La Normale, il merito, il capitalismo
di Lo Strano Anello (redazione)
Ha sollevato un certo polverone, l’anno scorso, il discorso di due studentesse della Scuola Normale Superiore di Pisa alla cerimonia del Perfezionamento (sarebbe il dottorato ma con un nome più figo), molto critico verso la Scuola stessa, accusata di aver ceduto alle lusinghe del capitalismo ed essersi trasformata in una mostruosa università-azienda.
Come sia possibile accusare di essere diventata un’università-azienda un’istituzione pubblica più vecchia dello stato italiano resta un mistero, ma alle ragazze va dato almeno un merito: hanno attratto l’attenzione su alcuni problemi interni della scuola, seppure hanno dovuto avvolgere la pillola nell’unica capsula che rende digeribile qualsiasi cosa agli intellettuali italiani, ovvero una dolce patina di goloso pseudo-marxismo.
Ma direi, purché se ne parli, bene così.
Non tutti sanno che il sottoscritto è un normalista; non pubblicizzo troppo la cosa per ragioni che saranno chiare alla fine del post, ma da qualche parte a casa dei miei c’è un tubo con la pergamena del diploma di licenza. Il mio rapporto col passato in Normale non è conflittuale ma neppure idilliaco, e credo che la mia esperienza possa aiutare a capire meglio la Normale, cosa dà, cosa non dà, e soprattutto cosa prende.
Ma per parlare di questo servirà una piccola autobiografia professionale che inquadri chi sono stato come studente e chi sono come professionista. Pazientate.
Mi diplomai al liceo classico con 100/100, ma nella classe peggiore della scuola. Cambiavamo professori ogni anno e molti di loro erano incompetenti. Penso nessuno dubiterebbe che fossi il migliore della classe, e uno dei migliori della scuola, ma il problema era che si trattava di una classe pessima che mi fornì una formazione terribilmente lacunosa… specialmente nelle materie scientifiche. Un po’ problematico, se come me nella vita avevi sempre sognato solo di fare il ricercatore.
Fatto sta che alla fine del quinto anno di liceo ero preparato decentemente in biologia, indecentemente in matematica, e la mia preparazione in fisica e chimica era semplicemente assente, come non averle fatte.
Fu mia madre ad avere l’idea che potessi tentare di entrare in Normale, esclusivamente sulla base di una fiducia sconfinata nel mio cervello e nelle sue potenzialità. Ma l’idea mi stuzzicava, la retorica dell’eccellenza mi ha sempre sedotto; mi piace sentirmi più intelligente degli altri e la Normale è il posto ideale per quelli così. Il problema è che l’esame verteva su tre materie: biologia, matematica, una a scelta fra chimica e fisica. Io capivo qualcosa solo della prima. Possibile recuperare qualcosa come tre anni di programma di matematica e fisica in tre mesi?
Be’, sembrava un lavoro per me.
Presi un insegnante privato per recuperare tutta la matematica e fisica che non avevo fatto a scuola e i tre mesi dell’estate dopo la maturità li passai tutti sui libri, ben conscio che con quei presupposti l’impresa di entrare alla Normale fosse virtualmente impossibile. Se non che, faccio lo scritto di biologia e matematica e… toh. Lo passo. Non ci credevo nemmeno io, fu un’assoluta sorpresa. Purtroppo, all’orale non andò altrettanto bene, perché lì c’era anche fisica. Nella preparazione avevo dato la priorità a biologia e matematica perché su quelle due c’era l’esame scritto, e non pensavo nemmeno che l’avrei passato, lo scritto, quindi fisica rimase drammaticamente trascurata. All’esame orale di fisica feci una mezza scena muta, e pazienza; mi sembrava comunque di aver fatto un miracolo ad arrivare sin lì, visto che non credo di esagerare se dico che io, praticamente, matematica e fisica alle superiori non le avevo mai fatte.
Mi iscrissi all’università in un’altra città, e ringraziai comunque la fatica che quell’esame d’ingresso mi aveva costretto a fare: mi divorai la triennale in quattro e quattr’otto e gli esami di matematica e fisica furono forse i più facili di tutti, a quel punto. Sviluppai addirittura un interesse particolare per la biomatematica, al punto che fui uno dei forse sei studenti su trecento che seguirono un corso di complementi di matematica per la biologia. Quando ero prossimo alla laurea, la Normale mi ricontattò per propormi un corso di orientamento, casomai fossi interessato a ritentare da loro per la specialistica. Accettai e, subito dopo la laurea rifeci il test d’ingresso da loro, stavolta superandolo agevolmente ed entrando dunque alla Normale al quarto anno. È dunque importante capire subito un aspetto della mia esperienza in Normale che la rende poco comune: io non sono nato e cresciuto normalista, come la maggior parte di loro, quanto piuttosto sono stato adottato in un secondo momento, sono un normalista “ibrido”, se vogliamo. Se da un lato ciò significa che non ho goduto i momenti più belli e significativi della vita di un normalista, significa anche che sono rimasto in gran parte estraneo e naive rispetto a certe dinamiche interne. Ed è inoltre importante anche sottolineare che la mia esperienza in Normale è un’esperienza da biologo, e i biologi sono in Normale una ristretta minoranza, anche se adeguatamente rispettata e finanziata.
Ciò detto, quei tre anni (me ne servì uno extra per la tesi) furono infernali per me, ma non a causa della Normale. Avevo già avvisaglie di depressione prima del trasloco a Pisa, ma dopo divenne conclamata a causa di tutta una serie di problemi personali. Inevitabilmente la mia carriera accademica ne fu impattata, anche se non abbastanza da farmi deragliare del tutto.
Fintanto che si trattava di dare esami, infatti, andò tutto piuttosto bene, di solito riuscivo a prendere 27 anche non aprendo libro. Il primo, grosso colpo che presi fu quando entrai in un laboratorio per la tesi. Ci rimasi credo tre o sei mesi, non saprei dire di preciso, ma fu un’esperienza disastrosa, forse perfino traumatica. La ragione? Semplicemente, gli esperimenti non mi riuscivano. Almeno in parte sarà stata colpa mia… ho forse un solo vero difetto di tipo professionale, ed è che sono distratto. Molto distratto. Mi dimenticavo i reagenti, perdevo il conto mentre spipettavo, e in generale non sempre raccoglievo alcuni dettagli fondamentali su quello che dovevo fare, se questi magari mi erano stati forniti un po’ “en passant”, e l’aspettativa generale è che tu guadagni prestissimo completa autonomia in laboratorio. Questo tipo di difetti durante un esperimento non te lo puoi permettere, infatti ebbi grossi problemi allora.
Quando parlai della cosa con il supervisor mi fu detto che “tu non stai riuscendo a fare gli esperimenti, e questa non è una fabbrica di tesi”. Fair enough. Lasciai dunque quel laboratorio, il che mi pareva la cosa più semplice a quel punto perché avevo il morale sotto le scarpe, e andai in un altro; questa volta andò meglio, anche perché questo era un lavoro più analitico, leggasi: più numeri e computer, meno pipette e reagenti, e gli esperimenti erano pochi e difficile sbagliarli… E poi a questo punto la mia priorità era riuscire a scrivere una tesi passabile e laurearmi, questo giochetto mi era già costato un anno e non volevo perdere il titolo.
Ci riuscii, mi laureai con 110/110. Senza lode. C’è gente là fuori che per uno scherzo del genere avrebbe commesso omicidi, ma io la presi con filosofia… tanto per cominciare, in quel periodo il grosso delle mie energie intellettuali era impegnato nel pianificare modi per uccidermi (non vi sarete persi le puntata precedenti della mia appassionante autobiografia, vero?), pensavo che sarei stato sottoterra in sei mesi, figurati se potevo crucciarmi tanto per una lode mancata; poi ero consapevole che la lode è una cosa puramente simbolica, nei fatti, e comunque fui diciamo così “ricompensato” ottenendo la lode all’esame interno della Normale, cosa che non è così scontata. Simbolo per simbolo, andavo in pari. Nel frattempo, la depressione incombeva più pesante che mai e mi portò a fare delle scelte poco lucide; per esempio rinunciai alla possibilità di andare all’estero in favore di un PhD in un ateneo italiano.
Il PhD in questione andò malissimo, per una serie di ragioni. Una l’ho già detta, alcuni obbiettivi limiti personali, fra cui la mia leggendaria distrazione. In seconda battuta, col senno di poi, non mi interessava così tanto l’argomento di ricerca, avrei dovuto valutare meglio dove andare. Poi la città dove stavo non faceva proprio per me, il che non aiutò con la depressione.
MI sentivo completamente inutile e quella situazione mi fece scivolare in una grave crisi vocazionale, non solo perché avevo sempre visto la scienza come il mio mestiere e ora pareva proprio che non fossi adatto a quel mestiere, ma anche perché non avevo molte altre opzioni di carriera davanti con la mia laurea in biologia, universalmente una di quelle con i peggiori sbocchi occupazionali.
Ma nel mio PhD era obbligatorio un periodo di sei mesi all’estero, così mi mandarono in America e lì conobbi il mio supervisore in loco. Costui si rivelò una persona estremamente importante nel mio percorso, perché fece una cosa che nessuno aveva mai fatto prima: all’incirca il mio primo giorno di lavoro lì mi fece un lungo colloquio in cui parlammo delle mie aspettative, di quello che mi piace fare, di quelli che sono i miei talenti o le mie debolezze, di cosa mi avesse portato lì, di successi, di delusioni e incidenti.
A seguire, anche in ragione di ciò che avevamo discusso, mi propose una rosa di progetti su cui poter lavorare, e poiché nel nostro colloquio era venuto fuori che io sono un po’ meno bravo nel fare gli esperimenti e molto meglio nella parte di teoria, mi propose anche un piccolo side project che consisteva nell’analizzare quantitativamente alcune registrazioni sonore. Le registrazioni c’erano già, nessun esperimento da fare, solo stare al computer.
Gli altri progetti morirono più o meno miserevolmente, non foss’altro che perché non c’era tempo di svilupparli veramente… ma quello lì mi appassionò un sacco, ne tirai fuori un po’ di dati e mi permise di completare la mia tesi alla bell’e meglio. Il dottorato si concluse, con un paio di pubblicazioni a secondo o terzo nome. Mi piacerebbe dire “sansa infamia e sansa lodo”, ma qualunque addetto ai lavori può confermare che un esito del genere tende molto all’infamia. Anni sprecati.
O forse… no?
Perché ironicamente, quel piccolo progetto analitico, che in realtà non arrivò nemmeno alla pubblicazione, fu la cosa più importante cui mi sia mai dedicato. Mi indicò la via: io ero bravo in quello, io non sapevo fare gli esperimenti… ma sapevo analizzare i dati. Ed eccezionalmente bene. Avrei fatto solo quello, allora.
Mi armai di santa pazienza e dopo laurea e PhD, per un totale di nove anni di studi, mi misi a studiare statistica medica – altri due anni – ignorando lo scetticismo di chi pensava non fosse più tempo per me di rimettersi sui libri. Ma fu la scelta giusta. Improvvisamente mi sentii come Jack Skellington quando riscopre il vero sé stesso: in quell’ambito ero semplicemente molto, ma molto bravo. Come biostatistico in nove mesi pubblicai due paper, uno a primo nome e uno da solo, molto meglio di quanto non fossi riuscito a fare in tre anni di dottorato. Fu l’inizio di una nuova fase della mia vita.
Il resto non ci serve analizzarlo nel dettaglio, ma per riassumere: in sì e no cinque anni ho pubblicato circa venticinque articoli, cinque di questi a primo nome di cui uno a nome unico, e un altro come (co-)corresponding author, e ci tengo a sottolineare che il mio nome non è su quei venticinque articoli perché, tipo, ero nella stessa stanza di chi li ha scritti: nella maggior parte di essi l’analisi l’ho fatta tutta quanta io – naturale, essendo lo statistico – e negli altri ho comunque contribuito attivamente o all’analisi dei dati o alla scrittura.
Ora lavoro nel privato e, anche se mi è rimasto un pochino il cruccio di aver rinunciato all’idea di insegnare in università (e chi ha seguito qualche mio corso tenuto a studenti di master o in corsi residenziali dice che io sia un didatta particolarmente efficace), mi consolo pensando che il mio stipendio è significativamente superiore a quello di un professore universitario, e comunque continuo a fare ricerca anche ora con un discreto output.
Questa storia ha dunque un lieto fine.
Ma che ruolo ha la Normale in questo percorso a lieto fine? Mi ha aiutato? Mi ha abbattuto?
La risposta, che dice tutto nella sua semplicità, è: nessuno dei due. È stata irrilevante, ininfluente, una parentesi senza strascichi.
In Normale sono riuscito ad arrivare alla fine del percorso, vero… ma non sono riuscito a prendermi grandi soddisfazioni, e, quando feci un poco convinto tentativo di entrare al PhD – pardon, Perfezionalmento – da loro, non passai. Dal mio punto di vista possiamo dire in prima approssimazione che in Normale io abbia fallito, anche se tecnicamente sono arrivato alla fine e quindi ho fatto decisamente meglio di moltissimi altri. Non posso dare alla Normale la colpa dei miei fallimenti; non è colpa loro se sono distratto, non è colpa loro se alla quinta volta che l’esperimento fallisce io non me la sento di provare la sesta e piuttosto mi metto a piangere in posizione fetale sul pavimento. Non è colpa della Normale nemmeno la mia depressione.
Ma, ovviamente, non intendo nemmeno darle merito dei miei successi.
Lasciate che sottolinei un paio di cose per capirci meglio: la prima, la Normale è fissata con l’eccellenza. Ecco, se guardiamo il mio curriculum attuale, se guardiamo il ritmo della mia produzione accademica negli ultimi anni, o anche più materialisticamente se consideriamo il mio stipendio, io sono diventato esattamente un’eccellenza. Una di quelle su cui la Normale avrebbe buoni motivi di voler mettere la firma.
Altra cosa da notare: la Scuola Normale è letteralmente ossessionata dalla matematica; costringe i propri studenti di biologia a seguire corsi di matematica e fisica avanzata che al 99.999% dei biologi non serviranno assolutamente a niente, se non a vantarsi di averli seguiti, e di recente obbliga chi voglia entrare a biologia al quarto anno a superare una prova di matematica e fisica, la quale include argomenti che non sono presenti in nessun curriculum da biologo in Italia e nel mondo.
Insomma, ci tengono assai alla mate, pure troppo, si potrebbe sostenere efficacemente.
Alla luce di ciò… com’è possibile che un biologo che aveva nascosto dentro di sé un ottimo biostatistico, e quindi con un bel pallino per la biomatematica, sia stato tre anni dentro la Normale e sia passato completamente sotto il radar? Cioè, nessuno se n’è accorto, manco io. Si direbbe che ci tengano un sacco all’aspetto quantitativo della biologia, no? Nessuno che abbia pensato “mmmh… ma non ti pare che questo qui sia portato per i numeri?”? Fra l’altro… guardate cosa ho fatto pressoché da autodidatta, e immaginate cosa avrei potuto fare, invece, con una guida esperta, con un tutoring avanzato e una preparazione più formale sulle basi algebriche della statistica, del tipo che si può trovare in posti come, non so, non me ne viene in mente nessuno… magari la Scuola Normale Superiore di Pisa?
In realtà non è così sorprendente che sia andata così, perché, come dire… non ci sono corsi di biostatistica, in Normale. Sì, ok, un piccolo corso complementare facoltativo c’è, ma non c’è assolutamente un percorso formativo dedicato. Modello di Drude semplificato per la legge di Ohm locale? Yeah, fondamentale per un biologo, non possono non saperlo! Come funziona un test di ipotesi? Nah, troppo plebeo, possono studiarselo da soli. Difficile identificare un talento per la biostatistica se quella cosa lì proprio non è minimamente considerata nel curriculum.
Inoltre, e questo detto a loro difesa, la mia vocazione statistica era abbastanza nascosta, non c’è dubbio. C’è voluto un professore in America con vocazione alla santità per portarla alla luce. E chiariamolo: non è obbligatorio che un supervisore faccia questo tipo di lavoro, che si metta lì ad un tavolo a fare un discorso di orientamento come quello che fu fatto a me, che faccia quel miglio extra per cercare di tirare fuori i tuoi talenti nascosti, comprendere e tamponare le tue debolezze, cercare di far risplendere i tuoi punti di forza. Non è obbligatorio. Forse ci aspetteremmo che lo facesse, non so, un istituto di educazione di eccellenza, ma di certo non è uno standard of care. In Normale non l’hanno fatto, e a un certo punto uno può dire, “mica erano obbligati”.
Ma vedete, siamo dunque di fronte ad uno strano paradosso: un’istituzione fissata con l’eccellenza, e che considera l’approccio quantitativo ai problemi una sua punta di diamante, si lascia completamente sfuggire da sotto il naso uno studente che eccelle nell’approccio quantitativo. E questo è innegabilmente un dato interessante. Come accade una cosa del genere? Come si lega alle accuse fatte di recente alla Normale?
Apparentemente poco, perché in effetti quando accusano la Normale di essere diventata un’università-azienda (*cavalli che si imbizzarriscono come quando si nomina Frau Blucher*) pare che la accusino proprio della cosa di cui non puoi mai accusarla e che non è una colpa: il fatto di funzionare. La Normale, nella sua spietatezza assoluta, nella sua concentrazione totale ed esclusiva sul risultato, nel suo potare senza remore qualsiasi ramo che mostri un afide verdino su di un germoglio, funziona: produce ricerca di altissima qualità e personale tecnico-scientifico estremamente qualificato. Funziona, cazzo, ce l’avete con lei perché funziona, adesso?
Nah, quello secondo me è un tema che neanche necessiti discussione, la Normale è davvero un centro di ricerca di eccellenza. Tuttavia, occorre capire quali sono le dinamiche che la portano ad essere tale, e se mi chiedeste se la Normale sia un centro di formazione di eccellenza… probabilmente risponderei di no.
Nessuno poteva accorgersi che avessi un talento nascosto per la biometria, e semplicemente perché la Normale non scova talenti nascosti, non fa veramente orientamento, non coltiva amorevolmente piccoli germogli di cultura concimandoli col sapere e innaffiandoli con la motivazione, dando loro direzione e attenzione, fino a farne splendidi bonsai da frutto. La Normale più che lamarckiana è darwiniana: prende le (se)menti migliori che ci sono in giro (ragazzi brillanti), le butta per terra, ci sparge sopra un chilo di fertilizzante (i.e. soldi, tanti tanti soldi), quindi se ne va, se li scorda lì, torna dopo un po’ a vedere chi è sopravvissuto agli agenti atmosferici e ai parassiti.
Ovviamente, sopravvivono solo i più forti: il normalista di successo non è solo estremamente intelligente, ma sa anche già la propria strada, è altamente consapevole di sé e dei propri obbiettivi, ha una determinazione incrollabile, sopporta livelli di pressione assurdi ed è capace se necessario di dedizione maniacale al proprio lavoro. È un survivor, è la specie dominante in un ambiente incredibilmente ostile. Ma la domanda che viene da porci è: quando vediamo una specie che sa fare qualcosa di straordinario, come quei vermi che riescono a sopravvivere nelle sorgenti sulfuree… il merito è dell’ambiente? Cioè, il merito è di chi ha sistematicamente ucciso tutti i più deboli? Perché la Normale, essenzialmente, funziona così: manda avanti i forti attraverso lo sterminio dei deboli. Se quel vermetto rosso è così bravo da sopravvivere in una sorgente sulfurea, non è forse merito del verme, piuttosto che non delle sorgenti che alla fine hanno solo ucciso tutti gli altri?
A nessuno è mai importato molto che io fossi o meno portato per la statistica o per la matematica, perché solo un ingenuo può pensare che quella tortura di esame di matematica per biologi della Normale serva a saggiare che questi biologi siano abbastanza matematici da poter essere considerati biologi; solo un ingenuo può bersi davvero che “la preparazione in campo matematico e fisico data dall’università al biologo non è sufficiente” (wow, Scuola Normale, prima in Italia e nel mondo ad aver capito qual è la preparazione in matematica e fisica “sufficiente” per un biologo; mettiamolo nei suoi achievement nel campo della ricerca). No, tutto ciò non serve a preparare meglio, serve a selezionare di più. Queste cose servono a sterminare chi non ce la fa, sono selezione darwiniana. Quello è il metodo. Quando sorgono problemi coi suoi studenti, la Normale risponde sempre con la selezione: se qualcuno in Normale non ce la fa non è un errore o un problema per la Normale, se non nella misura in cui vuol dire che non era selezionato bene sin dal principio; dunque, la prossima volta bisognerà fare una selezione ancora più severa e precoce. Credo la Normale sia l’unico istituto d’istruzione che considera abbandoni ed espulsioni come dei successi, e che quasi si fregia di quante teste abbia falciato.
Dunque, ora possiamo dare risposta ad alcune domande che l’intervento delle studentesse, da cui prendevo spunto all’inizio, naturalmente scatena. Almeno dal mio punto di vista e per quanto la mia esperienza lo consenta.
È vero che la cultura dell’eccellenza in Normale è tossica come molti dicono?
Secondo me, sì, e con orgoglio. L’idea di eccellenza che la Normale coltiva non ha a che vedere col coltivare gli intelletti fino a portarli al successo accademico o lavorativo, quanto con la selezione di soggetti che, per i propri tratti caratteriali e intellettuali, il successo lo avrebbero avuto comunque, e si basa tutta sull’idea del survival of the fittest. Per essere normalista devi costantemente dimostrartene degno, superando una dopo l’altra tutte le prove del fuoco e del sangue che la Scuola ti mette davanti, e al primo fallimento sei fuori, indipendentemente da quanto tu possa oggettivamente valere e aver dimostrato di valere. Ma nella vita il successo professionale ha senz’altro a che vedere con intelligenza e voglia di mettersi in gioco, ma va ben oltre, e l’idea sottaciuta che l’eccellenza consti tutta di questa attitudine da carrarmato accademico è semplicemente sbagliata. Ironicamente, la Normale aiuta proprio gente che non aveva alcun bisogno di aiuto, se non forse, ça va sans dire, aiuto economico.
È colpa del capitalismo, tutto ciò?
Ma che cazzo c’entra, dai, la Normale ha duecento anni ed è sempre stata così. Please. Adesso sarà colpa di Bezos pure quello che ha fatto Napoleone. Capisco che dire “è colpa del capitalismo” fa fare bella figura, ma NO, i problemi della Normale non sono colpa del capitalismo.
Però, però, però… se si va a vedere qual è il contributo oggettivo della Normale alla formazione dei suoi studenti, difficile non identificare il soldo come quello preponderante. Nessuno può accusare la Normale di non spalancarti le porte dei laboratori più all’avanguardia, di non metterti a disposizione i macchinari più fantascientifici e non ultimo di non mantenerti all’università gratis dai due ai cinque anni. Questi fattori innegabilmente esistono, la Normale ti dà una marcia in più in termini economici e poi con la sua reputazione e i suoi collegamenti. Ma se parliamo di talento, la Normale non solo non te lo dà, ma neanche lo coltiva o alimenta con particolare amorevolezza. Direi che essenzialmente il talento lo prende e basta, lo coscrive; prende talento, rende soldi e reputazione. Non solo: la reputazione si regge poi sugli studenti e sul loro successo, quindi la reputazione della Normale, con tutti gli agganci e ciò che ne consegue, in effetti è “talento riciclato”, raffinato e restituito, lo stesso talento che ha preso agli studenti. Fa un po’ come certi canali youtube che ti chiedono di mandare loro i tuoi video e poi ti fanno il favore di usarli per ottenere traffico sul loro canale… E tu magari accetti perché quella pubblicità ti fa comodo, ma i contenuti restano i tuoi, quel canale non ha fatto niente. Eccetto, of course, fornire soldi e pubblicità.
Non direi che sia così capitalista, come approccio, anche se può sembrarlo da quanto detto sin qui; la persona che ha voluto spendere un po’ più di tempo ed energie su di me io l’ho trovata in America, patria del capitalismo. In generale, nel contesto capitalista, malgrado vi sia un interesse a “spremere” l’impiegato il più possibile (e questo è l’unico aspetto che vedono i marxisti) esistono anche nozioni collegate a ritorno dell’investimento e produttività. Quale azienda, dopo aver investito un patrimonio per formare un tecnico altamente specializzato per anni, lo butterebbe fuori a calci senza batter ciglio solo perché il suo rendimento è sceso un peluzzo sotto l’abituale? Notare che non è che se uno esce dalla Normale la sua carriera è finita, eh, tutt’altro: se passi dalla Normale, e riesci a non suicidarti, dopo quasi sempre fai una bellissima carriera, con o senza il pezzo di carta del diploma in mano. Solo che se ti cacciano magari la tua carriera la vai a fare da un’altra parte, non dentro la Normale… alla “concorrenza”, potremmo dire. In senso aziendale non ha alcun senso investire tanto in qualcuno e poi mandarlo alla concorrenza, no?
Senonché, la Normale non ha concorrenza in senso proprio, e finanziamenti e produttività sono entrambi garantiti, i primi anche solo dal nome della SNS, la seconda dal fatto che quelli che entrano lì dentro hanno il Quoziente Intellettivo medio di Lex Luthor sotto steroidi. Nessuna azienda funziona così e la Scuola Normale non è un’azienda. La Normale funziona come funziona proprio perché può muoversi al di fuori di qualunque logica aziendale, perché il capitale che essa accumula è tutto simbolico e si quantifica in “reputazione”.
Non la definirei affatto un’università-azienda. La Normale è più che altro il culmine evolutivo del sistema universitario italiano.
Qual è la filosofia nelle università?
Ti ho preso sotto la mia ala, ergo ora possiedo la tua anima; sei fortunato ad essere qui dentro, ringrazia sempre; devi dare di più di adesso, indipendentemente da quanto stai già dando; non c’è limite a quanto si possa spremere un ricercatore, uscirà sempre sugo e comunque bisogna essere competitivi mica pizza e fichi; lo studente è come il carbone, se lo spremi a volte va in pezzi e a volte esce un diamante (cit.); le vacanze sono per falliti… etc etc.
Una filosofia in genere disastrosa che genera abbandoni, depressione, stress, burnout, precarietà… e che non ultimo abbassa la qualità della ricerca, perché non è affatto vero che lo studente (o il dottorando o il postdoc) più lo spremi e più produce. Ecco, la differenza è che in Normale, nonostante ciò, la qualità della ricerca non cala, a riprova che, se hai una fiumana di soldi e sei costantemente rifornito di cervelloni stachanovisti da spremere come gialli limoni maturi, quel sistema funziona.
E per come ragiono io, che sono un pragmatico… be’, ragazzi, basta che funzioni, no? Va perfettamente bene. Va detto che non è male che esista un’istituzione universitaria in Italia che seppure secondo standard discutibili valuti davvero il merito, grande assente dal nostro paese, e lo ricompensi anche economicamente in una misura che non permetta di barare sull’ISEE per accedervi. E va anche detto che in effetti non sta scritto da nessuna parte che uno studente debba poter avere accesso a tutto ciò che la Normale offre: è tutto un di più, è tutta una possibilità extra che ti viene data; malgrado non si tratti esattamente di un “regalo”, viene da dire che a caval donato non si guarda in bocca. Se vogliono dare delle risorse extra solo a chi supera una selezione selvaggiamente spietata, insomma, alla fine è una libera scelta di come utilizzare quei soldi, e si sa che i soldi pubblici ognuno li usa come vuole.
Dunque, che problema c’è?
Ok, a parte l’occasionale casualty il problema è che la Normale funziona bene come sistema chiuso, ma è estremamente problematica se guardi cosa rappresenta nel vasto ecosistema universitario italiano. La Normale non ha inventato i suoi metodi da spremiagrumi, tutto l’universo ricerca in Italia li usa (e in buona parte anche fuori), è tutto selvaggiamente competitivo e in modo tutt’altro che sano, e normalmente se applichi quei metodi ad un non-normalista… no, non ottieni un diamante. E a dire il vero, spesso non lo ottieni neanche dal normalista, il diamante, solo che in quel caso basta cacciare via l’indegno e la prossima volta selezioniamo di più, raddoppiamo le prove di matematica, ci infiliamo un esame di ingegneria termonucleare per biologi e problem solved, baby.
La Normale fa da rinforzo positivo ad un sistema malato, ne dà validazione ai più alti livelli, lo giustifica e, purificandolo dalle imperfezioni umane del non-normalista, lo santifica. L’ideale accademico in Italia è la Normale, tutti provano a fare come lei… e a parte che, come obbiettivo, è molto discutibile (ok, saremo pure geni noialtri, ma l’università è fatta anche per chi ha un QI sotto il 135), non è una via praticabile senza avere accesso alle risorse della Normale.
Da qui in avanti potrebbe essere tutta una lunga disamina del mondo dell’accademia e del perché è così deprimente, con la nota a margine che in Normale pure o peggio, è che tutto ciò ha ben poco a che vedere con l’università-azienda, ma se possibile con l’opposto. Per esempio, nel settore privato c’è un’enfasi costante sul lavoro di squadra, sul saper fare la propria parte e far funzionare il team. In università l’enfasi è sempre sul singolo geniale ricercatore, sul suo famoso contributo di ricerca originale, il ricercatore è costantemente spronato a fare da solo e a farsi dare quel benedetto primo nome sull’articolo. E nella Normale devi essere ancora più solitario e geniale, di conseguenza. E potremmo fare una disamina della filosofia superomistica che anima l’ideologia dell’eccellenza in Normale, un concetto per cui lì si coltiva il Genio, e Genio è l’individuo che sa trionfare sull’ambiente ostile, in perfetta solitudine.
Però andremmo oltre gli scopi di questo pezzo. Credo che l’obbiettivo di questo scritto sia un altro: riportare l’attenzione su ciò che non va nell’università. Ed ecco, per me questo potrebbe essere un primo passo: iniziamo a smitizzare la Normale di Pisa.
Ossequi.
Fonte: https://lostranoanello.wordpress.com/2022/03/10/la-normale-il-merito-il-capitalismo/
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