Non è certo la prima volta che l’arma del sesso viene usata o subita da politici di primo livello. Tutti ricordano il «caso Lewinski» che nel 1998 portò il presidente democratico Clinton a un passo dall’impeachment. Prima ancora (1988), un altro democratico di belle speranze, il senatore Gary Hart, dovette abbandonare la corsa alla nomination del partito per una relazione clandestina. E nel 2011 Herman Cain, repubblicano, fu eliminato dalla corsa perché accusato di molestie da quattro donne.
Trump e l’arma del vittimismo
da FULVIO SCAGLIONE (www.fulvioscaglione.com)
E così Donald Trump, l’uomo che da presidente voleva fare di nuovo grande l’America, potrebbe essere arrestato. Intendiamoci, niente sirene o tintinnare di manette, per lui. Se davvero il procuratore distrettuale di Manhattan (New York) emetterà il mandato, Trump dovrebbe presentarsi alla stazione di polizia per farsi prendere le impronte digitali e farsi fare la foto segnaletica. Poi il pagamento della cauzione e via in uno dei suoi attici. Quello che più colpisce, però, è la ragione di tutto questo. In un mondo che affronta la guerra in Ucraina, lo scontro tra Russia e Occidente con annessa minaccia della bomba atomica, la prospettiva di uno scontro tra Usa e Cina, il rimescolamento del Medio Oriente, la questione ambientale e climatica e chissà quanti altri problemi decisivi, Trump, cioè il presidente più divisivo che la storia degli Usa ricordi, si trova impigliato in una storiaccia di sesso con la pornodiva Stormy Daniels.
E non è nemmeno l’aspetto morale della questione a valere, ma quello regolamentare. La Daniels ha raccontato che nel 2016, un mese prima dell’elezione che l’avrebbe portato alla Casa Bianca, Trump le fece avere 130mila dollari perché non parlasse alla stampa della relazione avuta 12 anni prima. Lo staff di Trump ascrisse quei dollari alla voce «spese legali», e mentire sulla natura delle spese per la campagna elettorale è, negli Usa, reato.
Il vittimismo da presunta persecuzione giudiziaria non è nuovo, a nessuna latitudine. E proprio a causa di Trump e della sua teoria della «vittoria rubata», il 6 gennaio del 2021 gli Usa ne hanno visto le estreme conseguenze, con l’assalto al Campidoglio, la devastazione del Parlamento, i morti. Lo sdegno per quei fatti, però, non elimina il rischio che il «caso Trump» rappresenta, ora più di prima, per il Partito democratico e l’eventuale rielezione di Joe Biden.
Un eventuale processo contro Trump durerebbe a lungo e offrirebbe all’ex presidente una magnifica tribuna complottistica. Sull’altro lato della barricata politica un Biden che, a parte il sostegno all’Ucraina contro la Russia, ha pochi successi da vantare e, semmai, qualche nuova crisi da affrontare, come dimostra il fallimento della Silicon Valley Bank e il declino di tanti altri istituti. Non l’aiutano l’età e l’eclissi della vice Kamala Harris, ben presto confinata ai sottoscala della Casa Bianca, che priva lui ma soprattutto il Partito democratico di una possibile alternativa. È un po’ sconsolante pensare agli Usa in questi termini, ma tant’è. Quando si scontrarono, nel 2020, Trump e Biden erano la coppia più vecchia di concorrenti alla presidenza nella storia degli Usa. Se ancora oggi il volto nuovo è il «nemico interno» di Trump, il governatore della Florida Ron De Santis, allora qualche meccanismo politico da quelle parti dev’essersi davvero inceppato.
FONTE: https://www.fulvioscaglione.com/2023/03/20/trump-e-larma-del-vittimismo/
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