ci riguarda, a meno che non siano colpiti i propri soldati, dei compatrioti o, più in generale, degli occidentali. Ben altra è ovviamente la percezione delle popolazioni che subiscono i danni della guerra in modo diretto, le nazioni coinvolte e quelle limitrofe invase dai profughi, o quelle che hanno un’informazione che non cela o edulcora le brutalità della guerra, come ad esempio Al Jazeera nel mondo arabo per quanto concerne il conflitto israelo-palestinese.
Nel frattempo nei paesi imperialisti si è abbandonata del tutto la posizione radicalmente contraria a ogni guerra di aggressione, che non a caso era nata dalla sconfitta storica della politica fascista e nazista ed era sancita dalla stessa Costituzione delle potenze imperialiste più aggressive, uscite completamente sconfitte dalla Seconda guerra mondiale. Per quanto riguarda il nostro paese, che generalmente tende ad anticipare le svolte a destra che poi si producono anche negli altri stati imperialisti, la completa rottura con il dettato costituzionale che ripudia la guerra si è prodotta nel 1993, non a caso subito dopo la fine della guerra fredda, quando lo Stato Maggiore della difesa italiano ha reso noto di ritenere necessario proiettare a lungo raggio le forze armate per difendere ovunque i presunti “interessi vitali” del paese, al fine di “garantire il progresso e il benessere nazionale mantenendo la disponibilità delle fonti e vie di rifornimento dei prodotti energetici e strategici”. Sostanzialmente si è così sottolineata la piena adesione dell’Italia alle aggressioni imperialiste, sempre più normalizzate dopo la dissoluzione del blocco sovietico e del Partito Comunista Italiano.
Tale “nuovo” modo di intendere la guerra si è sostanziato e concretizzato nei conflitti seguenti, che hanno visto scendere in campo come “protagonista” il nostro paese, a partire dalla aggressione imperialista contro la Federazione di Jugoslavia (1999), giustificata per la prima volta con il presunto “diritto d’ingerenza umanitaria”. Più in generale, il “nuovo modello di difesa” ha caratterizzato il modo di intendere la guerra sino quasi ai giorni nostri, passando di mano in mano, da un governo all’altro, dalla prima alla seconda Repubblica, senza mai essere discusso come tale in Parlamento. A elaborarlo e applicarlo sono stati, senza nessuna legittimazione politica, direttamente i vertici delle forze armate, ai quali i governi lasciano piena libertà decisionale, pur trattandosi di una materia di basilare importanza politica per la Repubblica Italiana.
Del resto, il 28 febbraio 1994, giorno in cui è iniziata l’aggressione a quella che fino a pochissimo tempo prima era stata la Federazione Socialista di Jugoslavia, ha segnato anche la prima azione di guerra di fatto dell’Alleanza atlantica. Con essa la Nato ha violato la sua stessa carta costituzionale, il trattato nord atlantico del 4 aprile 1949.
La nuova strategia dell’Alleanza militare è confermata dal fatto che, proprio mentre è in corso la guerra contro la Jugoslavia, viene convocato a Washington, il 23-25 aprile 1999, il vertice della Nato che ufficializza il “nuovo concetto strategico”: nasce “una nuova Alleanza più grande, più capace e più flessibile, impegnata nella difesa collettiva e capace di intraprendere nuove missioni, tra cui l’attivo impegno nella gestione delle crisi, incluse le operazioni di risposte alle crisi”.
Determinante nella guerra di aggressione alla Jugoslavia è stato il ruolo dell’Italia: il governo D’Alema ha messo il territorio italiano, in particolare gli aeroporti, a completa disposizione delle forze armate degli Stati Uniti e di altri paesi, per attuare quello che l’allora presidente del consiglio ha definito “il diritto d’ingerenza umanitaria”.
Tali profondi mutamenti nel modo di interpretare e concepire la guerra trovano il loro compimento nella “guerra al terrore”, in risposta all’attacco dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti [3]. Alla base del nuovo modo che ha stravolto la modalità di condurre la guerra vi sono le misure straordinarie adottate dalle camere legislative degli Stati Uniti a ridosso degli attacchi alle Torri gemelle. Di fronte a un nemico tanto insidioso occorrerebbero misure straordinarie: sono quelle che il Senato e la Camera dei rappresentanti prendono il 14 settembre 2001, decretando che “il Presidente è autorizzato a usare tutta la forza necessaria e appropriata contro quelle nazioni, organizzazioni o persone che egli determina abbiano pianificato, autorizzato, commesso o sostenuto gli attacchi dell’11 settembre 2001, o abbiano dato rifugio a tali organizzazioni o persone, allo scopo di prevenire qualsiasi futuro atto di terrorismo internazionale contro gli Stati Uniti da parte di tali nazioni, organizzazioni o persone”. Gli scenari futuri elaborati dai centri del pensiero strategico occidentale, come il National Intelligence Council statunitense, importanti per capire quali potranno essere gli sviluppi della strategia imperialista, prospettano un mondo nel quale, a causa di una sempre più insidiosa minaccia terrorista, la guerra globale al terrore diverrà un fattore permanente.
La guerra inizia il 7 ottobre 2001 con il bombardamento dell’Afghanistan, effettuato dall’aviazione statunitense e britannica. L’amministrazione Bush è però decisa ad andare fino in fondo nella strumentalizzazione degli attentati, peraltro per diversi aspetti ancora oscuri, dell’11 settembre per rilanciare la politica guerrafondaia finalizzata a difendere in ogni modo il signoraggio del dollaro, che consente agli Stati uniti di importare molte più merci e risorse rispetto a quelle che sono capaci di esportare.
Così nel 2003 gli Stati Uniti e i loro alleati più stretti sono passati a invadere l’Iraq, secondo la teoria della guerra preventiva, anche se non vi sono naturalmente prove di un legame fra gli attentatori dell’11 settembre e il governo iracheno, e le prove addotte sull’esistenza di un arsenale di armi chimiche e batteriologiche pronte ad essere usate dall’Iraq risulteranno false, come del resto quelle relative a una presunta capacità di costruire in breve tempo armi nucleari. Anzi tali presunte “prove” risulteranno costruite a tavolino, con il dichiarato obiettivo di ingannare le opinioni pubbliche occidentali. Poiché il Consiglio di sicurezza dell’Onu si rifiuta di autorizzare la guerra, l’amministrazione Bush semplicemente lo scavalca. “Il consiglio di sicurezza – dichiara Bush il 17 marzo 2003 – non è stato all’altezza delle sue responsabilità e quindi noi ci assumeremo le nostre”. Due giorni dopo, il 19 marzo, inizia la guerra che porterà all’occupazione dell’Iraq, accusato di essere governato da un pericoloso tiranno. Il governo degli Stati Uniti ha tentato di ripetere lo stesso schema adoperato in Iraq, o uno schema analogo, anche a proposito dell’Iran (ma anche di Corea del Nord, Siria, Cuba e Venezuela): anche qui il pericolo delle armi di distruzione di massa, anche qui la democrazia da esportare, un “tiranno” che incarna il Male, il presunto finanziamento del terrorismo internazionale e così via.
Si è venuto così a creare un mondo sempre più determinato dai rapporti di forza in cui, mentre la guerra si fa sempre più distruttiva, si prospetta un nuovo e più pericoloso confronto fra potenze nucleari. Tali allarmanti scenari trovano un inquietante riscontro negli arsenali di armi di distruzione di massa, che non sono stati affatto smantellati dopo la fine della “guerra fredda”. Si calcola che nella sola Europa siano dislocate bombe nucleari – tenute in speciali hangar insieme ai caccia pronti per l’attacco atomico – tattiche B-61 in tre versioni, dotate di una potenza equivalente a 170 mila tonnellate di tritolo, tredici volte maggiore di quella che rase completamente al suolo la città di Hiroshima.
Note:
[1] Era, in effetti, ancora diffusa fra le masse popolari occidentali la rappresentazione prodotta dalle guerre precedenti – dalle guerre mondiali fra potenze imperialiste, all’equilibrio del terrore durante la guerra fredda – a causa delle quali la popolazione civile temeva per la sua stessa incolumità.
[2] Si tratta di sedicenti guerre alla droga o all’immigrazione in quanto chi le combatte è, generalmente, il principale responsabile del fatto che le loro cause reali tendono a perpetuarsi. Tanto più che i principali alfieri della lotta all’immigrazione non fanno altro che favorire, volenti o nolenti, l’immigrazione clandestina, mentre la presunta lotta alla droga è, di fatto, esclusivamente volta a contrastare i pesci piccoli che mettono in discussione il sostanziale monopolio dello spaccio di stupefacenti da parte dei pesci grandi, funzionale al mantenimento degli attuali rapporti di produzione e proprietà.
[3] In realtà l’11 settembre 2001 imprime un’accelerazione a processi preesistenti, a strategie e politiche già in atto, le quali si trasformano in una vera e propria offensiva militare e politica che gli Stati Uniti lanciano, motivandola come risposta agli attacchi terroristici.
Fonte: https://www.lacittafutura.it/editoriali/la-normalizzazione-della-guerra
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