In emergenza, ma senza urgenza: percezioni e dispercezioni dagli ultimi tre anni di vita
di La Fionda (Giulia Tommasi)
Se la sirena d’allarme suona e il modo per salvarsi è prendersi per mano non ci si blocca a questionare la possibilità o realtà che l’altro abbia la mano fredda, sporca o flaccidamente umidiccia: si sa solo che bisognerà tendere verso la prima mano che ci capita a tiro, se la si vuole scampare.
Questo non solo perché c’è un segnale di emergenza, ma perché nell’emergenza si è mossi da una, sempre personalissima, urgenza tale che l’unica opzione contemplabile è quella di stringersi.
Questo nostro falsato e ambiguissimo tempo di normale emergenza quotidiana non ha urgenza e non la genera: sentiamo ripetere che possiamo essere tuttofare e continuiamo a tirare fuori orizzonti di nullafacenza altamente elucubrata.
Partecipo da mesi a flash mob, manifestazioni, presidi per qualsivoglia tema e ho sempre notato una cosa, che qualche giorno fa è stata lampante: sono tutti vecchi (cinquantenni non vogliatemene: sono modi di dire da ventenni) o meglio, mancano giovani. C’è un intero lasso generazionale che sembra perennemente assente, impegnato a fare altro, ignaro dell’esistenza di questi momenti di ritrovo.
Gli occhi addosso di sabato scorso ad un presidio per la pace, organizzato da partitini storici e neonati, mi ringraziavano di essermi fermata: io ventenne in mezzo ad uno sparuto gruppo di arzilli ottantenni, davo loro un senso di vitalità in un’azione che era l’emblema della passività. Li guardavo e ricambio per cortesia dei timidi sorrisi di speranza che loro battaglie (confusissime va detto: per terra c’erano la bandiera della pace accostata a manifesti su Julian Assange, un cartello ‘NO NATO’, l’altro con la scritta ‘abbasso Putin’ e il volantino consegnatomi recitava: “NO guerra SÌ nato”) finalmente avrebbero potuto camminare su gambe giovani, per intenderci quelle con ancora tutti i pezzi originali e non zoppicanti.
Dove sono i giovani? Le persone della tua età che fanno? Due domande mantra ogni volta che sono entrata nel volontariato/attivismo e la risposta è: non lo so. Concretamente non ne ho idea.
Oggi ognuno viaggia in una bolla: ti scegli quei pochi interessi incluso studio o lavoro, segui centinaia di persone sui social che vivono dall’altra parte del globo e non sai che nel tuo quartiere hanno aperto locali in cui fanno corsi gratuiti di lingua, sport e arte. Chiaramente usciamo anche di casa, ma sempre rimanendo nella bolla, ovattati e trasportati in un tempo che corre troppo veloce per essere compreso e che ci permette appena di sopravvivergli: non è ora di far riposare il pensiero, soffermarsi, confrontarsi. C’è un’emergenza continua che ti insegue e vuole venderti i suoi gadget e che ti punta continuamente il dito contro dicendo che devi essere più responsabile, ma intanto sei costretto a guardare e sognare idoli straricchi che non si negano niente e una tantum sfilano con abiti in plastica riciclata o con slogan cuciti addosso cavalcando il trend del momento per rimanere in auge.
Gli Stati stanno dichiarando un’emergenza dietro l’altra, ma non c’è urgenza, soprattutto per noi giovani. È tutto molto lontano, precario o difficile e comunque spaventosamente kitsch o da boomer per metterci la faccia.
Rispetto a questo apparire improvviso c’è apatia o sottostima che frena qualsiasi volontà di intervento.
A questa emergenza perenne che muta d’oggetto e di forma, ma rimane in sostanza, non c’è reazione. Ci sono stati e continuano ad esserci tentativi più o meno funzionanti o funzionali, filtranti o infiltrati di costituzione di quella che solo una volta ho sentito definire bene: accozzaglia refrattaria.
Nel labirinto dell’emergenza hai tante strade davanti a te, sceglierne una qualsiasi vuol dire normalizzare la logica emergenziale, percorrere i tragitti significa rinforzare la struttura: il tempo impiegato a scegliere il percorso più giusto, quello che avrebbe condotto fuori dall’angoscia labirintica, è stato sottratto all’invenzione di strumenti che potessero abbattere le pareti, alla ricerca di persone che potevano fornire il materiale per costruire gli strumenti: è stato sottratto alla vera ricerca della soluzione dell’enigma che sta nel rifiuto della formula labirinto a priori, a prescindere dal fatto che all’entrata vengano indicate le vie d’uscita.
L’abbattimento però necessita di un obiettivo certo, di un muro ben identificato;
e chi costituisce il muro? Forse proprio tu che ragionavi su quale strada percorrere per avere meno fastidi possibili?
La risposta, giusta o sbagliata che sia, non si trova, perché non c’è l’urgenza di trovarla: pian piano, inizialmente sperduti, siamo entrati nel labirinto, l’abbiamo esplorato e a tratti compreso e imbattutici nell’uscita abbiamo preferito intrattenerci dentro.
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